Un’immagine votiva cinquecentesca nella chiesa di San Giovanni Battista a Monte Tassi
Ci sono luoghi dove il tempo sembra fermarsi, dove lo spazio appare infinito e la vista arriva lontano, lontanissimo. Il silenzio, la solitudine, qui tutto è fermo, tutto è buono. Un lento, lentissimo camminare a piedi, un girovagare intorno ai muri di un’antica chiesa, senza meta, senza tempo. Il passato si unisce al presente, e il pensiero al futuro diventa riflessione. Poi la mente ad un tratto si ferma, e la memoria riaffiora per ripiombare al contingente.
A questo punto ci dirigiamo dall’anziano custode (uno dei tanti ‘angeli custodi’ che ancora oggi presidiano i luoghi sacri del nostro territorio, spesso, purtroppo, semideserti) ed entriamo in chiesa.
Siamo nella chiesa di San Giovanni Battista a Monte Tassi nel comune di Montegrimano, già parrocchiale ma ora oratorio pressoché abbandonato. Monte Tassi, un tempo popolata e ricchissima, fu dominio della famiglia Gandolfini che qui possedeva una rocca di cui rimangono significative rovine. La località è molto suggestiva: un piccolo abitato su una dorsale rocciosa, raggiungibile da una strada impervia, a pochi chilometri dalla statale che collega i paesi di Montecerignone e Mercatino Conca. Da qui si domina tutta la valle del fiume Conca, dal Carpegna all’Adriatico: un panorama che si perde all’orizzonte, un susseguirsi di monti e alture boscose, e di colline che degradano a valle in un’atmosfera bucolica.
All’interno dell’edificio si conserva un affresco cinquecentesco in discreto stato di conservazione: una pittura murale a ‘vero fresco’, in una nicchia voltata, alta tre metri e larga due, nel muro della controfacciata. E’ l’unico affresco nel territorio diocesano della Val Conca ancora superstite, assai interessante sul piano stilistico. L’affresco gravita su un precipizio profondo quattrocento metri: un enorme baratro nel quale rischia di crollare insieme alla chiesa, già danneggiata da una frana nel 1966. Nell’affresco, di natura prettamente devozionale, sono raffigurati i santi Nicola da Tolentino, Sebastiano e Rocco, secondo l’iconografia più tradizionale e uno stile esemplificato su modelli alla Giovanni Santi (il padre di Raffaello). Ad un primo sguardo è l’immagine di san Sebastiano a catturare l’attenzione: al centro della scena, seminudo e trafitto dalle frecce (simbolo del supplizio cui fu sottoposto il martire cristiano, centurione dell’esercito di Diocleziano, da parte dei suoi compagni arcieri). Il volto di apollinea bellezza non mostra dolore, e lo sguardo dolcissimo sembra rapito; colpi di pennello color rosso, lunghi e liquidissimi, sottolineano i tratti somatici e la capigliatura fluente. A destra è san Rocco, meno giovane del glabro Sebastiano, ma dalla posa aggraziata. Il santo, nato a Montpellier nel 1350, indossa gli abiti di un pellegrino del cinquecento, con mantella rossa lunga sulle ginocchia, una camicia color senape stretta in vita, e una calzamaglia color bianco latte, infilata in stivali dal lembo ricurvo. Con la mano destra impugna il bastone del pellegrino, con la sinistra, invece, solleva la camicia, mostrando la ferita sanguinante sull’inguine (la piaga che si procurò nel pellegrinaggio a Roma, dopo essersi fermato ad Acquapendente ed aver assistito i malati di peste). A sinistra di san Sebastiano è la figura di San Nicola da Tolentino. Un’immagine infrequente nel nostro territorio; rare, infatti, sono le raffigurazioni del monaco agostiniano morto nel 1305, protettore dei bambini e delle gestanti contro le febbri alte. Il santo, con indosso un saio chiaro e la tonsura sul capo, tiene nella destra un sole dal volto umano: in realtà una stella, la stessa che guidò i genitori a Bari, per implorare il patrono Nicola, e chiedere la grazia di un figlio. Dietro ai tre astanti una luce calda inonda un cielo bellissimo, con colori che sfumano all’orizzonte, intervallato da bianchi cirri realizzati a secco: un cielo tipicamente ‘feretrano’.
L’affresco di Monte Tassi, l’unico della Val Conca come già detto, è interessante anche da un punto di vista prettamente storico. Intorno alla rocca dei Gandolfini, infatti, dal possente torrione bipartito e l’abitato cinto da mura, si espandeva un ampio contado per decine di chilometri. Sappiamo che la gente di Monte Tassi era piuttosto abbiente, e per questo invidiata dagli abitanti della vicina Montegrimano. La ricchezza veniva dalla terra, dal lavoro faticoso dei contadini, in particolare dal grano, ma anche dall’allevamento dei cavalli sui prati ai confini con la Repubblica di San Marino, ancor oggi raggiunti dalla brezza marina. Una civiltà umile e contadina, eppure florida. Ma come in ogni epoca, o in ogni civiltà più o meno passata, alla ricchezza e alla calma apparente, si accompagnavano molti pericoli, e fra questi una tremenda sciagura: la peste. Un flagello, paragonabile al terrore di una guerra, capace di sterminare intere famiglie in pochissimo tempo, o intere popolazioni. La peste, malattia infettiva acuta e contagiosa, è causata da un cocco-bacillo, un batterio trasmesso direttamente all’uomo dalla puntura delle pulci che vivono in preferenza sui ratti, oppure attraverso lesioni cutanee e il contatto con tessuti o fluidi corporei di un animale infetto. Le condizioni igieniche e le temperature elevate erano fattori determinanti per il propagarsi di un’epidemia (non dimentichiamo la rapidità con cui i ratti si riproducono proprio nei depositi di provviste o nei granai, e che gli stessi sono assidui frequentatori di sorgenti e corsi d’acqua). La malattia poteva manifestarsi in forme diverse: una forma cutanea, la peste bubbonica di manzoniana memoria, con febbre improvvisa, brividi, e malessere generale seguiti da bubboni sparsi sul corpo e dolori nelle sedi linfonodali (in particolare l’inguine), in questo caso la morte avveniva entro quattro giorni dall’esordio dei sintomi; oppure una forma setticemica o polmonare, altamente contagiosa tramite trasmissione aerogena, che si manifestava con tosse e dolore toracico, e una mortalità tre volte maggiore della precedente. In rare occasioni l’epidemia poteva mutuare in pandemia, con la scomparsa dell’intera popolazione.
L’affresco votivo di Monte Tassi a questo proposito è assai eloquente. La presenza di San Sebastiano e di San Rocco, noti protettori contro la peste, certamente testimonia il verificarsi di uno o più episodi di peste, così come documentato in altri luoghi della diocesi attraverso altre opere d’arte (è il caso delle tele seicentesche di Guido Cagnacci conservate nel Museo Diocesano di Pennabilli). Ma è l’immagine di san Nicola da Tolentino a colpire la nostra attenzione. Anche lui infatti appartiene alla categoria dei protettori contro la peste, proprio contro le febbri alte che colpivano i bambini e le madri. La presenza dell’agostiniano potrebbe alludere ad un episodio di peste di ampie proporzioni, a conclusione del quale venne eseguito l’affresco votivo.
La beata solitudine che oggi si respira visitando la chiesa di Monte Tassi ha poco a che vedere con la sofferenza, il terrore o il silenzio della morte di chi abitò quei luoghi cinquecento anni fa. Ma l’affresco sul precipizio è lì, a ricordarci la precarietà della vita, il senso della sofferenza, e a interrogarci sul passato, sul presente, sul futuro. La nostra diocesi è ricca di luoghi come questi, privilegio per chi è disposto a fermarsi e a riflettere.
Luca Giorgini