Pellegrinaggio in Terra Santa – settimo giorno
30 settembre 2019
La giornata si apre nella chiesa che custodisce la memoria della tomba della Madonna. Precisiamo, qui non c’è il suo corpo: è stata assunta in Cielo. Facciamo in tempo ad assistere all’ultima parte del rito greco-ortodosso. Siamo scesi per una lunga gradinata, fin quasi all’iconostasi, al di là della quale il sacerdote celebra l’Eucaristia. Ci commuove il gesto di una giovane donna che si avvicina per porgere un frammento del pane benedetto che al termine della Messa viene condiviso tra i presenti. La chiesa è fitta di lampadari appesi alla volta. Nuvole di incenso aleggiano sulla navata. Mettiamo anche noi le candeline votive sul candelabro. Ogni fiamma è una preghiera…
Il resto della mattinata è un susseguirsi incalzante di visite a luoghi santi e cari ai cristiani di tutte le confessioni. Siamo gomito a gomito con pellegrini statunitensi, coreani, tedeschi, con fratelli ortodossi di varie appartenenze e protestanti piuttosto compassati. Per chi legge probabilmente è solo un elenco, per noi è una sequenza di forti emozioni: grotta del Getsemani, orto degli ulivi, terrazza del Dominus Flevit. Quando scendiamo alla chiesa dell’Agonia i pellegrini diventano un fiume straripante. Eppure, è possibile avanzare ascoltando la lettura dei fatti evangelici legati ai luoghi: gli auricolari fanno un ottimo servizio! Siamo trasportati dentro a quegli avvenimenti. Nella Messa ci viene ricordato come Gesù, nella Passione, continua a soffrire, a pregare, ad amare. Si imprimono nella memoria le sette parole di Gesù in croce: «ho sete», «tutto è compiuto», «Padre, perdonali», «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito», «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», «Donna ecco tuo figlio, figlio ecco tua madre».
Nel pomeriggio l’attesissima Via Crucis: da vari giorni sono state distribuite le stazioni. A quindici amici viene chiesto di preparare le meditazioni. Non saranno testi convenzionali, ognuno cercherà di condividere un dolore vissuto e scavalcato alla luce della speranza che viene dalla fede. C’è commozione. Qualche lacrima. Molta preghiera. Eppure, la processione si distende (siamo in cinquanta!) tra le stradine della Gerusalemme vecchia, luogo del mercato: mille bancarelle, negozietti uno addossato all’altro, tanta gente che sale e scende, ragazzini che svicolano tra i pellegrini. Nessuno si meraviglia quando cantiamo. Non disturbiamo il brulichio del bazar, ne facciamo parte: il brulichio attorno non disturba la nostra preghiera. Arriviamo al Santo Sepolcro. La scritta è in greco, ma per chi lo sa leggere è chiara: «Non è qui. È risorto dai morti». Sembra ricacciare tutti ad una più vera ricerca di Gesù: «Cercatelo dove è vivo. Cercatelo altrove!». Anche qui una coda interminabile. Ma siamo preparati. I piedi ci dolgono e ogni passo in avanti ci pare una conquista. La grande basilica costantiniana – lo sappiamo bene – è proprietà musulmana, ma lo spazio sacro è rigorosamente spartito, secondo le regole dello “status quo”, da cinque confessioni cristiane. È paradossale quanto siamo vicini e quanto è difficile l’ecumenismo. Finalmente, a gruppi di cinque o sei, entriamo nel Santo Sepolcro. Non è consentito fermarsi; si resta un attimo, si accarezza la pietra su cui il corpo di Gesù ha sostato per un giorno, prima della risurrezione: questa è la testimonianza dei primi discepoli ed il fondamento della fede cristiana. Visitiamo altri angoli ed altre cappelle interne alla basilica. Ci fermiamo a quella che, secondo la tradizione, racchiude la cima del Calvario. Sotto un altare c’è il buco dove fu piantata la croce. Possiamo allungare la mano dentro a quei trenta centimetri di vuoto, ma in realtà sono una voragine di dolore e di amore. «Avendo amato i suoi, li amò sino in fondo»: fino al dono totale di sé, dal primo all’ultimo, fino al fondo del loro mistero, fino alla profondità del suo amore, “buco nero” che annulla tutto il negativo…
La giornata è stata decisamente piena. A casa, come ogni sera, condivisione: perché nulla vada perduto.