Omelia XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella Vescovado, 9 ottobre 2016

Lc 17,11-19

L’evangelista Luca non dimentica di annotare che Gesù sta salendo verso Gerusalemme. Ormai sappiamo che cosa significa per Gesù quel viaggio e quante esperienze interiori vi si condensano: timore, risolutezza, accettazione della missione, sofferenza, adesione alla volontà del Padre… Proprio in questo contesto umano-divino (e quale contesto più adatto?), in prossimità di un villaggio, ai confini tra Galilea e Samaria, accade l’incontro con dieci lebbrosi. La Samaria è una nostra “vecchia conoscenza”: lì è ambientata la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37), in Samaria Gesù incontra la donna che va al pozzo di Giacobbe (Gv 4), in quel territorio Gesù dovrà affrontare la chiusura e l’ostilità degli abitanti (Lc 19,42), ma un giorno la Samaria accoglierà la Parola di Dio (At 8,14).
I dieci lebbrosi che avanzano sono paragonabili ad una micidiale nube tossica, una bomba ad orologeria: il contagio effettivamente è pericoloso. Le porte del villaggio sono ben chiuse. Immagino i discepoli all’erta, in atteggiamento di difesa. Gesù sembra non reclamare protezione. Vede in quegli sventurati tutti noi, tutta l’umanità piagata e sofferente. I lebbrosi stanno a distanza (lo imponeva un rigoroso precetto religioso e sanitario: la malattia è devastante, contagiosa e repellente) e, al di là della barriera, gridano la loro disperazione. Non chiedono nulla, neppure la guarigione. Soltanto chiedono a Gesù Maestro pietà. C’è anche una preghiera “a distanza” che denuncia la situazione esistenziale, e tuttavia non è così distante da non essere ascoltata dal Signore. E poi, esaudita.
Il Vangelo è pieno di guariti, un gioioso corteo che accompagna Gesù. Quei dieci lebbrosi si accorgono d’essere risanati mentre sono per via, come i due di Emmaus che finalmente riconoscono Gesù. Hanno appena intrapreso un viaggio – proibito per i lebbrosi – verso Gerusalemme per mostrarsi ai sacerdoti. L’essersi fidati di Gesù e l’essersi messi in viaggio, già di per sé, è qualcosa di straordinario. Ma accadde anche il miracolo: la lebbra sparisce. A nove di loro basta la guarigione: sono fuori di sé dalla gioia per il dono inatteso. Inebriati per gli abbracci ritrovati dimenticano il donatore che pensa di offrire loro molto di più: dare se stesso, nulla di meno! Uno dei dieci, doppiamente escluso perché lebbroso e perché bastardo (era samaritano!), segue lo slancio del cuore e torna da Gesù a cantare la sua gratitudine con voce grande. Notare i verbi che raccontano la sua avventura: interrompe il viaggio, va dove lo porta il cuore mentre gli altri nove vanno dove li porta la legge; torna sui suoi passi, l’amore ha i suoi dietrofront; canta per la strada, la strada è il suo rigo musicale; si butta ai piedi di Gesù mentre prima, come gli altri nove, stava a distanza a gridare il «Signore pietà»; dice grazie: ha ricevuto un dono senza meritarlo (chi è questo donatore che non dà in base ai meriti, ma per pura gratuità?). La dossologia (gloria di Dio) viene intonata da un samaritano, lo straniero! In lui ora brilla una luce che è solo divina, dovuta al tocco di Gesù: è ritornato uomo, è ritornato figlio. C’è stata una vera conversione ed il ringraziamento del Lebbroso va ben oltre la buona educazione: è il riconoscimento di Gesù come salvatore, espressione della fede che salva. Gesù apprezza il suo gesto, come apprezzerà i baci della peccatrice e la compagnia degli amici nell’ora della prova al Getzemani. Gesù – perché no? – vuole ed insegna la gratitudine. Per quanto riguarda colui che era lebbroso dobbiamo annotare infine come, insieme alla sua carne, sono rifioriti attorno a lui rapporti nuovi: con Dio, con gli altri, con se stesso. Nove sono i guariti, uno salvato! Era una samaritano… Perché non potrebbe succedere così anche a noi?