Omelia XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Monastero S. Antonio in Pennabilli, 4 settenbre 2016

1.

Anche se a distanza ho seguito con interesse l’iniziativa di questa tre giorni di studio sul dialogo interreligioso. Il mio pensiero sull’argomento vi è noto: l’avete posto su una paginetta del programma. Lo ribadisco c’è una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo. Sull’esempio del Signore Gesù, il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia. Rischio di ripetere cose già sentite in questi giorni. Soprattutto rischio di risultare generico…
Aprirci agli altri non impoverisce, ma rende più ricchi perché ci fa conoscere la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo. Un vero incontro implica la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere, al di là della superficie. Ciò che si agita nel suo cuore, che cosa cerca veramente. In questo modo può iniziare quel dialogo che fa avanzare nel cammino verso nuove sintesi ed arricchisce l’uno e l’altro. Questa è la sfida davanti alla quale si trovano tutti gli uomini di buona volontà.

2.

La pagina evangelica di questa domenica ci provoca fortemente.
Gesù ti propone di seguirlo, di far strada con lui, di stare in famigliarità con lui. Dice: Se vuoi. Sei di fronte ad un invito e ad una decisione importante. Quando ha risuonato in te questo dialogo? Tanto tempo fa? E’ una storia vecchia? E’ successo di recente? Ne sei ancora inebriato? Sei in attesa? Considera che sta accadendo adesso. “Fac ut vocaris”!
Seguiamo, in diretta, la lettura evangelica. C’è tanta folla attorno a Gesù, ma non si esalta per il numero, non cerca l’applauso della gente. Gesù si volta. Indirizza lo sguardo dritto negli occhi di chi gli sta di fronte. Cerca la totalità del cuore fosse anche solo da parte dei Dodici e, paradossalmente, cerca anche di meno: cerca il cuore di uno… di me, di te! Da uno che abbia, come Pietro, cuore e coraggio di ripetere: Tu solo, Signore, hai parole di vita!

3.

Gesù detta le condizioni. Il suo linguaggio, solitamente positivo, amabile e solare, lascia di stucco: parla di urgenza, rinuncia, distacco… chiede di preferirlo a parenti e amici… Ancora: chiede di preferirlo persino alla propria vita… Infine chiede di portare la propria croce venendo dietro a lui… cioè, il massimo dell’amore. La scuola di Gesù è diversa da quelle rabbiniche del suo tempo. Alla scuola dei rabbi si andava per libera scelta per un percorso formativo; alla fine, constatato il profitto, si poteva diventare rabbi a propria volta. Non è così per i discepoli di Gesù: essi rispondono ad una chiamata profetica che li lega per sempre non solo all’insegnamento del maestro, ma alla sua persona e al suo destino. Si capisce allora l’esigenza di posporre i legami famigliari, richiesta inaudita nell’ambiente delle scuole rabbiniche. Si capisce soprattutto il vero significato dell’invito a portare la croce. L’evangelista Luca insiste sul valore permanente e quotidiano di tale realtà: il discepolo è indissolubilmente legato al destino del Crocifisso-risorto, e ciò implica comunione di morte e di vita con lui. Ognuno ha la sua croce, cioè sofferenze e prove di ogni genere; ma il contesto suggerisce una comprensione più radicale: la disponibilità a dare la vita per il Signore, fosse anche il martirio, comunque a lasciare tutto per il Tutto! Portare la croce non è sinonimo di passiva rassegnazione, appartiene alla definizione del discepolo di Gesù. Negli Atti degli apostoli viene ricordata l’esortazione di Paolo e Barnaba alle comunità appena evangelizzate: E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (At 14,22). Il senso è dato da Gesù stesso che ha aperto la via alla piena realizzazione attraverso il dono di sé. E’ la nuova scuola del discepolo.
Il discepolo di Gesù mette le esigenze dello stare con Gesù al primo posto, anche se comportano lacerazioni. Se capite male queste parole sono pericolose: fanno pensare ad un cristianesimo tetro, per sconfitti e deboli oppure da integralisti e “talebani”. Ma l’accento va posto sul verbo principale: essere discepolo (espressione che torna ben tre volte in poche righe, quasi un responsorio); il centro della frase non è sulla rinuncia, ma sulla conquista; non sul punto di partenza, ma sul traguardo. Non sui «no», ma sui «sì». Gesù non vuole tanto, vuole tutto!

4.

La radicalità della sequela va compresa sullo sfondo della novità escatologica che Gesù sta inaugurando: il regno di Dio. A volte siamo condizionati da una lettura moralistica dei vangeli: ci fermiamo ai buoni sentimenti, alle belle parole… In verità il nocciolo della predicazione di Gesù sta nell’annuncio di un evento decisivo che sta per accadere gioioso e minaccioso a seconda di come ci si pone di fronte ad esso: coincide con la sua persona!
Tuttavia, la decisione di seguirlo non è irrazionale o emotiva. Prima – dice Gesù – siediti a ragionare, come i protagonisti delle due mini parabole conclusive. Senza riflessione, senza consapevolezza delle proprie inconsistenze, senza ascolto della Parola di Dio e senza preghiera, come si può anche solo immaginare una vita evangelica?