Omelia Santa Messa Crismale
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 24 marzo 2016
Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21
«Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». È il primo pensiero per questa liturgia crismale nell’Anno Santo, Giubileo della misericordia.
«La tua sposa, Signore, davanti alla eccedenza del tuo amore, davanti alle meraviglie della Pasqua e alla ricchezza dei tuoi doni nuziali, prova qualcosa di simile allo stupore smarrito di Pietro dopo la pesca miracolosa e come lui dice: «Signore, allontanati da me che sono un peccatore!» (Lc 5,8).
Allora, guarda alla fede oggettiva della tua Chiesa e non alle nostre preferenze liturgiche, teologiche, pastorali; non alle nostre emozioni o al nostro sentirci bene o sentirci a disagio È nella fede della tua Chiesa nella quale vogliamo essere ben edificati, nella quale vogliamo radicarci in profondità e nella quale espanderci nella testimonianza. Non tener conto delle nostre meschinità, dei nostri dubbi, delle nostre infedeltà. Dico di me: «Non guardare ai miei peccati, ai miei difetti, ma alla fede dei miei presbiteri sui quali hai effuso il tuo Santo Spirito, che hai consacrato con l’unzione e mandato a portare il lieto annuncio ai poveri» (cfr. Is 61,1-3).
Ci siamo riuniti per celebrare il triplice dono pasquale: l’Eucaristia, il sacerdozio, il comandamento nuovo. È la nostra Pasqua; festa di famiglia, perché formiamo un solo presbiterio unito da un vincolo irrevocabile e sacramentale. Nessuno si tiri indietro, nessuno ci privi del dono della sua presenza né oggi, né nelle altre occasioni d’incontro.
Godiamo insieme dei frutti di questo Anno Santo. Godiamone insieme ai nostri fratelli consacrati e laici. E poiché è festa di famiglia, prendiamo spunto dai ricordi di casa. Ricordiamo i sacerdoti che ci hanno lasciato in questi mesi: ben quattro!
Per loro l’espressione della gratitudine: «Hanno faticato molto per il Signore» (cfr. Rom 16,6)) e per la sua Chiesa. Per loro la nostra preghiera di suffragio. Pur con le loro singolarità, coi tratti della formazione ricevuta, con il logorio dei tanti anni di ministero «portando il peso della giornata e il caldo» (direbbe Gesù, cfr. Mt 20,12), sono stati una “parola viva” del Vangelo per tutti e, per noi confratelli, rappresentazione di qualche aspetto della vocazione sacerdotale. Una eredità da custodire. Pagine di teologia del sacerdozio.
Don Edoardo Barlassina ci ha ricordato come Gesù – l’unico sacerdote – chiede al suo ministro di condividere prima opere e giorni, andando e predicando di villaggio in villaggio, accostando persone e situazioni, e poi di essere imitatore della sua vita nascosta, nel silenzio, nel nascondimento, nella preghiera nota solo a Dio. È questo il momento nel quale il Signore chiama ancor più vicino a sé per far rivivere passione e morte, per celebrare il sacrificio da lui offerto con la sua esistenza. E questo nella prospettiva luminosa della Risurrezione.
Don Edoardo, celebre per le sue barzellette e freddure, ci ha però elevato a questi orizzonti. È più importante, più fecondo, per noi e per gli altri, il nostro fare, pur intelligente, zelante, gratificante, o è più proficuo ed edificante quello che il Signore può domandarci nella rinuncia, nell’impotenza, nel sacrificio, nella croce? Don Edoardo fu più dono alla diocesi nei quaranta anni di vita attiva o negli altri dieci di vita nascosta?
Don Giuliano Sarti, un prete semplice, contemplativo, a servizio in piccoli posti, è stato un giullare che ha saputo cantare anche sul letto di morte, in attesa del suo Signore. Uno degli effetti dell’Eucaristia è lo spirito di giovinezza: «Verrò all’altare di Dio – canta il Salmo 42 – al Dio che rinnova la mia giovinezza» (v.4). Si va avanti negli anni, ma si avanza nella giovinezza dello Spirito. Don Giuliano pur con le asperità del suo temperamento e con le sue impennate ci ha ricordato lo Spirito delle beatitudini. Ad esempio, «beati gli operatori di pace». Una beatitudine che don Giuliano ha espresso nella fedeltà al confessionale che, in pratica, è fedeltà al nascondimento, al buio, alla monotonia, al segreto. Lì il perdono, la pace, la crescita nel continuo confronto di sé con Cristo. Lì ogni sacerdote diviene testimone stupito degli incontri e dei colloqui di Dio con le anime.
Lì il sacerdote è dispensatore dei misteri divini (cfr. 1Cor 4,1). Ci sarebbe da essere presi da timore e poi dal desiderio di dar gloria a Dio che ha dato agli uomini un tale potere: rimettere i peccati e risuscitare la grazia. Donare pace. Beati gli operatori di pace!
Don Egel Morilla ci ha riproposto la vita sacerdotale come viaggio per la missione, nella prospettiva di fede di Abramo. La sua vita è stata un lungo viaggio, dall’Argentina alla Repubblica di San Marino.
Anche per noi – bambini o giovani – tutto è iniziato con le parole dette da Dio ad Abramo: «Parti. Esci dalla casa di tuo padre, dalla tua terra per un paese che ti indicherò. Sarai una benedizione» (cfr. Gen 12,1-2).
L’avventura di un prete è una benedizione: egli benedice in nome di Dio, è ministro della grazia sacramentale di Cristo, proclama la Parola, riunisce e guida la comunità, è un segno e una provocazione nella società secolarizzata. «Lasciate un paese senza prete – diceva il Santo Curato d’Ars – e vedrete in quali condizioni lo ritroverete». La ragione più profonda del prete-benedizione sta nel mistero profondo della sua vocazione (mistero che sfugge ai sociologi, agli psicologi, agli opinionisti), e precisamente nell’essere una esistenza offerta, conforme al Sacrificio del suo Signore che celebra sull’altare. Ci sovviene, allora, un’altra pagina sulla vicenda di Abramo: Dio gli chiede il sacrificio di Isacco, suo figlio. Per don Egel e per ciascun sacerdote come per Abramo inizia, allora, un viaggio in salita e drammatico: distacco dai propri programmi, perfino dalle opere dell’apostolato e calo della salute…
Le membra del sacerdote sono le membra della redenzione con l’offerta del quotidiano servizio alla propria gente, con la corrispondenza al dono del celibato, con il fedele rimanere aggrappato alla croce di Cristo e sono membra della Redenzione, ancor più alla fine.
Infine, don Franco Ferrerio, uomo spirituale, ruvido talvolta, ma sulla breccia fino all’ultimo. Ci ha insegnato come «la pietra scartata dai costruttori è diventata pietra d’angolo» (cfr. Sal 118,22-23). Il Signore ha in cuore per la sua vigna nuovi operai al posto dei primi vignaioli che non l’hanno accolto (cfr. Mt 21,33-44).
Dio ha stima di noi, a dispetto di noi stessi!
Ricava dai nostri errori e dalle nostre fragilità beni migliori; sui nostri sgarbi ricava affreschi sorprendenti.
Grazie a questi sacerdoti. Solo esistenze di sofferenza e di vertigini? No di certo. Sono state esistenze ricche di consolazioni, di amicizia e, soprattutto di prossimità del Signore.
L’anno scorso erano qui con noi, ora sono concelebranti nella liturgia del Cielo.
E adesso rinnoviamo davanti ai nostri fratelli e alle nostre sorelle qui presenti, con la generosità e l’incanto della prima volta, le promesse sacerdotali, la promessa di essere ultimi e servi di tutti, di essere consolatori del popolo di Dio, di essere custodi della memoria del Signore, misericordiosi e degni di fede, di essere perseveranti nell’intercessione, di essere uniti alla vittima pura.
Quella volta, nel Cenacolo, Gesù chiese agli Apostoli – che avevano perseverato con lui nelle sue prove – «quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla!» (Lc 22,28-35).
Sarà così anche per noi.
Cari fedeli che siete a celebrare con noi la consacrazione dei sacri oli e del crisma, grazie per la vostra preghiera per noi.
Un grazie particolare – forse l’avete dimenticato ma io ne conservo un ricordo vivo e commosso – per il vostro nuovo applauso quando nell’autunno scorso avete sottolineato la gratitudine verso i sacerdoti come ministri della misericordia e della Riconciliazione.
Ci ritroveremo tutti insieme laici e sacerdoti, giovani e adulti, a fine anno pastorale, l’11 giugno, per celebrare una assemblea diocesana nella quale ringraziare il Signore dei suoi doni, chiedere perdono delle inconsistenze, ripartire con nuovo slancio: «Eccoci!».