Omelia Quinta Domenica di Quaresima
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 22 marzo 2015
Il vangelo registra il disappunto dei farisei perché a Gesù «va dietro il mondo intero» (Gv 12,19). Ecco: alcuni dei rappresentanti di quel mondo intero vogliono vedere Gesù. Questi greci sono saliti a Gerusalemme non come turisti, ma come pellegrini. Condividono, in qualche modo, l’attesa messianica così fortemente avvertita dai contemporanei di Gesù: vogliono conoscere il Messia. Non osano fermare Gesù direttamente, ma chiedono un appuntamento attraverso Filippo e Andrea che – notare – portano un nome greco, provengono da Betsaida, città di frontiera, e che quindi hanno familiarità con il mondo greco.
Per incontrare il Signore è necessaria la mediazione della comunità. Vogliamo che i nostri amici incontrino Gesù? Lo incontreranno attraverso la nostra preghiera e la nostra testimonianza. L’accompagnamento nel cammino di fede è più efficace poi se c’è una certa affinità fra chi cerca e chi accompagna a Gesù. Ricordate l’incontro di Filippo con il ministro della regina Candace, episodio raccontato nel libro degli Atti (cf. At 8). Filippo sale sul carro a fianco di quel cercatore. Potremmo concludere: i primi apostoli dei giovani sono i giovani… i primi apostoli delle famiglie sono le famiglie…
Nonostante la movimentata anticamera, il vangelo non menziona quell’incontro. Ma la richiesta dei greci segna la grande svolta nella vicenda storica e salvifica di Gesù: «È giunta l’ora». Per sette volte, in precedenza, Gesù ha contenuto l’impazienza dei discepoli: «Non è giunta la mia ora»; solo la madre, a Cana, ha simbolicamente anticipato quell’ora sul quadrante della storia. L’ora è il momento supremo dell’elevazione del Figlio dell’Uomo, il suo innalzamento. È per questa ora che Gesù è venuto. Ora di trionfo? Sì, di vittoria, ma è “ora di croce”. Gesù delude le attese dei greci; essi pensano di incontrare il Gesù dei miracoli, del successo tra la gente, dell’ammirazione. Egli invece parla di un chicco di grano che, solo se muore, porta molto frutto. Il Signore non si sottrae a chi lo vuole incontrare, ma sappia che ogni cammino di ricerca comincia con l’uscire da uno schema pagano dove Dio è al servizio delle nostre attese, qualunque esse siano: di successo familiare, aziendale o pastorale.
Nel vangelo di Giovanni, Gesù sta in croce non come un vinto, ma come un vincitore, non come uno schiavo, ma come un re. Il patibolo diventa il suo trono, da esso diventa centro di gravità universale: «Attirerò tutti a me». La menzione di Gesù come seme di grano dà l’occasione all’evangelista di inserire, proprio in questo punto, il detto di Gesù: «Perdere per trovare la propria vita». Ma attenzione: il vero centro della frase non è il morire, ma il molto frutto. Lo sguardo del Signore è sulla fecondità più che sul sacrificio. Vivere veramente, per Gesù, è dare la vita. Trattenerla per sé è morire. La visione teologica della croce come trono glorioso non toglie nulla alla serietà della passione. L’evangelista Giovanni non riferisce come i Sinottici il combattimento spirituale che Gesù affronta nel Getsemani prima della passione, ma qui è evidente il combattimento drammatico che Gesù sostiene, sospeso tra la sua volontà di sopravvivenza e la fede nel disegno del Padre. Quella di Gesù non è una rassegnazione storica né uno slancio eroico, ma soltanto fede. Siamo di fronte al Fiat di Gesù: «Padre, l’anima mia è turbata». Non togliamo i turbamenti di Gesù dai vangeli. Ci danno forza. Quella di Gesù è la paura del coraggioso, di uno che ama la sua vita con tutte le forze. Con il suo “sì” – «è per quest’ora che sono venuto» – fa risplendere la gloria del Padre, ma anche la gloria dell’uomo che crede.