Omelia per insediamento Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

San Marino (Basilica del Santo), 1 aprile 2017

Es 20,1-17
Sal 18
Mt 5,13-18

Eccellenze, Signore e Signori,
Carissimi tutti,
ogni volta che partecipo a questo avvicendamento istituzionale e a questa liturgia resto stupito ed entusiasta. E non tanto per il folclore. Ho avuto modo di ripeterlo in altre circostanze: la piccola Repubblica di San Marino compone e ricompone un bozzetto di umanità futura, riconciliata e unita per la presenza di tanti signori ambasciatori. Si resta poi ammirati nel constatare come l’autorità non sia appannaggio o arbitrio di qualcuno, ma sia una realtà per la quale due persone accettano di mettersi a disposizione e, una volta compiuto il servizio, passano la mano. Questa volta Capitani Reggenti sono due signore: ne siamo felici e auguriamo loro un buon lavoro.
Pur fedeli alla propria sensibilità, cultura e formazione, i Capitani Reggenti diventano rappresentanti di tutti i cittadini. Ogni sammarinese può dire: «Ecco chi mi rappresenta!». Essi sono costituiti arbitri al di sopra delle parti, ma io preferirei dire con tutte le parti, perché ascoltano, vedono e accolgono il meglio di ogni componente della comunità. Senza preclusioni. Senza pregiudizi. A servizio, semplicemente.
La tradizione ha pensato che il peso della responsabilità fosse condiviso da due persone. Insieme. Per aiutarsi? Per ridimensionare il potere individuale? Per una migliore pratica del discernimento? Per una condivisa rappresentanza? Del resto non mandava a due a due i suoi discepoli anche Gesù, il Maestro? (cfr. Mc 6,7).
So, per la confidenza di qualcuno, che non si esce da questo mandato, senza esserne profondamente cambiati.
Eccoci, oggi, davanti ad un testo biblico importante che in dieci parole (decalogo) racconta l’uomo. Queste dieci parole hanno la pretesa di cogliere l’essenziale. Sono state scritte su pietra, ma ognuno le porta in sé: non c’è persona, a qualsiasi popolo o cultura appartenga, che non vi legga la propria verità.
Il decalogo – già presente in un antico testo mesopotamico, detto Codice di Hammurabi (XVIII sec. a.C.) – ci ha raggiunto con forma e linguaggio giuridico; indica all’uomo che cosa deve fare e che cosa non deve fare. Ma, in realtà, va ben oltre: dice all’uomo chi egli è; riguarda più l’essere che il fare. Diogene, secondo l’antico racconto, si aggirava per la piazza, in pieno giorno e, con la lanterna in mano, cercava l’uomo. La piazza è il meraviglioso alveare che l’uomo ha creato con i suoi commerci e la trama delle sue relazioni. Ma in esso paradossalmente può smarrirsi. La lanterna è una provocazione per chi presume di vederci chiaro, mentre si inganna inebriandosi troppo presto di ciò che luccica, di ciò che appaga immediatamente e di ciò che sembra più facile.
Uomo, chi sei?
Abbiamo bisogno di entrare in noi stessi e di scoprire l’altissima dignità a cui siamo chiamati. Nessuno – vorrei dire – si condanni alla mediocrità: il decalogo, parola di chi ci ha creati, ci viene in aiuto. La sua lettura non moralistica ci fa comprendere la natura profonda della nostra vocazione. I «non fare…», i «non commettere…», i «ricordati…», non sono altro che la definizione della nostra vera natura: siamo fatti per l’infinito, per la relazione, per desideri smisurati.
Fatti per l’infinito.
La Bibbia non disdegna di usare il linguaggio colorito del mondo orientale: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso» (Es 20, 5). Dio non tollera che la sua creatura più preziosa gli sia alienata e passi sotto padroni che lo derubino della sua libertà e della sua anima.
Fatti per la relazione.
Dio si offre agli uomini attraverso padri e madri; egli è colui che viene raccontato dal padre al figlio. Ma Dio non è soltanto raccontato; anche nella condizione umana più deturpata, là dove il padre non racconta Dio, cede ai genitori il suo attributo di creatore e solo attraverso loro suscita una nuova creatura e l’associa alla propria volontà di amore. La vita e Dio scendono così insieme trasportati da un’interrotta successione di padri e di madri per tutta la durata della storia.
Fatti per desideri smisurati.
Dio è il Signore della vita. Per un disegno di amore la effonde e l’affida all’uomo perché ne diventi responsabile. Questo è motivo di gioia e di gratitudine. Talvolta, però, se ne sente il peso e la fatica. «L’ingresso costa troppo caro per la nostra tasca. E perciò mi affretto a restituire il mio biglietto d’ingresso». Così parla Ivan al fratello Alyosha ne “I fratelli Karamazov” di F.M. Dostoevskij. La nostra fondamentale e prima chiamata consiste nella fedeltà alla vita, nel pronunciare ogni giorno il nostro “sì” coraggioso e responsabile: «Vivere è rispondere».
Il comando «non desiderare» non è ostile alla vita, ma combatte l’egoismo, non si limita al diniego, ma propone un’educazione del desiderio. Anche Dio ha desideri smisurati: ci desidera. Ci desidera tutti.
Gesù è venuto per raccontarci il desiderio di Dio. Per questo: «Nessuna delle dieci parole venga cancellata e non cada neppure uno iota o un trattino da esse» (cfr. Mt 5,18).