Omelia nella cerimonia di investitura dei Capitani Reggenti
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino, 1 ottobre 2017
XXVI domenica del Tempo Ordinario
(da registrazione)
Ez 18,25-28
Sal 24
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32
Eccellentissimi Capitani Reggenti,
grazie per il servizio di questo semestre.
Auguri ai nuovi Capitani Reggenti. Confidenzialmente verrebbe da chiedervi chissà cosa raccontate di questa esperienza dal punto di vista umano alle persone a voi amiche. Non si esce da questo incarico uguali a come si era entrati. I rapporti con le persone, le esigenze dei più poveri e di chi bussa per cercar lavoro, i contatti internazionali; tutte esperienze che lasciano sicuramente un segno nel cuore.
Voglio anche salutare mons. Giorgio Chezza, incaricato d’Affari della Santa Sede; gli chiedo di portare il nostro saluto a mons. Bernardini, che cede l’incarico ad un nuovo nunzio che verrà nominato.
Infine un saluto ai Segretari di Stato, agli Ambasciatori e a tutti i fratelli e le sorelle che questa domenica gremiscono la Basilica.
Ci troviamo di fronte ad un Vangelo stupendo. Una vigna, due figli e un padre. La vigna non è soltanto fatica e sudore. La vigna è gioia, futuro, promessa di vita, grappoli pieni di sole… Perché allora sottrarsi all’invito di lavorare nella vigna, perché guardare soltanto all’attenzione e alla perseveranza che richiede, alle levatacce che occorrono per averne cura? Ognuno ha la sua vigna. Non parlo solo delle vigne che fanno il buon vino sammarinese, ma parlo della vigna della nostra famiglia, della vigna dello Stato, della vigna della pubblica amministrazione. Ad ognuno la propria responsabilità, la risposta; del resto vivere è rispondere. Rispondere alla chiamata: «Va’ a lavorare nella vigna». I due figli si sbagliano si di fronte alla vigna, perché la vedono solo come un impegno e una fatica; sono poco lungimiranti, anche poco generosi, ma si sbagliano soprattutto sul padre. Lo vedono come un padrone che dà ordini. Il primo dei due figli si ribella, è capriccioso, impulsivo, si contrappone al padre: «Non ne ho voglia, non ci vado»: si smarca. L’altro figlio si potrebbe dire che è servile, dice di sì, è ossequioso nei confronti del padre, forse si rassegna, constata che non si può far diversamente, ma appena vede una possibilità, anziché andare nella vigna, se la “svigna”. Forse il padre era lontano, forse qualcuno ha preso il suo posto, fatto sta che si imbosca.
Facciamo ora il passaggio dalla parabola alla vita quotidiana. Uomini di chiesa – parto da chi sta sul presbiterio – uomini della cultura, uomini della politica, tutti: quante volte ci sbagliamo su Dio perché lo vediamo come un padre padrone e, per difenderci, ci sottraiamo, ci viene da scappare, oppure rasentiamo l’ipocrisia, la doppiezza. Andiamo ma per servilismo. In realtà i due figli sussistono in ciascuno di noi. In ciascuno di noi c’è un po’ del figlio che si sottrae, si ribella, dice “no” e c’è il figlio che dice “sì” e poi non fa. Questa giornata è il momento per ridire il nostro “sì”, non per servilismo, ma perché vogliamo far nostro il progetto della vigna. La vigna è il bene comune, la nostra vocazione, il nostro servizio. Dio non è un padre padrone, ma un amico che ci chiama a collaborare con lui, trasmettendoci la sua passione per la vita. In conclusione, un “sì” che sia “sì”, che ci fa passare dalle parole ai fatti. Non vale dire «Signore, Signore» (cfr. Mt 7,21). Il Vangelo ci ricorda che non l’appartenenza etnico-religiosa mi aggrega al popolo di Gesù, ma la decisione fattiva, operosa, di essere dei suoi. Questo brano di Vangelo costituisce in un certo senso una sberla. Ben venga questa sberla se ci aiuta ad uscire dal perbenismo spirituale. Gesù tenta anche questa via con noi, abilmente ci provoca con l’idea del sorpasso. Ci sono persone che noi riteniamo fuori strada, “bocce perse”, che invece ci passano davanti. Gesù allude al rifiuto di chi dovrebbe accoglierlo. Noi, oggi, vogliamo dire a lui – e dire anche di fronte alla nostra coscienza – il nostro «sì, ci vado nella vigna, per amore».