Omelia nelle Esequie di don Orazio Paolucci
Pennabilli (RN), Cattedrale, 7 febbraio 2022
Fil 3,20-21
Sal 62
Gv 11,17-27
Sì, Signore Gesù, crediamo che tu sei la risurrezione e la vita. Hai chiamato a te don Orazio. La vita del sacerdote, e don Orazio è stato prete fino in fondo, è tutta una chiamata, una vocazione. Dalla prima, con la quale Orazio, appena fanciullo, è invitato a stare vicino a Gesù, all’altra, quando il Signore gli offre la sua missione e i suoi poteri, alle successive chiamate, varie e in vari ruoli, sino all’ultima chiamata, la vocazione eterna. «Ne costituì Dodici perché stessero con lui» (Mc 3,14), perché don Orazio stesse sempre con lui. La nostra cittadinanza – è stato letto poco fa – è nei cieli. Il Signore Gesù Cristo trasforma il nostro corpo per conformarlo al suo corpo glorioso.
Don Orazio ha corrisposto alle chiamate del Signore servendo tra noi con gioia. Quando l’ha chiamato per l’ultimo tratto si raccolse e fu pronto. Ha pregato, ha ricevuto i sacramenti della Riconciliazione, dell’Eucaristia e della Santa Unzione, carezza di Gesù per chi è malato. Gli avevo scritto qualche settimana prima: «Il Signore ci vuole bene e non ci chiede altro che ricominciare sempre a fare la sua volontà. Ci proviamo, ci proviamo insieme». Mi rispose: «Grazie, Eccellenza. Da ammalato ci proviamo a fare la sua…». La sua volontà.
La morte, come la vita, di un sacerdote offre a tutti motivi di riflessione, di confronto e di verifica vocazionale. Insieme all’amore a Gesù Cristo tre amori hanno caratterizzato la vita di don Orazio.
Ha amato le relazioni. Discreto, non appariscente, ma tessitore di rapporti, senza preclusioni; legami tenui per la riservatezza del suo stile, ma cari perché non invadenti. A lui si applicherebbe bene il detto di san Francesco di Sales: «Si attira di più con una goccia di miele che con una botte di aceto».
Penso al suo servizio in Curia: accoglienza delle persone, garbo nella gestione delle telefonate… Fili soltanto, si dirà, ma preziosi, gradevoli perché gratuiti. Grande considerazione e grande amore aveva per le monache della Rupe: me lo ha ripetuto anche durante il ricovero in ospedale, dispiaciuto di non poter salire al monastero.
Ha amato le lettere: saggi, articoli, letteratura classica (l’anno scorso aveva terminato “I miserabili” di Victor Hugo), la scuola. «La cura per l’istruzione è amore» (Sap 6,17), dice il libro della Sapienza.
Ha amato quanto ingentilisce lo spirito, quanto apre spazi di contemplazione sulla bellezza, sugli ideali, su Dio, quanto favorisce contatti, conversazioni e tutto ciò che introduce a rapporti di conoscenza, di amicizia, di collaborazione. Ricordava senza ombra di invidia il condiscepolo mons. Sambi, entrato da Pennabilli in servizio alla Santa Sede, divenuto poi Nunzio apostolico (ultima nunziatura a Washington). Agli studi del percorso seminaristico ha aggiunto gli studi universitari ad Urbino con laurea in Filosofia. Ha fatto scuola ad un gran numero di alunni di cui diceva: «M’han fatto tribolare, ma gli ho voluto tanto bene!» e dai quali è stato riamato, anche e soprattutto ben oltre la scuola.
La sera si ritirava nel suo studiolo (scherzosamente lo pensavo “lo studiolo del duca di Urbino”) e componeva messaggi da inviare ai parrocchiani e agli amici: un servizio soprattutto per chi non veniva in chiesa, diceva, e che comunque lui desiderava raggiungere per nutrire di Vangelo: «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). La bellezza con la quale va presentata la Parola di Dio è più che un dovere, soprattutto per noi sacerdoti, perché questa parola divina risplenda maggiormente, consegnata da una adeguata parola umana, e corra fra la gente e più facilmente, se così si può dire, la conquisti con la forza intrinseca della sua verità.
Ha amato la vita nascosta. Passando di frequente accanto alla sua casetta, timidamente affacciata sulla strada, il mio pensiero andava immancabilmente alla casa di Betania, la casa degli amici di Gesù: Marta, Maria e Lazzaro. Un saluto commosso rivolgo alle sorelle di don Orazio con l’assicurazione della nostra vicinanza e della nostra preghiera. Il primo pensiero, dopo aver appreso la notizia della morte di don Orazio, è stato proprio per loro.
Fu mandato in piccoli paesi, ma col cuore aperto su tutta la Chiesa e sul mondo. Fu mandato a Macerata Feltria, Rocca Pratiffi, Gattara, Maiolo e poi Miratoio e Ca’ Romano, ma non ha amato di meno la sua Pennabilli, apprezzando iniziative e dialogando con tutti. Nel Vangelo si dice di Gesù che la sua missione era di andare di villaggio in villaggio ad annunziare il Regno e a fare del bene (cfr. Mc 6,6; Mt 13,58; Lc 9,6). Un sacerdote, come Gesù, è inviato a passare da un luogo all’altro, da una comunità all’altra, per permettere così a Gesù di continuare nel tempo il suo ministero, umilmente.
Don Orazio se n’è andato in punta di piedi. Tutti noi, spiazzati dal rapido assalto della malattia, quasi non ce ne siamo accorti e adesso siamo impegnati a rovistare nella memoria l’ultima chiacchierata con lui, l’ultimo saluto, l’ultimo sorriso, eredità preziosa. Ha accettato solo per compiacenza al vescovo la nomina di canonico della Cattedrale. Voi tutti sapete quanto ha dato, sapete anche che non si è mai sopravvalutato, al contrario. Pregando per lui, con lui e ora insieme a tutti voi, sento la bellezza e la validità di queste parole del Messale Romano: «Di tutti noi abbi misericordia, donaci di avere parte alla vita eterna insieme alla beata Maria, Vergine e Madre di Dio; con gli apostoli, i santi, che in ogni tempo ti furono graditi, e in Gesù Cristo, tuo Figlio, canteremo la tua lode e la tua gloria».
Saluto don Orazio con le parole che il Siracide rivolge a Mosè: «Fu amato da Dio, fu amato dagli uomini, il suo ricordo è benedizione» (Sir 45,1).