Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario
Pennabilli (RN), Monastero della Rupe, 2 luglio 2023
Celebrazione conclusiva della Summer school “Lab.Ora. Lavorare e Lavorarsi”
2Re 4,8-11.14-16
Sal 88
Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42
«Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna che lo trattenne a mangiare». Anche noi siamo degli “intrattenuti”. Non solo perché le sorelle agostiniane ci hanno invitato a vivere questi giorni con loro, ma perché Gesù «ha preparato per noi una mensa di fronte ai nostri nemici» (cfr. Sal 22). È talmente grande il suo dono che dobbiamo rallegrarci e soprattutto ringraziare. Siamo degli “intrattenuti” a mangiare con il Signore! Rendiamo grazie per tutto quello che lui opera in noi. Circa tre settimane fa – lo dico per chi non appartiene a questa Diocesi – abbiamo fatto un grande convegno diocesano dove era bandito il “parlare di noi”: si poteva parlare di noi, delle nostre comunità, soltanto per raccontare quello che il Signore era andato facendo in ciascuno di noi e nelle comunità. Il Signore è un grande “operaio” e fa con la “materia” che ha, che siamo noi. Tuttavia, può fare dei capolavori: vedo della santità attorno a me!
Sono andato in una parrocchia in un pomeriggio molto caldo: in chiesa ho trovato un parroco giovane, che ha studiato a Roma, mentre pregava il Rosario con sei-sette persone. Mi ha commosso. Quel sacerdote giovane, che lavora molto, ha saputo sostare in preghiera con quelle persone. Aveva “scelto la parte migliore”, che non lo sottraeva, successivamente, agli altri impegni. Lavoro sì, ma senza esserne fagocitati. Lavoro e libertà.
Il brano evangelico proclamato oggi è durissimo. La redazione di Luca è ancora più forte. Ricordo che, a Ferrara, era venuto Rinaldo Fabris, un grande biblista morto alcuni anni fa. Era un sacerdote piccolo di statura, ma incantava quando faceva qualche lezione. Una volta aveva approfondito una pagina analoga, ma nella redazione dell’evangelista Luca. Ad un certo punto si alzò un professore universitario e disse: «Don Rinaldo, che genere letterario è questo?». Rinaldo Fabris si alzò in piedi – si fece un grande silenzio – e disse semplicemente: «Gesù ha parlato proprio così». Perché queste espressioni così dure? Penso a tanti fratelli sacerdoti che, questa mattina, nelle chiese cercheranno di dimostrare che Gesù non è contro gli affetti familiari, contro le relazioni, contro le esperienze che catturano la nostra vita, come il lavoro. Il lavoro ti prende, soprattutto se è un lavoro che ti piace, nel quale esprimi la tua creatività e se ti stanno a cuore le persone per cui lavori, che rendono bello e atteso il lavoro stesso. Il rapporto con Gesù si colloca all’interno di relazioni di questo tipo: Gesù parla volentieri del rapporto tra padre, madre, figlio, figlia, sposo, sposa, fratello, sorella… per dire che la relazione con lui non è una teoria o una cerimonia, ma una relazione vera. È chiaro che è un modo iperbolico di esprimersi: Gesù non chiede di amare “di meno”, ma “di più”. Ad esempio, nell’architettura della vita succede che una ragazza, che ama alla follia la propria famiglia, incontra un ragazzo che gli rapisce il cuore. Non è che non ama più la sua mamma o il suo papà, ma accade, in quella ragazza, qualcosa di diverso. Gesù approva l’amore per il fratello, la sorella, la mamma, i figli, un amore che induce a dare la vita: non chiede una sottrazione… Faccio un altro esempio: quando mio fratello Silvio, paraplegico, partiva per la missione in Congo era un momento straziante per la nostra famiglia. Noi eravamo “pieni” della relazione con Silvio; persino il postino era coinvolto: quando arrivava la lettera di Silvio dall’Africa, il postino veniva immediatamente a casa nostra. Ebbene, nell’architettura del Regno di Dio Gesù ha questa pretesa: vuole una relazione d’amore che comprende e allarga l’orizzonte all’infinito. Rinaldo Fabris direbbe: «Ha detto proprio così».
Poi Gesù aggiunge: «Chi non prende la propria croce…». Qual è la mia croce? Si possono dare un’infinità di interpretazioni… Alcuni esegeti pensano sia un detto che Gesù non possa aver usato (Erode il Grande aveva abolito la crocifissione; Gesù è stato crocifisso proprio nel momento storico in cui è stata reintrodotta questa forma di condanna). Forse è un detto della comunità primitiva per dire l’eventualità reale della persecuzione. Può essere che Gesù pensasse ad Isacco caricato della croce, cioè della legna sulla quale sarebbe stato immolato (cfr. Gn 22,6). Altri esegeti ritengono che Gesù pensasse al testo di Ezechiele (cfr. Ez 9,4) in cui si dice che, nel momento del grande giudizio, a Gerusalemme ci sarebbe stato uno scriba vestito di bianco che sarebbe passato con uno stilo per tracciare un “tau” sulla fronte di coloro che si sono mantenuti fedeli (il “tau” è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce). Gesù chiede al suo discepolo di prendere il “tau” dell’affidamento: «Signore, noi ci affidiamo, tu ci hai invitati alla tua mensa».
Penso alla croce anche in termini più personalistici: la croce è quello che non mi va di me, che mi fa vergognare di me, che vorrei scaricare dalle mie spalle, ma che fa parte di me. Gesù vuole che io vada dietro a lui con la mia croce, con quello che sono, come sono. Allora dico: «Va’ con lui, prendi la tua croce e seguilo. Se fai così, diventerai degno di lui».
«Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Un bicchiere d’acqua fresca che ristori. Tante persone ce lo offrono: dobbiamo avere gratitudine per chi lavora per noi. Anche le cose pubbliche sono un dono. «Grazie, Signore, per il bicchiere d’acqua che ci offri con la cultura, l’arte, il lavoro. A nostra volta prendiamo il lavoro come un atto d’amore. Si lavora per amore.