Omelia nella Veglia pasquale
Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 aprile 2020
Mt 28,1-10
È risorto! Quanto abbiamo pensato durante quest’anno alla Veglia di Pasqua… Ci aspettavamo fosse il momento clou della vita pastorale della nostra Diocesi. Apparentemente non lo è, ma lo è nel suo significato più profondo. È una Pasqua diversa, celebrata a porte chiuse, senza il concorso dei fedeli e in tono dimesso. E, per la celebrazione più laica, è una Pasqua senza lo scambio di abbracci e strette di mano, senza grigliate sulla spiaggia e gite fuori porta. Si celebra nella propria casa, trincerati a dispetto di una primavera che non si è mai vista così scintillante. Per quasi tutti, una Pasqua senza Messa, senza poter nutrirsi dell’Eucaristia. C’è chi ne patisce per davvero, perché non sente la Messa come una semplice tradizione: gli manca quel “Pane” che dà forza e coraggio per il cammino. Tutti abbiamo bisogno dei riti. I riti uniscono, rinsaldano l’identità, educano il desiderio e l’attesa. Le campane di San Marino e del Montefeltro suoneranno a festa e canteranno “Alleluia” a dispetto del virus che ci ha messo in croce.
Non ci stanchiamo di ripetere la gratitudine per chi è in prima linea: medici e infermieri, gente dell’informazione e gente della speranza (i miei preti e le mie suore), autorità e forze dell’ordine, impiegati e semplici cittadini. Questi ultimi tra i più importanti e decisivi protagonisti, con l’arma totale a disposizione: stare a casa!
Ho un sogno grande: so che nella preghiera può realizzarsi. Vorrei salissimo insieme al luogo in cui Gesù fu deposto dopo il terribile Venerdì Santo per rivivere lo stupore e la gioia delle donne e dei primi discepoli nell’apprendere che è risorto. «Non è qui. È vivo!». Vorrei stringere forte la mano di chi è in cammino ma esita, perché si trova in un momento di buio, di chi non ha speranza ed in cuor suo ha già detto «basta!». Ci sono momenti della vita che ci appaiono oscuri, nei quali non si vedono alternative. C’è chi sulla soglia del sepolcro ha già dovuto affacciarsi e vi ritorna piangendo. Ma, proprio lì, il dono inatteso. Dall’oscurità alla luce: «Io sono con voi – dice il Signore Risorto – tutti i giorni» (Mt 28,20). È davvero grande quello che è successo la mattina di Pasqua. È indispensabile per i cristiani del terzo millennio tornare alle radici della fede e dare solidità ad esse: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?».
La risurrezione di Gesù – l’abbiamo detto tante volte con una metafora – è il Big Bang della fede cristiana: nei primi istanti ha messo in moto poche persone, ma una quantità smisurata di energia. I primi cristiani capivano che era successo qualcosa di indicibile. Alla fine del primo secolo tutto il bacino del Mediterraneo era costellato da migliaia di piccole comunità di credenti nel Signore Gesù. San Paolo, per portare l’annuncio percorse quindicimila chilometri (con i mezzi di allora!). Domani, nel racconto del Vangelo di Giovanni, vedremo com’è importante il tema della corsa. Tutti corrono, attorno a quel sepolcro vuoto, gridano che lui è vivo. La risurrezione di Gesù è un messaggio in espansione, una notizia che vuole raggiungere tutti e dare speranza. Particolarmente noi, in questi giorni di “Coronavirus”, dobbiamo portare questo annuncio.
Permettete un’altra sottolineatura: quando si dice “vita eterna” si pensa subito all’aldilà. C’è una restrizione del significato di questa parola che rischia di farne perdere il sapore pasquale, rinviando ai riti funebri, alla morte, a qualcosa che verrà dopo. Invece, la parola “vita eterna” ha molto a che fare col presente. La parola ebraica ‘olam significava l’insieme di tutti i beni possibili che rendono piena, ricca, significativa, l’esistenza. Sarà soprattutto nella teologia di Giovanni che emergerà come la vita sia “eterna” non solo nel prolungamento del tempo, che non finisce, perché Dio è eterno. Giovanni aveva a disposizione due parole della lingua parlata allora: la parola zoe (ζωή) e la parola bios (βίος). Ha scelto la parola zoe che dice la qualità della vita, più che la sua quantità in lunghezza. Noi riceviamo il dono della vita eterna: non pensiamo soltanto al prolungamento nell’aldilà, ma alla grazia del Battesimo che ci avvolge, ci rende figli di Dio. Giovanni puntualizzerà: «E lo siamo realmente» (1Gv 3,1), abbiamo la sua zoe, la sua vita. Preferisco allora parlare di “vita nuova”! La “vita nuova” ha subito la sua ricaduta, qui e ora, la sua espansione che si chiama santità, inseparabile dalla fraternità che unisce ontologicamente i figli di Dio. Allora la fraternità fra noi non è una convenzione. L’uomo redento diviene dimora dello Spirito e già da adesso gode dei frutti della risurrezione. Auguri, buona vita! Che la vita di Gesù sia sempre con noi. Vi saluto con queste parole: gente di Pasqua! Alleluia!