Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Cattedrale di Pennabilli, 1 novembre 2017

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

(da registrazione)

La festa dei Santi ci introduce ad alcune giornate speciali. Siamo invitati dalla liturgia ad una straordinaria esperienza di comunione spirituale: la Chiesa militante – che siamo noi in cammino sulla terra –, la Chiesa in via di purificazione, che si prepara all’incontro “faccia a faccia” col Signore, e la Chiesa trionfante, che gode già della visione beatifica. Non tre Chiese, ma un’unica Chiesa. Per questo siamo pieni di speranza, nonostante tutto quello che accade ogni giorno. Consentitemi un paragone forse poco adeguato: chi traina i vagoni è il Signore Gesù e noi siamo uniti a lui in questo cammino. Formiamo un unico corpo, una unità saldissima e c’è reciproco scambio. Non viviamo in tre compartimenti stagni. La Chiesa pellegrinante, che siamo noi, gode dell’intercessione dei santi, si sente presa per mano. La Chiesa in purificazione gode delle nostre preghiere di questi giorni. La Chiesa trionfante fa risplendere la bellezza del mistero pasquale, inondata di luce, di canti, di fiori. Anche la liturgia di domani, che a volte viene scambiata per una liturgia mesta, in realtà è una liturgia pasquale, dove tutto ci parla della risurrezione: quella di Gesù e quella a cui siamo destinati anche noi.
Propongo una breve riflessione sulla solennità di oggi. Come si riconosce un santo? Dalla gioia, anzitutto. Il santo è una persona non necessariamente straordinaria, ma straordinariamente centrata sul tesoro che rende la sua vita felice, armoniosa. «Un santo triste – diceva una mia maestra – è un triste santo». Benedetto XIV, il bolognese card. Lambertini, aveva stabilito alcune regole per la procedura di riconoscimento della eroicità delle virtù di un cristiano. Le aveva sintetizzate in tre parole. Un santo è uno che fa la volontà di Dio sempre, subito e con gioia. Ecco le beatitudini! Poveri, miti, puri, affamati, perseguitati… Gesù li chiama “beati”, cioè felici.
Provo a dire qualcosa del mio rapporto con i santi. Oggi ci sono varie modalità, oltre ai libri, per conoscere la vita dei santi. Ricordo che mi ha commosso, di recente, il film sulla vita di Giuseppe Moscati, il medico napoletano vissuto all’inizio del nostro secolo, professore universitario che ha lasciato un’impronta nella storia della medicina. Egli amava immensamente i poveri. Erano i tempi della Prima Guerra Mondiale. Ha svuotato la sua casa per aiutare i poveri che assisteva personalmente.
Da ragazzo ammiravo padre Damiano De Veuster, un olandese andato missionario nelle Isole Hawaii, in particolare in un’isoletta, Molokai, in cui erano concentrati i lebbrosi. In lui, come in tanti santi missionari, ammiravo l’aspetto eroico, avventuroso e romantico. Il mio proposito da adolescente era: anch’io voglio essere santo. In seguito mi sono reso conto che è pura illusione pensare che la santità sia frutto dei nostri sforzi.
Da giovane mi ha soccorso l’incontro con Teresa di Lisieux, “la mia ragazza” (così la chiamavo). L’ho incontrata nei giorni della disillusione: non riuscivo ad essere santo, nonostante gli sforzi sinceri. La santità – concludevo – non è per me. Facevo un po’ come la volpe che non arriva all’uva e diceva che non era matura. Così mi mettevo il cuore in pace, restando nella mediocrità. Teresa mi ha insegnato la “piccola via” di mettere amore in ogni cosa e le “sei esse”, un detto da lei composto in sei parole che iniziano per “esse”: «Sarò santa se sarò santa subito». Una scoperta: la santità è un dono da accogliere nel momento presente, dono che Dio semina in ciascuno di noi, costituito da note da eseguire nel difficile spartito della nostra vita.
Veniamo ad oggi. Guardo il foglietto della Messa che avete fra le mani; guardo l’icona del frontespizio: sono riportati grandi santi “moderni”, personalità gigantesche, rese tali dalla grazia: don Bosco, San Giovanni Paolo II, Santa Faustina Kowalska, Santa Teresa di Calcutta, San Padre Pio… Ne godo. Metterei un’altra icona, se fossi l’editore del foglietto. Metterei i volti non solo di personalità straordinarie. Penso, ad esempio, alla signora Mercedes, una giovane sposa colpita da una malattia rara (la sclerodermia), lasciata dal marito con una bambina sordomuta. Questa giovane mamma che viveva il dramma della malattia mi ha insegnato – in quel periodo facevo l’animatore vocazionale in diocesi – che, oltre alla vocazione al sacerdozio e alla vocazione alla famiglia, può esserci anche una vocazione alla sofferenza. Poi ricordo un’altra ragazza, si chiamava Paola Volpe. Era non vedente, ma sapeva parlare di Gesù Luce ai miei studenti. Aggiungerei anche il volto di un sacerdote, don Dario, parroco di dodici minuscole parrocchie sull’Appennino parmense. Lo vedo santo perché cercava di vedere nei parrocchiani il lato positivo (facile vedere i difetti!), che annotava puntualmente nel Liber mortuorum. Leggendo le “adnotationes” sembrava che in paese fossero vissuti solo dei santi. Quando si recava in città, a Parma, dava tutto quello che aveva ai poveri e non aveva più i soldi per pagare il biglietto di ritorno. Inoltre, era capace di stare – senza inquietarsi – mezza giornata bloccato dalla neve: viveva con solennità l’attimo presente.
Faccio un’ultima osservazione: molti fra i santi sono giovani. Forse il Signore li porta presto con sé perché hanno raggiunto la maturità? Forse vengono rapiti presso di lui per essere preservati da questo mondo? Domande inutili. Tante volte questi giovani santi vengono ricordati per la loro sofferenza e per la morte prematura, prima che abbiano “gustato” la vita fino in fondo, l’amicizia, l’amore… Ci si spaventa pensando: «Dio mi prende in parola appena riesco a dirgli che voglio essere suo». Pregiudizi, luoghi comuni, paure: pensieri da superare. Il Signore sa qual è il nostro vero bene. Dicevo che la santità è per i giovani; mi correggo: è per tutti, ma è certo che la santità rende giovani, perché porta a vivere gli aspetti più belli e caratteristici della giovinezza. Queste sono le qualità dei giovani: la generosità, perché c’è assenza di calcolo; la totalitarietà: o tutto o niente; l’audacia dei grandi progetti, perché i giovani spesso sono leggeri, senza troppe sovrastrutture e portati facilmente verso i sogni.
Concludo con le parole dell’Apocalisse guardando a voi: «Vidi…una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello». (Ap 7,9). Una folla immensa di santi. Ci siamo anche noi in questa grande carovana di cercatori.
Ricordiamo sempre che l’opposto del peccato non è la virtù, ma la fede: credere in ciò che il Signore saprà fare in ciascuno di noi quando gli diciamo il nostro “sì”.