Omelia nella Solennità di San Leone
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2017
Gn 12,1-4
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27
Cari presbiteri,
cari fratelli e sorelle,
a dispetto della iconografia tradizionale, che rappresenta San Leone come vecchio austero e rude, la liturgia – soprattutto le letture – è tutta in prospettiva giovanile.
Avete sentito dalla Genesi le parole rivolte ad Abram dedicate a quegli inizi benedetti, agli orizzonti futuri di cammino, anzi di avventura? «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1).
Non sono queste le parole piene di grazia e di speranza che accompagnano la crescita dei giovani chiamati ad entrare nella vita (la ricerca di una scuola o di una università, poi di una sistemazione lavorativa e per molti il matrimonio)? Si tratta sempre di una ricerca vocazionale, bisognosa di coraggio e di valori.
Avete sentito l’invito alla gioia ribadito dalla seconda lettura? «Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; e lo ripeto ancora, rallegratevi» (Fil 4,4). La gioia è la caratteristica di tutte le aurore, ma può ringiovanire anche i nostri tramonti. Ricordate il salmo: «Introibo ad altare Dei; ad Deum qui laetificat iuventutem meam» (Sal 43, 4)? Invito alla gioia ma anche al necessario, indispensabile e conseguente programma educativo, attualissimo per i nostri ragazzi, da non trascurare da noi adulti educatori: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, è quello che dovete fare» (Fil 4,9).
L’invito di Paolo ai Filippesi ha una corrispondenza nella parabola evangelica dell’architetto saggio che costruisce sulla roccia. Cade la pioggia, straripano fiumi, soffiano venti su quella casa, ma non cade (cfr. Mt 7,24-25).
Ci stiamo preparando alla celebrazione del Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. È vero, il Sinodo è dei Vescovi che si riuniscono col Papa, ma tutto il popolo di Dio è in certo modo coinvolto. Anzitutto con la preghiera, con la riflessione, con l’invio di un contributo e, particolarmente, col mettersi in ascolto dei giovani e poi col dovere di rivolgere loro con franchezza una parola, perché, a loro volta hanno bisogno di ascoltare e di imparare. Guai rinunciare alla missione educativa (cfr. 1Cor 9,16).
Papa Francesco ci chiede in questo tempo una attenzione speciale ai giovani, a tutti i giovani, alle loro attese, speranze, fragilità e debolezze. Una richiesta che diventa impegnativa e urgente, dato che secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla povertà sono proprio i giovani i più esposti alle difficoltà della crisi.
Parafraso uno dei responsabili della Pastorale Giovanile della nostra diocesi. Sintetizza con tre parole la situazione giovanile: fascino, malinconia, speranza.
Fascino, perché nei volti dei giovani c’è un quotidiano stupirsi e il desiderio di sentirsi parte di un grande progetto. Malinconia, perché in questa ricerca tante sono le difficoltà: difficoltà relazionali, paura del futuro, smarrimento, incertezze, fragilità… Speranza, che tiene per mano lo stupore e la malinconia, storie comunque di giovani che si affacciano alle nostre parrocchie.
È possibile ai giovani del nostro tempo costruire la loro casa sulla roccia? A prima vista è stridente la distanza tra le richieste di Gesù e la situazione che stanno vivendo. Le esperienze dei nostri giovani sembrano tutte tentativi di costruire sulla sabbia ed essi vengono spazzati via dalle prime intemperie. Nel tempo della precarietà strutturale, nella società liquida, pretendere di costruire la casa sulla roccia sembra un miraggio irraggiungibile, una speranza utopica e una ingannevole illusione.
La carenza del lavoro, le incertezze sul futuro, l’evaporazione delle sicurezze sociali rendono sempre più difficile dare una stabilità ai progetti di vita. Spesso i giovani finiscono per rimandare le scelte decisive al punto da ritenerle irraggiungibili e, in ultima analisi, poco desiderabili. Si affievoliscono non solo le possibilità, ma anche le attese, i desideri di fare cose grandi, di slanciarsi in progetti audaci. Essi arrivano a mortificare le proprie aspirazioni piegandosi a quella dittatura del relativismo che rende significativo solo ciò che rimane mobile, immediato, reversibile.
Così alla precarietà strutturale della situazione socioeconomica si sovrappone una precarietà interiore e spirituale che allontana dal dono di sé e dai progetti di bene che lo Spirito continua a ispirare nel cuore dei giovani. Nemmeno la fede è estranea a questa deriva culturale. Anziché cercare Dio nelle strade tracciate dai nostri padri e nella vita delle nostre comunità cristiane, i giovani stanno tracciando sentieri nuovi, a volte con slanci generosi ed aspirazioni autentiche, ma spesso dentro i termini ristretti della ricerca di un Dio che faccia stare bene, che consoli, che rassicuri. Un “Dio a modo mio” che ha la dolcezza del padre misericordioso, ma assai distante dal fuoco del cespuglio ardente che manda Mosè a salvare il suo popolo.
Le nostre comunità vivono con trepidazione la distanza dei giovani dalle loro liturgie, dalla vita comunitaria, dall’impegno nella carità. Tutto ciò che sta a cuore alla Chiesa sembra estraneo alla vita dei giovani e ciò che sta a cuore ai giovani appare distante dalle preoccupazioni ecclesiali. Non di rado facciamo l’esperienza di una certa incomunicabilità col mondo giovanile. Dobbiamo ammettere, pur nella volontà di incontrarli e di stare con loro, la nostra inadeguatezza e le deboli chance di aggancio e di linguaggio. E tuttavia ci troviamo di fronte ad una generazione che rischia di perdersi proprio perché non si sente chiamata. La dinamica della vita è vocazionale: si è chiamati da qualcuno all’esistenza. Si vive e si cresce perché qualcuno ci chiama a diventare grandi. Ma i nostri giovani incontrano una comunità bella, attraente, che li sprona a crescere, a spendersi e a rischiare? Si scontrano sovente con un mondo adulto che concede loro ogni divertimento, ma li tiene lontani dalla vita, dall’impegno, dal dono.
Dove trovare allora una roccia forte, una rupe solida (come questa di san Leo) su cui costruire una casa che resista alle tempeste? La roccia di cui parla Gesù non è la stabilità del mercato finanziario, la sicurezza del lavoro, la crescita economica, non somiglia alle sicurezze che abbiamo visto svanire in quest’ultimo decennio di crisi. La roccia è semplicemente Lui.
La roccia a cui allude Gesù non somiglia per niente a ciò che i nostri occhi vedono solido e durevole e a ciò che troppo spesso i nostri discorsi ecclesiali rimpiangono.
Tutto questo diventa perciò un invito alla Chiesa e a tutti i cristiani ad una profonda conversione del cuore.
Conversione, cioè fidarsi del Signore Gesù, della sua parola, della sua intramontabile attrattiva. Mostrarlo senza riduzioni o esenzioni, così come è. Fidarsi dei giovani, perché hanno la capacità di abitare da protagonisti questo tempo e il dono dello Spirito Santo per plasmare con il Vangelo le sue novità e le sue aspirazioni. Fidarsi – perché no? – anche di noi, sacerdoti, educatori e genitori: sapremo con questa fiducia stare accanto a questa “cara gioventù” (San Giovanni Bosco) per accompagnare senza timori e incoraggiare il suo cammino convinti cha la roccia incrollabile su cui costruire la casa è Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre.