Omelia nella Solennità del Natale del Signore (Messa del Giorno)
Pennabilli (RN), Cattedrale, 25 dicembre 2022
Is 52,7-10
Sal 97
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18
Il Natale è di tutti. Il sole che illumina le mie finestre non riguarda solo me, abbraccia e avvolge di splendore tutto e tutti. Così il Bambino di Betlemme. Il Natale è per tutti, non è riservato agli intellettuali, alle persone squisite spiritualmente, ad una specifica categoria di persone, ma è per tutti. Il Vangelo della Natività ha una forte carica effusiva: tracima e riempie di significato, di senso, di gioia tutte le persone del mondo. Il Natale è con tutti: siamo tutti convocati attorno al mistero della Natività di questo Bambino adagiato nella mangiatoia. La Natività è da vivere con volontà di perdono, di amicizia, di superamento delle tensioni che talvolta caratterizzano le relazioni; in modo particolare, è da vivere – lo raccomandava il Santo Padre nella Messa della Mezzanotte – con le persone fragili, in difficoltà, povere (sulla terra sono miliardi), a partire da quelle vicine.
Natale di tutti, Natale per tutti, Natale con tutti.
Dopo l’emozione della Messa di Mezzanotte, siamo invitati a fare una meditazione approfondita di una pagina straordinaria, la pagina introduttiva al Vangelo secondo Giovanni: il Prologo. Cerchiamo di sottolineare in questa pagina alcune parole “strategiche”, tecniche, che hanno un significato particolare nella lingua del Vangelo, il greco (alcune volte le traduzioni sono belle ma infedeli, cioè non rispecchiano perfettamente il pensiero di chi scrive).
Questa notte abbiamo letto il racconto della Natività nel Vangelo secondo Luca. Luca ha incontrato Gesù morto e risorto e, come l’evangelista Marco, il primo degli evangelisti, ha narrato la vita di Gesù “con gli occhiali” dell’incontro pasquale. Mentre Marco inizia il suo racconto dal battesimo di Gesù, Luca racconta la vita di Gesù dall’infanzia. Quel Gesù morto e risorto, che è apparso ai primi discepoli, che ha mangiato con loro e che loro stanno annunciando in tutto il mondo, era già il Signore nel momento della sua nascita. Da qui la decisione di Luca di raccontarci l’infanzia di Gesù, evidenziando il ruolo di Maria di Nazaret, la sua mamma. Matteo, invece, racconterà dell’infanzia in modo più succinto e dal punto di vista di Giuseppe.
L’evangelista Giovanni fa un passo ancora più indietro: comincia a considerare “quel Gesù” risorto, che ha incontrato e che ha cambiato la sua vita (Giovanni è il discepolo che ha appoggiato la sua guancia sul petto di Gesù, per dire l’intimità che aveva con lui…) nella sua preesistenza; lo fa adoperando un termine greco con cui dobbiamo familiarizzare: «In principio era il Logos…». I cristiani a cui indirizza il suo Vangelo avevano a che fare con la cultura greca che dava grande importanza alla parola Logos, che noi traduciamo con “Verbo”. Il Logos era considerato ciò che dà significato a tutto, la ragione di tutto, la ragion d’essere della realtà. Anche nel nostro tempo è necessario tradurre la fede cristiana con parole e concetti di oggi (senza trasformare la fede cristiana in un’altra fede). Giovanni, dunque, compie un’operazione teologica straordinaria, ma anche una grande provocazione, perché dice: «Questo Verbo (Logos), che voi filosofi vedete come un principio astratto, immateriale, si è fatto carne». «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). “Carne” (sarx) è un’altra parola tecnica il cui vero significato è “fragilità”. Potremmo tradurre: «E il Verbo si è fatto fragilità». La nostra fede è originale, sconvolgente, straordinaria: crediamo in un Dio che diviene fragile per amore. Nessuna mitologia, nessuna “bacchetta magica”, ma un Dio che si fa fragile, nasce in un luogo di fortuna, si lascia fasciare… e poi coprire di baci. «E il Verbo si è fatto carne».
Il Prologo incomincia con: «In principio era il Verbo». Consideriamo ora la parola “in principio”. È un rimando esplicito a Genesi 1,1 (bereshìt), parola da non intendere in senso cronologico. Gli ebrei, quando dicevano “in principio”, pensavano a qualcosa di analogo al Logos. Giovanni deve essere fedele alla tradizione biblica ebraica: «In principio… Dio creò il cielo e la terra» (Gn 1,1), quindi scrive “in principio” nel senso di “principio di tutto”. Nella comunità cristiana ci sono pagani convertiti (sono greci o comunque appartenenti all’area del Mediterraneo di allora) e ci sono cristiani provenienti dall’ebraismo. L’evangelista Giovanni crea un’opera di inculturazione. Altro termine importante per la tradizione ebraica è dabar che si traduce con “Verbo-parola”.
La Bibbia dice: «In principio Dio creò il cielo e la terra», con la sua parola, con il suo verbo: «Dio disse, e le cose furono fatte», «Dio disse “sia la luce” e la luce fu». La parola mediante la quale il Creatore crea è il Verbo.
Ancora un particolare. Giovanni scrive: «Il Verbo era presso Dio» (pros significa “verso”), ma non in senso statico: l’espressione vuol dire che il Logos era rivolto verso Dio, era nella relazione con Lui.
Quando facciamo nostro il Vangelo, per Giovanni siamo rivolti anche noi, attraverso il Verbo, Gesù Cristo, verso Dio, ed entriamo nella relazione con Lui. Il Verbo è ad un tempo rivolto verso Dio e, nello stesso tempo, mette noi in relazione con Dio.
Nel Prologo Giovanni introduce Giovanni Battista e lo chiama “martire”. “Martire” sta per “testimone”. Secondo il diritto ebraico la testimonianza vale se ci sono due testimoni concordi (servono due testimoni per salvare la verità o per negarla se è una falsità). Noi che cominciamo a leggere il Vangelo di Giovanni siamo coinvolti: se tu leggi il Vangelo diventi “martire” (non necessariamente un martire insanguinato), cioè “l’altro testimone”. In che senso? Se leggi il Vangelo troverai la donna perdonata e lei è testimone del dono ricevuto; troverai il lebbroso che è stato risanato e anche lui è testimone; troverai il cieco che ha riacquistato la vista; troverai i poveri che hanno cominciato a danzare di gioia perché evangelizzati. E chi è il secondo testimone? Il secondo testimone sei tu, è ciascuno di noi che legge.
«Il Verbo si è fatto fragilità». A noi la fragilità spaventa. Ma oggi siamo invitati ad accoglierla perché è stata redenta, ci fa più fratelli e ci rende più solidali verso i fragili. È questione di amore. Accogliamo la fragilità. Buon Natale.