Omelia nella S. Messa per le Esequie di Giada Penserini
Gualdicciolo (RSM), 31 agosto 2022
2Cor 4,14-5,1
Gv 12,23-28
Anzitutto un abbraccio.
Certamente il mio; ma soprattutto quello caldo dei giovani e degli amici di Giada, dei compagni di Liceo; l’abbraccio di questa chiesa che l’ha vista bambina: qui il suo primo incontro con Gesù nella Prima Comunione.
Un abbraccio grande da parte di tutta la comunità sammarinese e degli operatori della comunicazione che hanno seguito e seguono quanto accaduto.
Coraggio, in questo momento di buio.
Non una esortazione retorica, ma nella certezza che Giada è accanto, fiera della sua famiglia, da cui ha ricevuto tanto amore, sostanza della sua breve esistenza terrena. Giada vuole certamente che la vita della sua famiglia riprenda, ancora una volta nel segno del dono di sé. Lei – mi par di sentirla – dice: «Brava mamma. Bravo papà!».
Significativo il nome che avete scelto per lei, “Giada”, pietra preziosa e di particolare lucentezza, ricca di sfumature colorate.
Una lezione.
La sofferenza e il dolore, benché incomprensibili, fanno andare in profondità. E nel profondo si scopre quanta solidarietà, quanto amore, quanta empatia si sprigiona. Si cresce nell’amore reciproco. D’incanto si diventa più umili, più consapevoli della propria fragilità, senza amarezza, ma bisognosi gli uni degli altri, più coscienti di ciò che vale e resta. Riferisco la raccomandazione che proprio ieri mi hanno rivolto i nonni di Giada: «Dica ai ragazzi la nostra gratitudine per la vicinanza a Giada e alla famiglia».
La vita può ricominciare?
Negli anni di Liceo ho vissuto un’esperienza dolorosa come questa: la morte del mio compagno di banco…
Mi ritrovai in questa pagina delle Confessioni di Sant’Agostino, dettate dai ricordi, dall’amicizia e da una vita che ricomincia: «E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo». (Sant’Agostino, Confessioni, IV,8).
Parole di vita eterna.
Si dicono parole – mi rendo conto che sto pronunciando parole dinanzi a tutti – ma le parole non placano il dolore. Ci sono parole ben diverse dalle nostre per l’origine, lo spessore e la forza. Sono state proclamate poco fa. Vengono da Dio, affrontano la realtà senza circonlocuzioni, hanno la stessa forza della creazione: «Dio disse, e le cose furono fatte». Sono una sfida, sono paradossali: parlano di una vista, di uno sguardo che sa vedere e penetrare l’invisibile: «Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili». È lo sguardo della fede. Parafrasando, un autore cristiano scrive: «Non si vede bene che con il cuore». Il cuore vede e sa quello che non si vede e non si capisce.
Sono parole che assicurano il destino di vita del chicco di grano caduto in terra che, misteriosamente, produce molto frutto. È la piccola parabola che Gesù racconta per noi, ma anche per lui, spaventato e schiacciato dall’ora della croce che sta per scoccare: «Ora l’anima mia è turbata; che cosa devo dire?». Gesù fa della sua vita un’offerta.
Esprimo ammirazione e dico grazie ai genitori che hanno messo a disposizione gli organi di Giada per salvare vite. Penso a Giada chicco di frumento divenuto moltiplicatore di vita.