Omelia nella S. Messa in suffragio di S.E. Mons. Luigi Negri

Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 gennaio 2021

Ebr 13,7-9
Sal 22 (23)
Gv 17,24-26

Carissimi,
vogliamo anzitutto obbedire al Signore che si rivolge a noi con la Lettera agli Ebrei e ci invita a fare memoria di coloro che ci hanno annunciato la Parola di Dio; con questo spirito facciamo memoria dell’Arcivescovo Luigi. È un dovere che compiamo con gratitudine, anzi lo sentiamo come un bisogno, un bisogno del cuore. «Ricordatevi dei vostri capi»: lo ricordiamo per la generosità e la profondità con cui ci ha annunciato la Parola di Dio. Vogliamo imitarne la fede, sua grande lezione, e fare nostra anche la sua ricorrente raccomandazione a non lasciarci sviare da dottrine che ci allontanano da Cristo. Sono parole sue: «Cristo è con noi e, se Cristo è con noi, nessuno potrà mai mettere in dubbio questa sua presenza piena di forza e di affetto. Uniamo la nostra vita alla sua, riconosciamolo presente tutti i giorni della nostra esistenza, consegniamogli la nostra vita».
Un vescovo è legato alla sua Chiesa come uno sposo alla sposa. La regge in luogo di Dio; in lui, assistito dai suoi presbiteri, è presente il sommo sacerdote Gesù. Egli, il vescovo, «è il visibile principio e fondamento di unità della sua Chiesa particolare», così il Vaticano II; ma prima, tra i padri, mi piace citare san Cipriano: «La Chiesa è nel vescovo e il vescovo nella Chiesa» (Ep 66,8,3). E prima ancora, Gesù stesso: «Chi li ascolta [i Vescovi], ascolta Cristo, chi li disprezza, disprezza Cristo e colui che lo ha mandato» (cfr. Lc 10,16 in LG 20). Se il Vescovo è forma gregis (1Pt 5,3) non può non modellarla in qualche misura su tratti della sua persona, del suo Spirito. Ogni vescovo contrassegna la sua Chiesa e ogni Chiesa rimane contrassegnata dal suo vescovo.
Dico grazie, insieme con voi, al Signore per le tracce profonde lasciate da mons. Luigi in questa nostra Chiesa. Sarebbe bello ripercorrere la vicenda umana e spirituale di mons. Luigi e riprendere in mano i contenuti e le opere del suo ministero, partendo dalla formazione ricevuta, approfondita poi nella preparazione al sacerdozio, agli studi continuati dopo, all’incontro con il carisma di Comunione e Liberazione. Sarebbe necessario studiare il suo insegnamento, la sua attività, la sua presenza e testimonianza in questo momento così singolare della vita della Chiesa. Sarebbe interessante, necessario, tutto questo. Credo di interpretare il desiderio di ognuno nell’impegnarci tutti, con l’aiuto di persone competenti, ad organizzare una lettura approfondita del suo apporto alla nostra Diocesi e alla Chiesa italiana.
Dopo l’impressione forte alla notizia della sua morte – eravamo qui in Cattedrale (si celebrava il Te deum di fine anno) –, dopo la commozione ai funerali a cui tanti di noi hanno potuto partecipare a Ferrara o a Milano, dopo le tante considerazioni sui media sulla figura di questo vescovo intellettuale e umanissimo, schietto e appassionato, intrepido e fanciullo, bussa al cuore l’esigenza di una preghiera più intima ed una considerazione più spirituale che interpreti la sua vita, la sua missione e la sua partenza da noi.
Mi piace farlo inquadrando la persona e la vicenda dell’Arcivescovo dentro al brano evangelico che è stato appena proclamato. Si tratta di appena tre versetti nella grande preghiera sacerdotale di Gesù. Il contesto è quello dei “discorsi di addio”. Vi trapelano la commozione di Gesù, lo sbigottimento dei discepoli e l’intreccio di temi impegnativi. Siamo invitati ad entrare nell’intimità che Gesù ha con il Padre – è la sua preghiera – a comprendere in lui il nostro destino e a contemplare grandi orizzonti. Si tratta di tre versetti – ho detto – che hanno a che fare con il sacerdozio di Gesù, ma anche col sacerdozio partecipato dai discepoli. Gesù parla di sé, parla della missione di ogni discepolo e della missione propria del sacerdote. Tre versetti, tre le parole che si rincorrono, si intrecciano: gloria, conoscenza, amore. «Padre, voglio che quelli che mi hai dato siano anch’essi con me dove sono io, perché contemplino la mia gloria». A cosa aspira un cristiano, più o meno consapevolmente, se non alla contemplazione della gloria? Magari non lo dice con l’ardimento e le parole di Mosè: «Signore, mostrami la tua gloria» (cfr. Es 33,18), ma in verità questo è tutto il suo desiderio e la sua inquietudine.
L’Arcivescovo Luigi ha vissuto questa ricerca. Poi la scoperta, diventata certezza, roccia: «Tu fortitudo mea» (il motto del suo stemma episcopale). Ma ha sempre apprezzato e incoraggiato, soprattutto nei giovani, l’attitudine alla domanda, alla ricerca. E in questo è stato maestro. Conosceva le tappe dell’itinerario: la ricerca interiore, l’inquietudine, l’inseguimento della verità come bellezza, fino alla bellezza più bella: Gesù Cristo. «Quaesivi et inveni (ho trovato ciò che cercavo)». Nell’itinerario c’è da mettere in conto la caduta, il peccato. Due le risoluzioni dell’Arcivescovo Luigi. La prima: la carità pastorale che, opportunamente e inopportunamente, si fa avanti per smascherare l’inganno e contrastare il pericolo. La seconda, assolutamente non moralistica: la preghiera, quella che diciamo ad ogni Messa: «Signore, non guardare i nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». «La nostra esistenza – sono ancora parole sue – consegnata al Signore non perde la sua consistenza umana, ma la ritrova ad una profondità più definitiva». «Signore, non guardare ai nostri peccati, ma alla fede della tua Chiesa». Chiesa, salda roccia, sicura imbarcazione: non uscire mai dalla barca di Pietro per avventurarsi in solitudine in un guscio di noce. Ci ha insegnato il valore profondo dell’appartenenza, anche quando può essere difficile.
«Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto, ma io ti ho conosciuto e questi hanno conosciuto che tu mi hai mandato». Conoscere e far conoscere il mistero di Cristo dall’incarnazione alla risurrezione. Questo chiede Gesù nella sua preghiera sacerdotale. In che cos’altro può riassumersi l’impegno di un sacerdote e di un vescovo? «Per conto mio – scriveva san Paolo – mi prodigherò volentieri, anzi consumerò me stesso per le vostre anime» (2Cor 12,15). E conclude chiedendo tenerezza: «Se io vi amo più intensamente dovrei essere riamato di meno?». “Affezione”: parola ricorrente nel parlare e nello scrivere dell’Arcivescovo Luigi; affezione attesa a dispetto della sua apparente austerità. Ecco la missione a cui chiama Gesù: donarsi, nella collaborazione con lo Spirito Santo, per aprire le menti all’intelligenza, alla contemplazione del mistero e all’accoglimento della carità di Dio Padre nel suo Verbo che si rivela elargendo la sua presenza. È l’obiettivo della missione, quello che in forme diverse ognuno vorrebbe operare nella laboriosità dell’azione, nella testimonianza, ma anche nel prezzo della quotidiana fedeltà. «Impeto missionario»!
Se le nostre considerazioni devono concludersi in una preghiera la formuliamo così per l’Arcivescovo Luigi: che possa godere definitivamente della contemplazione della gloria di Cristo che tanto ha amato, e cioè della visione del suo volto, dell’effusione del suo amore con quello del Padre e dello Spirito, per sempre. È possibile? Certo! La preghiera di Gesù è efficace. Gesù rivolgendosi al Padre si impone ed esige: «Voglio, Padre». Sappiamo che egli viene esaudito per la sua pietà (cfr. Ebr 5,7). Così sia.