Omelia nella Professione religiosa dei voti temporanei di Suor Maria Chiara Ghigi

Pennabilli (RN), Cattedrale, 21 settembre 2024

«L’infelicità rende Dio assente agli occhi degli uomini per un certo tempo, più assente di un morto, più assente della luce in una prigione oscura. Una specie di orrore sommerge tutta l’anima. Durante questa assenza non trova nulla che possa amare. E se in queste tenebre, in cui non vi è nulla da amare, l’anima smette di amare, l’assenza di Dio diventa definitiva: è terribile solo a pensarci».
(Simone Weil)

Miei cari,
si schiude davanti ai nostri occhi il mistero incomprensibile dell’amore di Dio che, nella professione religiosa dei voti temporanei di Chiara, ci espone all’incanto inesprimibile dell’esperienza, sconvolgente e totalizzante, del «lasciare tutto» per far spazio a Lui, sorgente inesauribile di vita e di gioia, perché diventi il nostro tutto per essere «capax Dei».
L’apostolo Matteo, di cui oggi celebriamo la Festa, affida l’inizio della sua conversione all’invito del Signore, che, raggiungendolo al banco delle imposte, gli dice, come ha detto ad ognuno di noi, «seguimi» (Mt 9,9). Il fascino di quell’invito intercettò e raggiunse il suo desiderio di gioia piena, profanato e illuso dall’avidità delle ricchezze, che fino a quel momento lo avevano ridotto ad un impostore, imprigionandolo nel buio della solitudine e del disprezzo di tutti, senza prospettiva e slancio, mendicante di un riconoscimento e bisognoso di attenzione, seduto sul trono delle sue illusioni e dei suoi inganni, smarrito nei pensieri di un cuore pervertito e corrotto. Anche sant’Agostino, animato dallo stesso desiderio di gioia, approda e si consuma nell’avidità per le creature, che lo hanno spogliato di tutta la bellezza della sua natura umana, riducendolo ad uno “sfruttatore”, ad un “lussurioso”, schiavo dei suoi perversi desideri, come afferma egli stesso di sé: «Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature…», ma il «grido» di Gesù «ha squarciato la sua sordità» e «il suo splendore ha dissipato la sua cecità» (cfr. Agostino, Le Confessioni), dando inizio ad una vita nuova, generata dal dono della Misericordia, il cui effetto sulla sua persona è tradotto dalla forza di queste immagini: «Hai effuso il tuo profumo; l’ho aspirato e ora anelo a te. Ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te» (cfr. Agostino, Le Confessioni).
Anche tu, come le tue carissime sorelle che ti hanno accolto nella loro fraternità, oggi, chiedi a Dio e alla sua Chiesa «la misericordia del Signore e la grazia di servirlo nell’Ordine di Sant’Agostino» (Dal Rituale della Professione religiosa). Sì, carissima Chiara, dopo un tempo di accampamento ospitale nella tenda della Comunità delle nostre suore della Rupe (così come amabilmente chiamiamo il nostro monastero, borgo dei viandanti che cercano Dio e sostano per essere ristorati nel loro desiderio di fare esperienza del Vangelo della bellezza e della vita vera), oggi ci domandi il dono della Misericordia di Dio, di poggiare il tuo capo sul cuore di Colui che si fa misero, povero, per arricchire la tua e la nostra vita dell’amore pieno, senza morte, fedele al coraggio di una promessa che ti giunge da lontano, dall’Eternità, ti oltrepassa e ti comprende e, nello stesso tempo, ti compie e tu, proprio come Agostino, dirai: «Mi hai toccato e ora ardo dal desiderio della tua pace» (cfr. Agostino, Le Confessioni).
Custodisci, nella fedeltà a questa promessa, il dono della chiamata, della cui risposta dovrai prenderti cura ogni giorno, con la gratitudine, proprio come ci raccomanda papa Francesco, indicandocela come atteggiamento per alimentare la fedeltà:

«Ogni vocazione nasce da quello sguardo amorevole con cui il Signore ci è venuto incontro, magari proprio mentre la nostra barca era in preda alla tempesta. «Più che una nostra scelta, è la risposta alla chiamata gratuita del Signore» (Lettera ai sacerdoti, 4 agosto 2019); perciò, riusciremo a scoprirla e abbracciarla quando il nostro cuore si aprirà alla gratitudine e saprà cogliere il passaggio di Dio nella nostra vita» (Messaggio per la LVII Giornata di preghiera per le Vocazioni).

Nel solco di Matteo, di Agostino e delle tue carissime sorelle, «alzati e seguilo», perché il monastero non è una meta di arrivo, dove si compie il tuo cammino e si arena la tua esistenza, se è fuga dal mondo, e quindi fuga da sè, ma un varco di Speranza che sfonda le mura di ogni nostra inconcludente e paralizzante idea di consacrazione narcisista e ripiegata su di sé.
La clausura del monastero, come rispose Madre Claudia ad un giovane della mia Diocesi che le chiese cosa fosse e, soprattutto, come si realizzava nella vostra esperienza monastica, sia la comunità fraterna, dove, come dirai nelle interrogazioni che ti rivolgerò, «vorrai vivere unanime con le tue sorelle nella stessa casa, nel comune progetto di cercare instancabilmente Dio con un cuor solo e un’anima sola» (Dal Rituale della Professione). La Comunità sarà la tua custodia e la tua forza, e, con la Grazia dello Spirito Santo, ti genererà all’unione piena con Dio e al suo Amore, quale risposta, profonda e inquieta, alla perdita dell’Eden. La vita religiosa sfida i nascondimenti delle donne e degli uomini che, tormentati dalla perdita della pace dell’Eden e della visione del Creatore, sfuggono al richiamo del Padre. È la scelta profetica dell’accadimento del ritrovamento «mentre cerchi» e del compimento del “rallegramento” del deserto e della terra arida e della fioritura della steppa (cfr. Is 35,1) che canta con gioia e giubilo la gloria del Signore e la magnificenza del nostro Dio per dire «agli smarriti di cuore: Coraggio, non temete». La tua presenza, accolta e custodita in comunità, sia, per i viandanti che busseranno al vostro cuore, il ristoro benedetto e fecondo, incoraggiante e consolatorio: attingi alla vita fraterna più che alle tue convinzioni lo spirito della Regola del santo padre Agostino per custodire, nella visione di Dio, lo scandalo della tua scelta: cercare Dio e servire la Chiesa e tutte le creature “amate” dal Signore.
La profezia, terribilmente attuale, visti gli scenari di morte che sconvolgono la nostra umanità, trova, nella tua scelta di consacrazione, le coordinate che il cammino del viandante dovrà tener presente perché il suo desiderio di vita si realizzi nell’incontro e nella visione di Dio. «La gloria di Dio è l’uomo vivente, e la vita dell’uomo consiste nella visione di Dio», affermava Ireneo di Lione. Allora capirai che questa lontananza dall’Eden è la causa del senso di vuoto che alimenta il desiderio di pienezza. Le angosce, la tristezza e il dolore dell’umanità, ferita dal peccato, invocano la liberazione dall’inganno mortale della ricerca menzognera di «essere come Dio». Per questo motivo, oggi ti chiediamo di strappare un pezzo del velo squarciato del Tempio al momento della morte di Gesù in croce e di coprirti il capo con esso, perché la tua rinascita scaturisca da quello strappo e porti in ogni tuo gesto la forza e la potenza dell’amore, che apre varchi tra i contenimenti dell’egoismo e della superbia, nelle arrese delle donne e degli uomini che t’incontreranno: riapri i loro sguardi alle lontananze dei desideri di gioie, rendili capaci di «vedere Dio»: perché tu «fedele alla vocazione contemplativa» sappi esercitare sguardi lungimiranti e profondi per attirare al Creatore ogni sua creatura. Non aver paura di osare il coraggio di Maria Maddalena che, dopo aver visto e contemplato il Risorto, ci invita a veder «morire la morte». Nello spirito delle regole e costituzioni della Famiglia Agostiniana, quale «amante della bellezza spirituale» (dal Rituale per la Professione Religiosa), diffondi con la tua vita il profumo soave di Cristo che ci salva dalla morte: decentrati per estenderti verso i fratelli e le sorelle; combatti il narcisismo per vivere unanime, per aver un cuor solo e un’anima sola; consegnati alla Provvidenza per essere tu stessa un dono; ama senza misura; trasgredisci le regole della mortalità per seguire l’Amato; sii felice.

Nella tua vita, rinnoverai ogni giorno, il dono e la consegna di te: possa il voto di castità alimentare il desiderio dell’Eden, ferito dalla superbia e soffocato dall’infelicità.

La lontananza dall’Eden (Gn 3,23-24), causa del senso di vuoto e desiderio di pienezza

Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto. Scacciò l’uomo e pose ad oriente del giardino di Eden i cherubini e la fiamma della spada folgorante, per custodire la via all’albero della vita.

Cosa ci rivelano le angosce e l’infelicità? Perché i nostri volti si rabbuiano e sono logorati dal sudore della fatica per quei pensieri di autocommiserazione? Spesso ci lamentiamo, siamo insoddisfatti, rivendichiamo mancanze subite!

In queste situazioni si rivela “la cacciata” e “la perdita” dell’Eden! Non esauriremo mai questo vortice stressante se non ammettiamo a noi stessi che non possiamo continuare ad indugiare sulle MANCANZE, ma dobbiamo avanzare nel nostro ritorno a Dio. Non potremo amare se non cambiamo il riferimento della nostra vita. Bisogna uscire dalle sicurezze e dalle stabilità che abbiamo edificato con le nostre abitudini. Bisogna DECENTRARSI verso l’Eden e questa nostalgia pasquale si rivela proprio nella notte dell’infelicità, dove siamo chiamati a spezzare ogni legame con quanto ci intrattiene nell’IO per desiderare DIO.

Possa il voto di obbedienza tenerti connessa alla voce di Dio, la cui Parola, Gesù Cristo, smarrisce i superbi nei pensieri del loro cuore, mettendo in crisi la tentazione quotidiana del narcisismo.

Il desiderio di morire (1Re, 19,4), perché non sono diverso dagli altri: la crisi del narcisismo

Egli (Elia) si inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto un ginepro. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri».

L’infelicità, che diventa anche depressione e insoddisfazione, ci rende incapaci di amare perché rivela la radice narcisistica della nostra immaturità umana. La vita comunitaria, quando non provoca il dono di sé, rischia di diventare il rifugio sicuro per una vita “garantita” e non “esposta”. Spesso ci capita di rivendicare, in nome di una vita donata per la vita comunitaria, ogni genere di attenzione e servizio. Tutto ci è dovuto! Così le nostre comunità diventano infeconde e chiuse, incapaci di ospitalità e di gratuità. Il narcisismo è la strada della morte, dello smarrimento spirituale, della consumazione della comunione e della bellezza. È veramente triste incontrare dei consacrati “infelici” perché, secondo loro, non contano niente, sono sempre emarginati e trattati come gli ultimi. È l’offesa più feroce che inferiamo al nostro narcisismo, ma, se qualcuno ci aiutasse a capire che il desiderio di morire, perché non siamo diversi dagli altri, costituisce la rinascita, saremmo eternamente grati per averci restituito alla bellezza della vita.

Possa la povertà aprirti all’oggi provvidente di Dio per smontare i nostri calcoli di riserve sicure.

Il superfluo nella vita consacrata ci abitua ad una vita superficiale (Mc 12,41-44)

E sedutosi di fronte al tesoro, osservava come la folla gettava monete nel tesoro. E tanti ricchi ne gettavano molte. Ma venuta una povera vedova vi gettò due spiccioli, cioè un quattrino. Allora, chiamati a sé i discepoli, disse loro: «In verità vi dico: questa vedova ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Poiché tutti hanno dato del loro superfluo, essa invece, nella sua povertà, vi ha messo tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

L’amore esige l’accoglienza della morte di sé. Non possiamo “riservarci” qualcosa per noi! Il trascinamento di questa logica di “riserva”, che spesso giustifichiamo con l’appello alla cautela, alla prudenza, rivela il confine che abbiamo posto tra noi e Dio, tra il suo amore che ci raggiunge come PROVVIDENZA e i nostri calcoli opportunistici. Fino a quando resisteremo all’esempio della vedova che «nella sua povertà, ha messo tutto quello che aveva per vivere» non intraprenderemo il nostro cammino di perfezionamento nella carità. A volte, il voto di povertà non ha il sapore della condivisione, della generosità, dello slancio libero e liberante dell’affidamento di sé alla Provvidenza. Spesso, purtroppo, lo rinnoviamo come un contratto assicurativo che mi tutela e mi garantisce, senza mai farmi sperimentare l’abbandono a Colui che si prenderà cura di noi: «Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena» (Mt 6,32-34).

Ma soprattutto, anche se non espressamente sia un voto, prometti di coltivare la bellezza dell’amore, pratica l’amore custodendo il bisogno degli altri e dell’Altro.

Amare vuol dire “aver bisogno dell’Altro”: la cecità dell’autosufficienza (Ap 3,15-17)

Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: «Sono ricco, mi sono arricchito; non ho bisogno di nulla», ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo.

L’infelicità è la conseguenza dell’autosufficienza, atteggiamento che ci svincola da tutto e da tutti. Rende la nostra vita insipida, incapace di condivisione e di affidamento. È il frutto di un’obbedienza sorda e muta, che impedisce a chiunque di entrare nel nostro cuore, rendendolo incapace di attesa e di attenzione. Il peccato originale è l’affermazione della rinnegazione autosufficiente dell’essere umano che, svincolandosi da Dio, non sente più legami e, per questo motivo, non ha appartenenza, diventando ramingo e fuggiasco, un vagabondo che non ha meta. Basta pensare ai nostri pellegrinaggi di comunità in comunità, alla ricerca di una pace che, purtroppo, non può essere alimentata da un cuore inquieto e disorientato.

E, per concludere, sii trasgressiva delle regole che imbrigliano Dio nei nostri ragionamenti e paure; sii libera di andare controcorrente perché «felicità perenne splenderà sul tuo capo; gioia e felicità ti seguiranno e fuggiranno tristezza e pianto» (Is 35,10).

La trasgressione e l’abbandono rinnovano la ricerca (Ct 3,1-4)

Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato
l’amato del mio cuore;
l’ho cercato, ma non l’ho trovato.
«Mi alzerò e farò il giro della città;
per le strade e per le piazze;
voglio cercare l’amato del mio cuore».
L’ho cercato, ma non l’ho trovato.
Mi hanno incontrato le guardie che fanno la ronda:
«Avete visto l’amato del mio cuore?».
Da poco le avevo oltrepassate,
quando trovai l’amato del mio cuore.

La vita consacrata è l’incauta ricerca dell’Amato del nostro cuore, che ci permette di attraversare il buio della notte, esponendoci alle “pericolosità” che questa riserva a chi sfida il limite che il mondo ci pone. Il rischio di una mondanizzazione della nostra esistenza svuota di senso e significato la scelta di appartenere solamente al Signore. Il buio, il torpore, la stanchezza della nostra vita di consacrati rischia di farci perdere di vista Dio e di abbruttirci nelle nostre idolatrie. Corriamo spesso il rischio di adorare il nostro Dio, il Dio comodo, della nostra trasgressione, dell’abbandono nel deserto dell’abitudine. La vita consacrata si rafforza al crisma dell’inquietudine per il Regno e diventa “missione” e “annuncio”, orizzonte all’interno del quale si manifesta e rivela la nostra ricerca dell’Amato. Nell’Esortazione Vita Consecrata si afferma:

«La vita consacrata è al servizio di questa definitiva irradiazione della gloria divina, quando ogni carne vedrà la salvezza di Dio (cfr. Lc 3,6; Is 40,5). L’Oriente cristiano sottolinea questa dimensione quando considera i monaci come angeli di Dio sulla terra, che annunciano il rinnovamento del mondo in Cristo. In Occidente il monachesimo è celebrazione di memoria e vigilia: memoria delle meraviglie operate da Dio, vigilia del compimento ultimo della speranza. Il messaggio del monachesimo e della vita contemplativa ripete incessantemente che il primato di Dio è per l’esistenza umana pienezza di significato e di gioia, perché l’uomo è fatto per Dio ed è inquieto finché in Lui non trova pace» (Vita Consecrata, 27).

Il Signore ti conceda il dono dell’AMEN, ovvero di trovare in te ciò che cercavi altrove e di essere un miracolo perché, come dice, Agostino:

«L’uomo ammira tante bellezze nella natura, ma egli stesso è un grande miracolo» (Serm. 226,3,4).

Dio ti confermi nel tuo proposito per essere il suo miracolo.