Omelia nella IV domenica di Quaresima
Mercatino Conca (PU), 27 marzo 2022
Gs 5,9-12
Sal 33
2Cor 5,17-21
1.
Alcune premesse. La prima: leggiamo questo brano del Vangelo come fosse la prima volta. Invochiamo lo Spirito Santo perché ci apra alla meraviglia, allo stupore, alla contemplazione. Un’altra premessa necessaria: consideriamo il titolo della parabola. Ho trovato almeno sei titoli diversi: la parabola del figlioul prodigo (il titolo più comune), la parabola del figlio perduto, la parabola del figlio ritrovato, la parabola dei due figli… Quello che mi piace di più è “la parabola del padre misericordioso”, ma sarebbe più completo dire “la parabola del padre e dei due figli”, perché dà ragione all’insieme narrativo ed inizia proprio così: «Un uomo aveva due figli…».
Vedremo che ci sono due modi diversi di relazionarsi con il padre. Altra premessa: interessante è ciò che precede il racconto della parabola, quando Luca sottolinea: «Poiché molti peccatori, pubblicani, andavano da Gesù, allora lui raccontò questa parabola…». È bello vedere che da Gesù andavano queste persone: come vorrei – parlo a nome di tanti miei fratelli sacerdoti – che anche le persone apparentemente più “lontane” fossero attratte da noi e dalle nostre comunità.
In questa parabola echeggiano sicuramente le parole stesse di Gesù; lo si deduce dalle espressioni tipicamente aramaiche. La stesura è di Luca, è coerente con la sua teologia, ma rivela tutto il modo di essere di Gesù, che avvicina i peccatori, sta con loro, li accoglie, offre perdono e che, per questo, viene criticato. Si può dire che la parabola costituisca il cuore della teologia lucana: amore eccedente del Padre, amore smisuratamente misericordioso verso di noi peccatori e grazia… all’ultimo minuto! (cfr. Lc 23,42-43).
2.
Ci vengono domande prima di addentrarci nei particolari. Prima di tutto, come mai questo padre lascia partire un figlio all’arrembaggio? Perché lo accoglie senza essere sicuro del suo pentimento? Perché lo festeggia se non lo merita? Molti si trovano in difficoltà su questa parabola e pensano: «Non è giusto! Non sono d’accordo!». Le parabole sono state scritte appositamente per far scattare nel lettore un’impennata, un contrasto, una presa di posizione, una meraviglia… La parabola è un genere letterario, didattico, per suscitare domande.
3.
Andiamo ora ad incontrare il fratello minore che, ad un certo punto, ha voluto la parte di eredità che gli spettava ed è partito per un territorio lontanissimo. L’eredità si dà alla fine della vita: per il figlio minore il padre è, in un certo qual modo, cancellato. Nella Palestina ai tempi di Gesù c’erano circa 500 mila abitanti, mentre 4 milioni di ebrei si trovavano fuori. La parabola si collega perfettamente all’ambiente palestinese del tempo di Gesù.
4.
Il figlio più giovane è finito “custode ai maiali”. Si tratta di un dettaglio importante nella parabola: per gli ebrei il maiale è un animale impuro. È evidente che il figlio minore è emigrato, è andato in un posto lontano, fuori dal territorio di Israele perché qui i maiali erano banditi. Aveva trovato un ripiego, ma si ritrova con la sua disillusione. Era partito per cercare la felicità e pensava di trovarla, di gustarla fino in fondo, ma si è accorto che il fondo era vuoto e si è trovato solo. Vorrebbe nutrirsi delle carrube che mangiano i maiali, ma nessuno gliene dà. Il testo dice crudamente: «Voleva riempirsi la pancia delle carrube che mangiavano i maiali». Ma come dice un proverbio rabbinico: «Quando uno mangia carrube, incomincia la conversione». Ebbene, ad un certo punto, quel figlio “prodigo”, cioè spendaccione (che non ha badato a spese quando si è divertito, confondendo la gioia con il divertimento) rientra in se stesso, comincia a considerare la sua situazione e gli viene il desiderio di tornare a casa. Ma non è ancora conversione! Ha mangiato le carrube, che sono il principio della conversione, ma ancora non è convertito, perché lui ha fame e cerca pane; è servo, ma vorrebbe almeno ricevere il trattamento che hanno i servi di suo padre e allora decide di ritornare. In cuor suo prepara il discorso per il ritorno a casa: «Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, so che non ho nessun diritto, se mi vuoi riprendere mettimi tra i tuoi servi». E con questi pensieri si incammina verso casa.
5.
La scena si sposta sulla fattoria dove quel padre ha organizzato un’azienda formidabile. Il figlio maggiore è ancora al lavoro nei campi, ma quando torna a casa sente la musica, le danze, la festa, e si chiede che cosa sia accaduto. Quando impara che è tornato il figlio minore, scapestrato, che se n’era voluto andare per i fatti suoi, che si è speso tutta la sua parte di eredità, si rifiuta di entrare. Non è d’accordo. Non riesce ad entrare nella logica del padre. Rimane fermo, bloccato. Il padre deve uscire, lo deve pregare: «Figlio, tutto ciò che è mio è tuo e anche questo fratello consideralo tuo, mettiti con me ad accoglierlo». Il figlio maggiore non aderisce a quell’invito, anzi protesta. Ciò smaschera com’è il suo rapporto con il padre, un rapporto non da figlio, ma da servo: «Ti ho servito per tanti anni, sono stato sempre fedele, non mi sono mai preso tempo per me, non mi hai mai dato nemmeno un capretto per far festa con i miei amici». «E tuo figlio – da notare che non dice “mio fratello” – che ha consumato tutto gozzovigliando e divertendosi… Non è giusto!». Anche noi restiamo, talvolta, nell’atteggiamento del figlio maggiore. Un certo modo di essere cristiani è più distante dallo Spirito di Gesù di quanto lo sia lo spirito di quelli che noi chiamiamo “i lontani”.
6.
Il padre viene rappresentato come un signore entusiasta, vivace, persino giovanile: «Su, presto, facciamo festa» (cfr. v. 23). Da notare come il termine gioia con i suoi derivati appaia per ben nove volte! Il padre organizza una festa con tanta musica, dove si balla e c’è un buon menù; soprattutto lo troviamo “sbilanciato”, totalmente rivolto verso i suoi figli, addirittura li prega. Accoglie il figlio minore, lo fa sentire atteso. L’aveva visto da lontano, evidentemente lo “covava” dentro di lui; gli corre incontro, quando è vicino lo abbraccia, lo bacia, quindi abbandona la sua compostezza orientale e non lascia al figlio recitare le sue scuse; subito lo introduce nella casa e gli fa una triplice consegna: gli dà “il vestito di prima” oppure “il vestito più bello” (si può tradurre nell’uno o nell’altro modo: qui il vestito è simbolo della sua dignità); gli mette l’anello al dito con il sigillo per reintrodurlo nei diritti che aveva perso, secondo i codici di allora; gli mette i sandali ai piedi, perché non deve considerarsi servo, ma figlio (i servi erano scalzi). Ci piace immensamente questo padre, anche per come parla col figlio maggiore: «Tutto quello che è ho è tuo, vai incontro a questo tuo fratello».
Qualcuno si è chiesto come mai in questa casa non ci sono donne, non c’è l’elemento femminile. La risposta l’ha data Giovanni Paolo II che vede nel verbo che descrive la commozione del padre il movimento tipico delle viscere materne (cfr. Giovanni Paolo II, Dives in misericordia, nota 52).
Se ci fosse stata una donna, una mamma, nella parabola forse quei due figli avrebbero avuto relazioni diverse, ma è proprio nel padre che dobbiamo vedere questo elemento materno (cfr. Is 49,14-15).
La conclusione è che l’autentica esperienza cristiana consiste nel sentirsi amati. È quello che auguro a ciascuno, in prossimità della Pasqua.