Omelia nella II domenica di Pasqua
Pennabilli (RN), Cattedrale, 11 aprile 2021
At 4,32-35
Sal 117
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31
Istituzione del Lettorato al seminarista Larry Johan Jaramillo Londono
Larry fa un passo ancora più deciso verso il sacerdozio: viene istituito Lettore. A lui è affidata la lettura – nella santa assemblea – della Parola di Dio, eccetto i Vangeli, che vengono letti dal Diacono. Non si tratta di un grado nel cursus honorum, ma la designazione ad un servizio: è un ministero, è il conferimento di una grazia dello Spirito che lo rende innamorato della Parola e un tratto educativo della Chiesa che prepara il futuro sacerdote, a poco a poco, al ministero pastorale.
La sera è spesso il momento in cui diciamo: «Oggi non ho combinato nulla, o quasi…». Si prova a recuperare qualcosa, ma a vincere è ancora il senso di inutilità e, talvolta, di fallimento. Allora la risoluzione che viene più facile, quasi spontanea, è quella di rinchiudersi. Così è accaduto ai discepoli quella sera, per paura, non per devozione: paura dei giudei, paura di che cosa pensava la gente di loro e anche delusione per le proprie meschinità. Basti pensare a Pietro, che aveva rinnegato Gesù per soggezione nei confronti di una serva che si trovava per caso nel cortile del sinedrio.
Gli eventi della Settimana Santa avevano scioccato profondamente i discepoli; comprensibile era la loro delusione: avevano riposto fiducia in Gesù, ma, ucciso e fallito, non sembrava essere il Messia atteso, nel quale sperare. Eppure, Gesù entra in questo vuoto, in questo fallimento. È questo l’annuncio. Questo è uno dei mandati fondamentali che viene dato a Larry: svolgere un ministero di consolazione annunciando la Parola di Dio. «Pace a voi» è la prima parola che pronuncia il Risorto, apparendo quella sera. «Shalom»: parola piena di risonanze e di promesse compiute. Pace non significa semplicemente assenza di conflitti, ma è la somma dei beni messianici. Questa parola è risuonata con tutta la sua forza in quella sera benedetta. La parola «shalom» risuona anche adesso, in questa sera. Ogni sera, da quando Gesù è risorto, è benedetta. Che cosa cambia la situazione? L’incontro con Gesù: è lui che rende la giornata, quella sera, luogo della «shalom», che vuol dire riconciliazione, pienezza, gioia del cuore. In altre parole, «shalom» significa «io con voi»! Peccato che a volte noi non ci crediamo abbastanza.
Poi ci sono tutti i gesti che esprimono l’incontro, gesti molto concreti, coinvolgenti anche il tatto. Anzitutto Gesù si fa conoscere inequivocabilmente come il Crocifisso risorto, mostrando le sue ferite. Quando Gesù mostra le sue ferite non intende in nessun modo prendersela con i suoi amici, semmai sembra dire: «Vedete quanto vi amo, quanto vi ho amato!». San Pier Crisologo scrive in una sua omelia: «Queste ferite – attribuisce a Gesù queste parole – non mi fanno gemere, piuttosto introducono voi al mio interno». Larry sa bene dallo studio delle Scritture che la croce non è un semplice incidente di percorso da superare e dimenticare, ma è la gloria di Cristo, perché è il punto più alto dell’arte divina di amare. Gesù Risorto – perdonate l’accostamento – non è un pupazzo di plastica dove tutto è pulito, senza alcun graffio e segni di sofferenza. Del resto, è così anche nella nostra vita, le ferite non scompaiono mai, ma possono cambiare di significato.
Poi, Gesù alita, soffia sul piccolo gregge dei discepoli impauriti e compie un gesto di creazione: lo stesso che ha compiuto il Creatore alle origini. È un antropomorfismo. Il Creatore compie il gesto delle levatrici che soffiano nelle narici del neonato, quasi per dare il via alla respirazione.
A seguire Gesù invia i discepoli: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». Li manda anche se sono fragili e, nello stesso tempo, li manda ricchi della sua potenza. C’è da una parte la fragilità di questi “strumenti umani” che sono gli apostoli, che siamo noi, dall’altra la consapevolezza di essere avvolti dalla potenza, perché dice il Signore: «La mia potenza si manifesta nella tua debolezza» (cfr. 2Cor 12,9). Allora i discepoli andranno… Per fare cosa? Certamente per l’impegno della carità, ad istruire, ma soprattutto ad annunciare la remissione dei peccati. Chi si sente peccatore conosce la gioia di incontrare, nella Chiesa, il perdono di Dio. L’annuncio del Signore è inscindibile dalla remissione dei peccati.
Otto giorni dopo. Di nuovo Gesù compare nel Cenacolo. Da notare che i discepoli sono ancora chiusi dentro… La sua prima venuta, quella di otto giorni prima, sembra essere stata senza effetto. Secoli dopo, Gesù ancora è qui, di fronte alle nostre porte chiuse, mite e determinato. Gesù non accusa, non rimprovera, non abbandona, si ripropone, si riconsegna.
Spendiamo una parola sull’assente, Tommaso. Non sappiamo perché Tommaso sia assente – il Vangelo non lo dice – però l’assenza non è mai del tutto innocente: l’assenza dice molte cose. Forse Tommaso non era con i suoi fratelli… anche per il risvolto imbarazzante per come aveva vissuto quel fallimento. Quando torna gli dicono con entusiasmo: «Abbiamo visto il Signore!». Ma lui non ci crede. Il narratore, l’evangelista Giovanni, mette noi lettori nella condizione di sentirci come Tommaso. Il lettore – anche noi – sente la buona notizia: «Gesù è risorto! Lo abbiamo visto!». Ma il lettore non incontra Gesù in carne ed ossa. Ognuno di noi vive questa esperienza di assenza, di dubbio. Cosa dicono a Tommaso i discepoli rimasti dentro al Cenacolo? «Non te ne andare. Resta nel grembo della comunità. Ti portiamo noi, crediamo noi per te». Giovanni scrive ad una generazione di cristiani che non è più contemporanea a questi fatti (il quarto Vangelo è l’ultimo ad essere stato scritto). I lettori sono tutti dei “Tommaso”, si trovano nella sua stessa situazione. Ci viene detto, in questo modo, che la nostra fede non è direttamente in Gesù, ma è la fede in chi ci ha annunciato Gesù, la Chiesa: una catena di testimoni lunga duemila anni, di generazione in generazione, che ci lega agli apostoli, ai pescatori di Galilea. Nella professione di fede proclamiamo: «Credo la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica». Se perdiamo il legame con l’apostolo, il vescovo, se ci sganciamo dall’unità con i vescovi e col Santo Padre, che presiede la carità della Chiesa, siamo tagliati fuori.
Vorrei concludere sottolineando come Gesù, conformemente con il suo stile, appare proprio a lui, a Tommaso, lo prende di mira, appare quasi solo per lui, in modo personalissimo, fino ad invitarlo ad un gesto di intimità: mettere la sua mano nella ferita del cuore e il dito nelle ferite delle mani. Tommaso dirà: «Mio Signore, mio Dio!», inequivocabile professione di fede nella divinità di Gesù. È la professione di fede dell’assente; l’assente che, mediante l’incontro, mediante la mediazione della comunità, diventa colui che fa la più alta professione di fede. Proprio sulle nostre assenze, sui nostri mancamenti, Gesù Risorto trova il modo di farci fare un’esperienza forte come quella di Tommaso. Gesù non vuole forzare Tommaso, ne rispetta fatiche e dubbi, sa che ognuno ha i suoi tempi, ma quello che vuole è il suo stupore, quando fa capire che la sua fede poggerà su un atto d’amore perfetto. La Domenica delle Palme papa Francesco, nell’omelia, suggeriva di mettere a confronto due parole: la parola ammirazione e la parola stupore. Lì per lì ho pensato volesse esortare all’ammirazione; invece, il Santo Padre ha detto: «Va bene l’ammirazione per Gesù; anche durante il suo ingresso a Gerusalemme l’hanno ammirato, ma quello che è più importante – ed è la grazia che chiediamo per Larry – è lo stupore». «Ripartiamo dallo stupore – ha aggiunto –, guardiamo il Crocifisso e diciamogli: “Signore, quanto mi ami, quanto sono prezioso io per te!”». Lasciamoci stupire da Gesù perché la grandezza della vita non sta nell’avere, nell’affermarsi, ma nello scoprirsi amati. Questo è l’augurio che facciamo a Larry.