Omelia nella II domenica di Pasqua
San Marino Città (RSM), chiesa di San Francesco, 19 aprile 2020
At 2,42-47
Sal 117
1Pt 1,3-9
Gv 20,19-31
Come si fa a non essere di buon umore in una domenica come questa?
Per prima cosa, siamo contenti per lo squarcio di Cielo che è il dono della Misericordia, poi per quello che ci dicono le letture. Domenica scorsa si diceva che usiamo il termine “vita eterna” per dire il suo prolungamento, la quantità smisurata di “vita” che oltrepassa e sconfigge la morte. È “vita nuova”, qualità di questa vita risorta. Nel quadro dagli Atti degli Apostoli ci viene raffigurato concretamente com’è la vita pasquale: i fratelli stanno insieme, spezzano il pane, ascoltano gli apostoli; attorno a loro cresce la simpatia e il numero della comunità; una comunità di questo tipo non può che essere attrattiva. Sicuramente c’erano anche le difficoltà… Come nelle nostre vite ci sono tanti motivi che oscurano il buonumore. Ma il buonumore di cui parlo è un dono dello Spirito, un buonumore soprannaturale, la gioia a cui alludeva Pietro nella sua Lettera: «Voi lo amate senza averlo visto e ora senza vederlo credete in lui, perciò esultate di gioia indicibile» (1Pt 1,8).
Questo tema viene ripreso dal Vangelo, dove Gesù dice: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno» (Gv 20,29). Noi di solito diciamo: «Vedere per credere». Gesù dice il contrario: «Fidati, credi: vedrai» (cfr. Gv 11,40).
Se il Santo Padre mi telefonasse e mi chiedesse com’è la Diocesi di San Marino-Montefeltro? Risponderei: «Santo Padre, la mia Diocesi è inginocchiata… ». C’è molta preghiera; pregano i piccoli e gli adulti, pregano i consacrati e i laici, pregano gli affezionati e le persone che non vanno tanto in chiesa. Dovrei anche dirgli che c’è chi chiede: «Prego tanto, ma dov’è il miracolo? Dov’è la fine di questo momento così tribolato?».
Rispondo, anzitutto, che la preghiera ci permette di continuare il cammino dentro al tunnel. Qualcuno dice che si intravvede la fine; io non ho competenze per dirlo, però assicuro che sono stati rinfrancati cuori, braccia e intelligenze.
La preghiera ci ha messo tutti nella verità, nella nostra condizione. Si dice: «Senectus ipsa morbus (la vecchiaia stessa è malattia)». Ma io direi piuttosto: «Humanitas ipsa morbus», la condizione di creature è segnata dal limite, dalla fragilità, per cui siamo malati di umanità. Umanità richiama “umiltà”, dalla parola “humus”, cioè terra: siamo fatti di terra.
La preghiera, soprattutto, ci mette davanti a Dio, al suo grande mistero e ci fa sentire il battito della vita nuova che dischiude l’involucro che la tiene prigioniera. Pensate al significato simbolico dell’uovo, un significato antico, precristiano: la vita nuova che pulsa spacca quell’involucro perché esca il nuovo modo di vivere.
La preghiera ci fa pensare al paradiso, al Cielo. Siamo “terra plasmata” per il dono della “vita nuova”, siamo fatti di Cielo, ma soprattutto siamo fatti per il Cielo. Le partenze sono molto dolorose, ma l’arrivo è sempre pieno di gioia, di abbracci, di festa. Ricordo quando mio fratello missionario partiva per il Congo dopo il periodo di riposo e visita alla famiglia. La mattina della partenza provavamo tanta tristezza; partiva per tre anni di missione. Una volta, all’aeroporto di Milano gli confidai quella tristezza. Mi rispose: «Penso a quando atterrerò con l’aereo a Goma (la città in cui era missionario): ci sarà tanta festa!».
È importante nella preghiera domandarsi: «Preghiamo bene? Quando siamo nella preghiera chiediamo cose buone? Siamo buoni quando entriamo nella preghiera?». Qualche catechista parla delle “tre B” della preghiera: chiedere bene, chiedere cose buone, essere buoni quando si prega. Un maestro di preghiera, che ascoltò il mio sfogo una volta in cui dissi che pregavo ma non succedeva niente, mi rispose: «Gliel’hai detto col Signore? Allora lascia fare a lui!».
In questi giorni la preghiera ci ha messo con le spalle al muro, come se il Signore ci dicesse: «Com’è la tua fede? Cosa pensi di Dio? Cosa pensi di te?». Essere messi con le spalle al muro: questo è accaduto a grandi oranti. Basta pensare ad Abramo, a Giacobbe, che ha lottato con Dio, a Giobbe, a cui è stato tolto tutto. C’erano persone attorno a Giobbe che si arrampicavano sugli specchi per difendere il silenzio di Dio, ma Giobbe fu l’unico ad accettare il rischio di stare di fronte al Mistero di Dio. Alla fine, Giobbe dovrà concludere: «Ti avevo conosciuto per sentito dire, adesso ti conosco veramente, perché sono passato attraverso la notte oscura della fede» (cfr. Gb 42,5). Gesù ci conferma: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Più o meno è quello che disse a Marta: «Non ti ho detto che, se credi, vedrai la gloria di Dio?». La parola di Gesù non è soltanto un invito a credere nonostante tutto, ma è un complimento a chi crede, non solo perché vedrà, ma perché godrà la prossimità con il Signore: «Beati quelli che pur non avendo visto crederanno». Gesù parla a noi e parla di noi. Come facciamo a non essere contenti?