Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario
Maciano (RN), 14 gennaio 2024
1Sam 3,3-10.19
Sal 39
1Cor 6,13-15.17-20
Gv 1,35-42
Questo brano mi rimanda al tempo della mia ricerca vocazionale; mi sono visto non solo nel discepolo Andrea, ma anche nel discepolo “innominato”: ogni lettore del Vangelo può rivedersi in lui. In questa pagina di Vangelo vediamo una raffica di sguardi, inseguimenti, inviti. Nella lettura liturgica ci siamo fermati al versetto 42, ma nei versetti seguenti c’è una sorta di reazione a catena: Andrea, Pietro e Giovanni vanno a raccontare l’incontro a Filippo; poi Filippo lo racconta a Natanaele…
Giovanni Battista, che ci ha accompagnato lungamente nel Tempo dell’Avvento, puntando il dito acclama: «Ecce, Agnus Dei», vedendo passare Gesù. Il suo sguardo su Gesù è profondo e intuitivo. Giovanni fissa Gesù Lo guarda, lo fissa e invita i suoi discepoli a seguirlo. Andrea e l’innominato sono della cerchia di Giovanni Battista, che ha trasmesso loro questa ansia di attesa del Messia.
Gesù si volta e volge il suo sguardo su di loro; altrettanto farà con Pietro e con Natanaele, che gli dirà: «Mi hai visto sotto il fico, ma io non ti ho visto…» (cfr. Gv 1,48). E Gesù concluderà dicendo: «Vedrai cose più grandi di queste» (Gv 1,50).
Dopo gli sguardi ci sono gli inseguimenti, con Gesù che passa. I discepoli vedono Gesù di spalle. Si può ricordare la pagina del libro dell’Esodo in cui Mosè implora: «Signore, che io possa vedere il tuo volto». Dio mette la mano davanti alla cavità della roccia dove si trova Mosè e Mosè può soltanto vedere il Signore di spalle: non si può vedere Dio e restare in vita. Invece, qui Gesù “si voltò”, “si è fatto volto” perché lo possano inseguire. Anche gli apostoli tra loro si inseguono in una sorta di staffetta attorno a Gesù.
Poi ci sono gli inviti: «Maestro, dove abiti?». «Venite e vedrete».
A proposito di Giovanni Battista si può notare il contrasto fra come lui presenta Gesù e come Gesù ama essere incontrato. C’è una leggera vena di ironia: le parole di Giovanni Battista rappresentano un fotogramma ad altissima definizione, che ritrae Gesù con termini biblici e teologici elevatissimi. Lo chiama “l’Agnello”. Probabilmente la parola “agnello” per noi non significa tantissimo; forse abbiamo fatto l’abitudine alle parole del sacerdote che, in vari momenti della Messa, evoca l’Agnello di Dio, ad esempio nel Gloria, o quando alza l’Ostia santa per la Comunione, quando si invoca tre volte “l’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo”. La parola “agnello” ai contemporanei di Gesù ricordava la notte dell’esodo, quando Mosè aveva detto: «Uccidete un agnello e con il suo sangue segnate gli stipiti delle vostre case: quel sangue sarà sangue che salva, che mette al sicuro». I primi discepoli, quando sentono la parola agnello, pensano immediatamente all’agnello di cui scrive il profeta Isaia, l’agnello che prende sulle spalle le nostre iniquità, che viene trafitto a causa nostra, al posto nostro, e diventa l’agnello che redime (cfr. Is 53). Lo stesso tema è trattato nel libro del profeta Geremia: l’agnello mansueto, che viene condotto al macello (cfr. Ger 11,19). L’agnello era atteso per il momento definitivo, escatologico; sarebbe stato colui che avrebbe rinnovato il mondo: agnello vittorioso. Nell’Apocalisse la figura dell’agnello ritorna sedici o diciassette volte. Giovanni, nel suo Vangelo, vede in Gesù Crocifisso, nell’era in cui al tempio si sacrificavano gli agnelli, il vero Agnello immolato, a cui non è spezzato alcun osso (cfr. Es 12,46), secondo il rituale. Quello che ha detto il Battista è vero, va meditato, è importante per la formazione e il cammino di fede, ma Gesù si pone subito su un altro livello, quello dell’interpersonalità. Allora vengono fuori non soltanto gli scambi di sguardo, ma gli inviti: «Maestro, dove dimori?». “Dimorare” significa molto di più dell’indirizzo di casa, anche perché Gesù ha lasciato Nazaret e da quel momento è itinerante. «Dove dimori?», significa «dove sosti?», «dove dormi?», per dire l’amicizia che Gesù vuole creare con i suoi discepoli. E loro vanno dietro a lui.
A questo punto c’è una pausa, un silenzio: non ci viene detto nulla di quella giornata nella quale i due restano con Gesù: l’amicizia ha i suoi spazi e i suoi tempi di intimità. Siamo noi a dover occupare quello spazio, abitare quel silenzio.
La domanda di Gesù è: «Che cosa cercate?». Sapeva bene che cosa cercassero. Probabilmente i discepoli erano imbarazzati, avendo alle spalle il loro maestro, Giovanni Battista, mentre andavano ad incontrare un perfetto sconosciuto, presentato con parole così solenni e “ad alta definizione”. Gesù fa una domanda sui loro desideri e li conduce, per così dire, nel loro giardino interiore. Non è una domanda sui precetti, ma sul loro desiderio: parola ricca e densa di significato. Gesù vorrebbe che, fra i tanti desideri, facessero spazio dentro di loro per cogliere il Desiderio, perché lui è capace di colmarlo. “Desiderio” è parola latina composta dalla preposizione “de” e dalla parola “sidera” (le stelle). Questa parola nasce da un’intuizione ancestrale: l’uomo proviene dalle stelle, da cielo, è fatto di cielo. Ma sulla terra fa esperienza della lontananza. Da qui la tensione verso l’origine e l’infinito. Gesù si propone come colui che compie il nostro desiderio più profondo.
Dopo che sono stati una giornata con lui – «erano le quattro del pomeriggio (l’hanno ricordato per tutta la vita)» – si vede l’entusiasmo col quale i discepoli tornano da quell’incontro, ma anche il loro cambiamento. A Pietro, Gesù cambia addirittura il nome dopo averlo appena visto: «Tu non sei Simone, ma Pietro», che vuol dire “la pietra”, il fondamento della futura comunità.
Ricordo che ad un incontro col gruppo dei giovani universitari e lavoratori, a cui partecipavano anche ragazzi in ricerca, con vari desideri (tra cui anche quello di trovarsi la fidanzata!), un giovane affermava di essere “credente, ma non praticante” e un amico camerunese scoppiò a ridere. Non capiva come fosse possibile essere credenti e non praticanti (era diventato cristiano da adulto), cioè, essere cristiani ma non abitare con Gesù.
Quali sono i luoghi dove Gesù dimora?
Innanzitutto, come ho già detto, nel nostro giardino interiore. Un altro è nell’esperienza della famiglia e della comunità. Pensiamo al rapporto fra Maria e Giuseppe. Gesù lo dirà nel Vangelo: «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io abito in mezzo a loro, “dormo” in mezzo a loro» (cfr. Mt 18,20). Gesù dimora nella nostra chiesa parrocchiale, casa tra le case dove il Signore ha posto il suo nome, dimora nel Tabernacolo dove lui rimane come presenza, azione e autodonazione. Ma c’è una dimora alla quale tutti dobbiamo puntare: è la dimora nella quale Gesù ha preparato dei “posti”. Abbiamo paura dell’ignoto, ma le parole di Gesù sono bellissime: «Vado a prepararvi un posto e quando sarò andato vi chiamerò e dimorerete con me insieme al Padre» (cfr. Gv 14,2-4). Che questa settimana torni spesso questo dialogo: «Maestro, dove abiti?». «Che cosa cerchi?». Alla fine del Vangelo di Giovanni vedremo che Gesù cambierà la domanda rivolgendosi alla Maddalena; non dirà più «che cosa cerchi?», ma «chi cerchi?».