Omelia nella Festa patronale di San Giuseppe Lavoratore
Gualdicciolo (RSM), 1° maggio 2021
At 9,26-31
Sal 21
1Gv 3,18-24
Gv 15,1-8
Oggi in Cattedrale a Pennabilli è stato aperto l’Anno giubilare di San Giuseppe, sposo di Maria, padre legale (putativo) di Gesù e si è dato inizio al “mese di maggio” dedicato alla Madonna con una grande supplica per la fine della pandemia, secondo l’indicazione di papa Francesco: trenta Santuari sono coinvolti nella staffetta di preghiera che si concluderà il 31 maggio nei giardini vaticani. Oggi si apre a Roma, in San Pietro, con sessanta giovani (uno di loro è di San Marino!).
Nel 1955 papa Pio XII istituiva la memoria liturgica di San Giuseppe Lavoratore per testimoniare l’importanza del lavoro nella visione cristiana.
Oggi non si può celebrare la memoria di san Giuseppe Lavoratore senza tornare alle parole di papa Francesco nella Lettera Apostolica Patris Corde, a lui dedicata. Il lavoro di san Giuseppe «ci ricorda che Dio stesso, fatto uomo, non ha disdegnato di lavorare. La perdita del lavoro, che colpisce tanti fratelli e sorelle e che aumenta negli ultimi tempi a causa della pandemia dev’essere un richiamo a rivedere le nostre priorità» (PC 6).
Un carisma, quello di san Giuseppe, che si riassume nella capacità di essere “custode” di un tesoro prezioso, perché – spiega ancora il Papa – egli ci insegna che il lavoro è «partecipazione all’opera stessa della salvezza, occasione per affrettare l’avvento del Regno, sviluppare le proprie potenzialità e qualità, mettendole al servizio della società e della comunione».
È la seconda volta che celebriamo la festa di san Giuseppe Lavoratore in pandemia. La sofferenza si è fatta più forte; dall’inizio dell’emergenza, in Italia ci sono 900mila occupati in meno. E, se anche ci dicono vi siano timidi segnali di ripresa (a marzo), la disoccupazione giovanile tocca il 33%. Anche i Vescovi – nel loro Messaggio – denunciano la preoccupazione per le disuguaglianze e chiedono di abitare una nuova stagione economico-sociale. «Nel mondo del lavoro si sono aggravate le disuguaglianze esistenti e create nuove povertà».
Perché lavoriamo? Molti possono rispondere dicendo che si lavora per portare il pane a casa. Verissimo. Ma forse lo scopo più vero e più profondo del lavoro dovrebbe essere quello di trovare il modo di esprimere noi stessi. Nel lavoro ci si percepisce utili e significativi. La mancanza di lavoro, invece, è come un’amputazione alla dignità della persona. Molte volte la mancanza di lavoro getta nella più profonda depressione.
San Giuseppe è conosciuto come un lavoratore, un artigiano. Gesù sarà chiamato «il figlio del falegname» (Mt 13,55). È certo che san Giuseppe avrà insegnato il suo mestiere anche a Gesù. Il Figlio di Dio ha lavorato come ogni uomo al mondo. Ma anche chi ha un lavoro non è detto che lo viva come qualcosa che lo renda felice e lo gratifichi. Infatti, a volte si fanno lavori che non vorremmo fare e li facciamo solo per necessità. Così il lavoro non è più il luogo dove io esprimo me stesso, ma è il luogo dove accumulo frustrazioni. Tutto questo, però, può essere capovolto attraverso una conversione dello sguardo: il lavoro ci gratifica e ci santifica non solo quando ci aiuta ad esprimerci, ma quando lo facciamo “per amore”! Allora anche la cosa più noiosa o stancante diventa bella, quando sai che la stai facendo “per amore” di chi ami. San Giuseppe è illuminante per questa logica del “fare per amore”.
Quanta luce, quanta ispirazione ci viene dalla meditazione sul Vangelo che abbiamo appena ascoltato. Gesù ci propone una nuova allegoria. Viene presa dal mondo del lavoro agricolo: la vite, i tralci, la potatura, il contadino… Gesù segnala la necessità di «portare frutto». Voi direte “frutti spirituali”… E non sono frutti spirituali il bene che si fa per la propria famiglia e il proprio Paese? E praticare un lavoro ed una professione in modo onesto non è testimonianza? Ed essere in grazia di Dio non è – per il lavoro che svolgiamo un produrre come se Gesù operasse per mezzo nostro? Noi in lui e lui in noi, uniti insieme, portiamo frutti di santità. Tutto quello che un discepolo fa unito a Gesù acquista un valore aggiunto. Si tratta di un valore di santificazione, di redenzione, di costruzione del Regno di Dio.
Conseguenza: anche il lavoro più semplice e più nascosto non perde in preziosità; anche la sofferenza per il non-lavoro (malattia o condizione di anzianità) è, in qualche modo, “lavoro”: inazione, ma lavoro interiore di santificazione. E c’è il lavoro verso la nostra crescita umano-cristiana, il lavoro-preghiera e la preghiera-lavoro.
Solo il peccato ci stacca dalla vite: allora la linfa non arriva a noi, allora il tralcio – che siamo noi – non produce frutti soprannaturali di grazia.
«Senza di me non potete far nulla!». E quello che facciamo senza di lui (il nostro attivismo) è soltanto paglia!
In questo è glorificato il Padre: che siamo discepoli di Gesù e che portiamo frutto.