Omelia nella festa del Battesimo di Gesù

Talamello, 13 gennaio 2019

Is 40,1-5.9-11
Sal 103
Tt 2,11-14;3,4-7
Lc 3,15-16.21-22

Quella notte la cattedrale splendeva di una luce accecante: era la notte di Pasqua di qualche anno fa. Grondavano gli Alleluia polifonici. L’organo, dopo i giorni del silenzio della Settimana Santa, intonava “ripieni” di vittoria. Condivisi con i presenti l’estasi di quella notte piena di misteri svelati, di simboli e di canti.
Lascio la cattedrale – ormai è notte fonda – ed entro, ben coperto, nell’oscurità della notte. Piove. Attraverso la piazza di Pennabilli: sto raccontando un’esperienza reale. Da una via secondaria si ode un chiacchiericcio sommesso: decine di giovani stazionano davanti al bar stracolmo di gente. È solo una tappa verso i luoghi del sabato sera. Passano così la notte di Pasqua. Sarebbe stato bene imboccare quella direzione, attaccar bottone con quei ragazzi per raccontare la novità, perché di novità si tratta: Gesù è Risorto, è vivo! Il contrasto è stridente. Ma il timore di essere importuno, la fretta del rientro, la preoccupazione per le eventuali reazioni dei ragazzi mi hanno fatto riprendere la strada senza fermarmi. Poi, quasi subito, rincasando muto e deluso dalla mia prudenza, mi sono fatto queste domande: «Per te dov’è la forza della Pasqua? Quanto grande è il tuo convincimento della novità cristiana? Qual è lo spessore reale del tuo incontro con Gesù Risorto?».
Chiedo un po’ di benevolenza. Parto da questa esperienza reale per dire qualcosa del nostro Battesimo.
Le statistiche assicurano che in Italia il 98% degli italiani è battezzato (probabilmente tale valore si è un po’ abbassato per l’arrivo di persone provenienti da altra cultura e altre religioni). E molti si ritrovano cristiani senza aver mai deciso di diventarlo. Non è che chi non pratica o non pensa al suo Battesimo sia una persona meno sensibile ai valori, meno raffinata moralmente, meno dedita al prossimo. Ma essere cristiani è semplicemente un’altra cosa. L’essere cristiani ci situa in una responsabilità diversa.
Un indice abbastanza significativo di quello che sto dicendo è la diversità con cui viene celebrata la Pasqua rispetto al Natale. Molta gente frequenta il Natale. Invece le Veglie pasquali, che sono il centro della vita della Chiesa, sono povere di presenze. Il Natale – si dice – col suo messaggio di pace, di bontà, con le sue melodie pastorali e le tradizioni famigliari, è sentito da tutti. Perfino la tv ne parla e sovrabbonda di richiami natalizi, tralasciando quasi sempre riferimenti al Festeggiato. Eppure, la Pasqua è il centro teologico e temporale della fede cristiana. «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede», già dicevano i primi cristiani (cfr. 1Cor 15,17). La Veglia pasquale è il momento più alto e significativo per il nostro cammino come comunità cristiana. È «la grande notte» nella quale i cristiani si connettono con la grande epica di Israele: liberazione dalla schiavitù, passaggio del mar Rosso, esodo verso la terra promessa, esperienza di un Dio presente che non sta “sopra”, ma “davanti” ai cammini di liberazione. La notte di Pasqua fa rivivere tutto questo. Gesù, dopo aver dato la sua vita sulla croce per amore, risorge e comunica la vita nuova a chi l’accoglie. L’antico esodo, adesso, lo si vive nel Battesimo. Allora ogni cristiano dovrebbe riprenderlo in considerazione seriamente e fare di nuovo “il passaggio” ad una vita nuova, che è la vita stessa di Gesù. Gesù, nella più solenne delle sue apparizioni davanti ai testimoni oculari, ha detto: «Battezzate» (cfr. Mt 28,19). Ci sarebbero molte cose da dire, ma penso subito al nostro personale Battesimo. Il Papa più volte in questi anni ci ha invitato a disturbare il nostro parroco per chiedergli di farci vedere sui registri quando siamo stati battezzati. In alcune famiglie c’è una piccola acquasantiera; c’è anche davanti alla porta della nostra chiesa. Quando intingiamo la mano nell’acqua e facciamo il segno di croce, facciamo memoria del nostro Battesimo e ricordiamo con quale amore siamo stati accolti nella famiglia di Gesù.

Vorrei soffermarmi sulle “tre parole” che vengono pronunciate nel momento del nostro Battesimo. Parole sconvolgenti e programmatiche: sono le stesse che sono state pronunciate su Gesù nel giorno del suo Battesimo al fiume Giordano. Basta la meditazione di queste parole per farci ritrovare la consapevolezza di cosa significhi essere un battezzato. Sono parole che grondano Bibbia, anche se sono brevissime, incisive, ma dietro vi stanno pagine e pagine di Sacra Scrittura, scritte per noi. Sono parole che esprimono intensità di relazione. Sono state rivolte a ciascuno di noi, come unico destinatario. Parole creatrici e arcane, come sono tutte le parole di Dio. Risuonarono in quel momento, ma riempiono tutto il tempo della nostra esistenza. La stessa dichiarazione d’amore indirizzata a Gesù dal Padre, viene, per così dire, indirizzata a ciascuno di noi per la nostra felicità. Non si finisce mai di gustarle. Risulteranno sempre nuove. Ci saranno momenti nei quali ci parranno addirittura incredibili, tanto sorprendono; alcune volte sono consolanti, soprattutto quando ci sentiamo sbagliati. Qualche altra volta sono un balsamo, mentre ci battiamo il petto riconoscendo i nostri peccati. Teniamole sempre presenti. Sono parole semplicissime. Ognuno le senta rivolte proprio a sé. Le faccia oggetto di meditazione durante la settimana, nei momenti di passaggio tra un’azione e l’altra, nei momenti di preghiera, anche quando si guida l’automobile. Ecco le tre parole.

«Tu sei figlio mio». È una dichiarazione. Molti testi sacri, anche delle altre religioni, concordano nell’affermare che, essendo creature di Dio, in un certo senso siamo figli di Dio. Ma noi lo diciamo con un altro significato, perché qui è svelata una relazione profonda. Siamo chiamati ad una relazione interpersonale con Dio. Siamo innalzati alla sua stessa guancia, possiamo rivolgere il nostro sguardo nei suoi occhi e ripetere senza fine: «Tu sei mio Padre».

«Tu sei l’amato». «Amato» è un participio che nelle Scritture viene usato per Isacco, figlio di Abramo, il figlio della promessa, sacrificato sul monte e riavuto, generato due volte (al tramonto del grembo sterile di Sara e sulla cima di una terribile obbedienza che chiedeva la sua immolazione).

«In te ho il mio compiacimento», cioè tu sei oggetto della mia gioia. Verrebbe da dire con uno scrittore cristiano: «Si può aggiungere splendore al sole, dolcezza al miele, felicità al paradiso?». Eppure, quest’affermazione è forte: tu sei gioia per il Signore. Che cosa trova di così appagante nella sua creatura? L’ha creata a sua immagine, l’ha destinata a partecipare alla sua vita. Se la lontananza genera nostalgia, il ritorno colma di gioia. In due passi del Vangelo sta scritto: «Si fa più festa in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7-10).
Questo è semplicemente il contenuto delle Scritture, è il linguaggio usato da Dio nelle sue parole ed è ciò che noi celebriamo in ogni Battesimo. «Tu sei figlio mio, l’amato, oggetto del mio compiacimento, della mia gioia».