Omelia nella Celebrazione eucaristica per i def.ti nel periodo della pandemia
San Marino Città (RSM), Basilica del Santo, 18 giugno 2020
Deut 8,2-3.14-16
Sal 22
Mt 11,25-30
Eccellenze,
Signore e Signori,
fratelli e sorelle,
anche noi, come descritto nel breve resoconto biblico dal Deuteronomio, abbiamo attraversato un deserto pieno di insidie, un deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti e di scorpioni velenosi, terra assetata e senz’acqua. Per noi quel deserto fu dominato da virus invisibili. Il Signore ha permesso questo attraversamento. La Parola di Dio non dice che fu castigo, adopera altre espressioni, altra logica. Fu «per metterti alla prova», «per sapere quello che avevi nel cuore», cioè per metterti a nudo. «Ti ha fatto provare la fame», ma per poterti dare la manna. La manna è un pane del Cielo, significa gratuità, sorpresa, la sorpresa della solidarietà, della bontà che c’è in tanti cuori. «Ti ha messo in cammino per farti felice nel tuo avvenire». Questa è la lettura che il libro del Deuteronomio fa del cammino dell’esodo, questo attraversamento così penoso.
Se dovessimo tradurre con linguaggio corrente questi paradossi ricorrerei al celebre romanzo di H. Hemingway, dove alla domanda «per chi suona la campana», fa rispondere «quella campana suona per te». Tocca a noi non lasciar cadere quanto è accaduto senza trarne profitto. Nella prova, nella sofferenza, nel dolore, quante lezioni di vita: riscoperta della fede e della preghiera; stupore di fronte ad una realtà più grande del nostro minuscolo cabotaggio; solidarietà, interdipendenza, disciplina, controllo di sé; distanziamento dal vicino per salvaguardare il bene di tutti, il bene più grande; sforamento di quella bolla di sapone che tanto spesso ci fa prigionieri. Non chiederti «per chi suona la campana», quella campana «suona per te», per farti conoscere, per farti vedere quello che hai nel cuore, per far sì che tu sappia metterti a disposizione, per darti la manna della solidarietà, per farti felice nel tuo avvenire.
Abbiamo attraversato un grande deserto, ma non ne siamo ancora usciti del tutto. Se l’emergenza sanitaria nella nostra Repubblica – ne parlavo oggi con il Signor Segretario di Stato alla Sanità – sembra ormai superata, o comunque contenuta, in altre nazioni è ancora viva ed è appena iniziata l’emergenza economica, intrecciata con quella sociale: un deserto ancora più vasto e insidioso. Siamo in questo guado, tra la sensazione di avere scampato il pericolo più grande e la consapevolezza di avere di fronte altre lotte, da sostenere insieme, con prudenza e determinazione. Siamo nella situazione di chi corre il rischio di rilassarsi, cantar vittoria, dimenticare il Signore e i buoni propositi maturati durante il cammino nel deserto. C’è un verbo che ricorre nel testo del Deuteronomio: ricordare. Ricordare letteralmente significa “rimettere dentro al cuore”, rimettere dentro al cuore gli avvenimenti vissuti in questi mesi. Vari di noi qui presenti sono parenti e amici di persone che ci hanno lasciato, per “Coronavirus” o per altre malattie, nei mesi delle restrizioni più rigorose, e hanno vissuto un dolore talmente profondo da non poterlo dimenticare. Il rischio, semmai, è che non si riesca a rimetterlo dentro al cuore, cioè a rielaborarlo, perché è un masso che rimane sulla soglia del cuore. Vengono in mente le parole delle donne che sono andate al sepolcro di Gesù: «Chi toglierà la grossa pietra dal sepolcro?» (Mc 16,3). Nelle settimane e nei mesi appena trascorsi ci siamo scontrati con il limite, con la nostra fragilità, con la sofferenza, con l’isolamento e con la morte. Noi solitamente tendiamo a nascondere la morte, a medicalizzarla, ad accettarla fatalisticamente, ma abbiamo dovuto ascoltarla, perché la morte parla comunque.
Mi viene in mente il film di Bergman “Il settimo sigillo”, dove c’è una partita a scacchi con la morte: un’espediente cinematografico-letterario eloquente. Ci siamo scontrati, poi, con quell’ingiustizia che è la solitudine di chi è morto così. Non possiamo permettere che qualcuno scompaia nel nulla, poi occultato. La morte, infatti, incomincia sempre prima nell’abbandono, quando la vita perde valore, o meglio quando noi non sappiamo più vederne il valore. Le preghiere, pur sommesse, e il suono delle campane ci hanno ammonito che la vita non deve finire nella solitudine senza che la comunità sia coinvolta. Grazie per chi ha pensato, progettato e realizzato questo nostro incontro di preghiera, questa sera. Non possiamo accettare che la persona diventi un numero. Nei giorni di “contabilità funebre” l’immagine dei mezzi militari che trasportavano una quantità incalcolabile di bare hanno dato a tutti con sgomento le proporzioni di quello che stava succedendo. Per chi ama, questo è inaccettabile; per noi, come per i tanti per i quali non è stato possibile celebrare i funerali per dare l’ultimo saluto ai loro cari. Ci siamo detti tutti: «Strano, quasi surreale, disumano». Se il male ha provato a rendere ogni defunto un numero, l’amore fa esattamente il contrario: per chi ama, l’amato non diventa mai uno dei tanti; l’articolo tra coloro che si amano non sarà mai l’articolo indeterminativo, non sarà mai “uno” ma “lui”, non sarà mai “un tale”, ma “mio fratello, mia sorella, il mio amico”. Un numero non ha volto, e Dio ci ama personalmente, ce lo insegna la sapientia cordis. Dio ama uno ad uno, conosce ciascuno, perfino i capelli del nostro capo li ha contati, apprezza quel bicchier d’acqua offerto all’assetato che passa accanto. L’amore non perde nulla dell’amato e non vuole perdere nulla, perché tutto è importante. «Venite a me – dice Gesù nel Vangelo – voi tutti che siete stanchi e oppressi». Dice «venite a me» non per introdurci in un nuovo sistema di pensiero oppure in una nuova morale, ma «venite a me» per «trovare ristoro». Per me, per ciascuno, nominare Cristo deve equivalere ad un confortare la vita. Il discorrere di Gesù, come stiamo facendo adesso, deve diventare un racconto di speranza e di libertà, altrimenti è la prova che quelle parole non vengono da lui. Andiamo da Gesù, andiamo a scuola da lui, scuola di vita: «Imparate dal mio cuore», dice Gesù. Il cuore si fa maestro. Gesù lo si impara, imparando il cuore. Così sia.