Omelia nella celebrazione eucaristica nell’Insediamento dei Capitani Reggenti
San Marino Città (Basilica), 1 aprile 2019
2 Cor 5,18-20
Lc 15,1-3.11-32
Eccellenze, Signori e Signore,
un caloroso saluto a tutti.
La prima parola è “grazie” ai Capitani Reggenti che hanno concluso il loro mandato, contrassegnato da tanto impegno, da una presenza costante fra le componenti della nostra comunità civile, da un’attenta vigilanza e accoglienza (penso alle tante udienze a cui si sono resi disponibili). Sono stati anche un esempio di come si pensa, si vive, si integra la disabilità. Una comunità è matura non solo quando ha attenzione alla disabilità, ma quando in essa la disabilità viene onorata.
Saluto con deferenza i Capitani Reggenti che oggi si assumono la responsabilità di essere riferimento fondamentale, etico, sociale e politico della nostra Repubblica. Auguro che il loro servizio intensifichi quella possibilità di dialogo tanto necessario in questo tempo tra noi e la difesa appassionata dei diritti e dei doveri inderogabili della persona, della famiglia e dell’educazione.
Saluto con profondo affetto ecclesiale il Nunzio, Sua Eccellenza mons. Emil Paul Tscherrig, che ci porta anche fisicamente la vicinanza e l’affetto del Santo Padre. Lo preghiamo di farsi interprete presso papa Francesco del nostro affetto e dell’adesione al suo programma.
Vorrei avervi tutti compagni e alunni ai piedi del Maestro Gesù. Impariamo da Lui l’insegnamento più necessario, più utile e più bello: l’insegnamento su Dio. Infatti, lo scopo della parabola che è stata proclamata poco fa dal diacono, riferitaci dall’evangelista Luca, è di farci cambiare l’opinione che solitamente abbiamo di Dio. Le Sacre Scritture dell’Antico Testamento ci parlano spesso delle alleanze di Dio con l’umanità e quelle parole sono come altrettante note musicali che discendono sul foglio bianco. Nella pienezza dei tempi Gesù viene, distende il rigo musicale e quelle note finalmente diventano leggibili.
Preferisco chiamare questa parabola, solitamente detta “del figliuol prodigo”, la parabola “del Padre misericordioso”, perché tutte le linee narrative portano a lui. Ci sono i due figli coprotagonisti e tante altre comparse.
Facciamo attenzione al figlio più giovane. Se ne va da casa con la sua parte di beni, la sua eredità. In cerca di che cosa? Fondamentalmente in cerca di se stesso e della sua felicità. Il padre lo lascia andare; si direbbe quasi che sia un padre che ama la libertà del figlio, la provoca, la festeggia… e la patisce. Quel figlio insegue la felicità, ma si accorge che le cose sulle quali si è buttato hanno un fondo e che il fondo è vuoto: la sua è un’illusione di felicità da cui si risveglia tra porci, ladro di carrube per vivere!
La sua vicenda è una descrizione del peccato: peccato come discesa, viaggio ed esilio lontano da Dio; la miseria come perdita della gloria dell’uomo come immagine di Dio; la famigliarità coi porci, segno della morte dovuta al peccato. Ma il prodigo rientra in sé. Nel suo soliloquio sembra dimostrare d’aver preso coscienza del suo male. Riecheggiano le parole del profeta Geremia: «Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza» (Ger 31,18-19).
Il prodigo sa di non avere più diritti. Si augura d’essere trattato come un avventizio. Cerca, in quello che fu suo padre, almeno un buon padrone. Torna, ma torna per fame non per amore. Torna per non morire.
Ora l’attenzione va sulla figura centrale, quella del padre. Il padre fa tutto da solo. Quello del figlio non è vero pentimento, è un pentimento interessato. Al padre basta anche un cenno, un passo, un alzar di sguardo. Perdona non con dichiarazioni, ma con una carezza.
Gustiamo i cinque verbi del perdono paterno: scruta l’orizzonte e vede; corre incontro incurante anche di compromettere la sua compostezza orientale; si commuove: è commozione viscerale, empatia; si getta al collo del figlio, lo bacia.
Segue la consegna di tre simboli. La veste: dignità riconsegnata; l’anello: sigillo dell’autorità che ha come figlio; i sandali, segno dell’uomo libero (lo schiavo cammina scalzo).
E poi c’è la festa.
Il figlio maggiore entra in scena di ritorno dal lavoro. Chissà se ama le cose che fa! C’è contrasto fra il suo cuore infelice e la festa che tracima dalla casa. Si informa. È imbronciato, protesta i suoi meriti. Il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore è fatto di osservanze meticolose, di austerità forzata, di virtù obtorto collo. Questo gli impedisce di entrare nella logica del padre, che è basata sull’amore gratuito. Qui c’è un padre che non è giusto: è di più, è amore incondizionato, eccedente!
Il più giovane si era sbagliato sul padre, il più grande continua a sbagliarsi. Lo pensano più padrone che padre, più autorità che autorevolezza, più spione che uno che ha cura.
Il finale della parabola è aperto. Capirà il figlio maggiore? Entrerà alla festa? Ma soprattutto: noi capiamo quello che abbiamo letto?
Le parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,18-20) mi riportano ad uno degli episodi più commoventi della Genesi. Narra di Giuseppe, il figlio di Giacobbe, spogliato di tutto, venduto ai mercanti d’Oriente dai fratelli gelosi di lui, fatto prigioniero in Egitto, poi diventato vicerè d’Egitto perché sa interpretare i sogni. Nell’epilogo del racconto lo si vede piangere sette volte (fra i personaggi della Bibbia è quello che piange di più, sette volte in poche righe di racconto). Sono lacrime per lo più di commozione, di gioia e di riconoscenza, per i fratelli ritrovati, per la tenerezza del padre, per l’abbraccio al fratello più piccolo, Beniamino. Il settimo pianto, invece, è di dolore, di delusione, di amarezza. Dopo la morte del padre Giacobbe i suoi fratelli ritornano nella paura perché non credono al perdono di Giuseppe: si sentono allo scoperto, senza protezione.
Giuseppe mi appare come figura di Dio. Non so se Dio piange quando i suoi figli pensano di doversi ancora procacciare il suo favore, quando non capiscono il suo cuore e sembrano non fidarsi di lui, anziché buttarsi nelle sue braccia, abbandonandosi alla confidenza. Dio fa il primo passo; la riconciliazione è già completa; è avvenuta, per così dire, unilateralmente, perché «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).