Omelia in occasione della Giornata sacerdotale durante il pellegrinaggio diocesano dell’USTAL a Loreto
Loreto (Basilica della Santa Casa), 27 luglio 2018
Gv 2,1-11
(da registrazione)
Perdonate il candore: «Ma che ci fa Gesù ad una festa di nozze?». Schiavi, lebbrosi, poveri d’ogni sorta gridavano la loro disperazione verso il Cielo. E, prima, generazioni di oranti avevano implorato che il Cielo si aprisse in loro soccorso. Ma Gesù, il Messia che viene nel mondo, comincia da una festa di nozze. A Cana, uno degli ultimi villaggi della Galilea delle genti, in quel contesto di festa “campagnola” – ma festa grande – compie il primo dei suoi segni: cambia l’acqua in vino. Verrebbe da dire che la potenza taumaturgica del Messia sia sprecata per uno scopo così modesto, quasi un numero da giocoliere. E tutto per cavar fuori dall’imbarazzo una coppia di sposi. Tutto qui?
Il Vangelo fa capire però che sotto c’è qualcosa di molto importante, carico di mistero, ben al di là di un episodio di cronaca familiare.
Andiamo anche noi, oggi, con Maria, Gesù e gli apostoli a Cana di Galilea e, partecipando a quella festa, guardiamo la famiglia con gli occhi di Gesù. Non sappiamo il futuro di quegli sposini di Cana. Certo, hanno avuto un inizio molto fortunato. Ma anche i nostri sposi hanno un inizio fortunatissimo, perché si sposano nel Signore, più o meno consapevoli. La Chiesa fa uno sforzo, quando gli è possibile, con l’impegno dei parroci e dell’équipe che guida gli incontri di preparazione al matrimonio. Si dirà che è poca cosa, ma posso testimoniare – ed è stato anche oggetto di conversazione nel tavolo dove mangiavo ieri – che per molti c’è la sorpresa di vedere cambiata la Chiesa. «Siamo venuti a testa bassa a questi incontri, pensando che ci avrebbero “bastonato” per le nostre assenze alla Messa e per la convivenza» confidano alcuni. «Tuttavia, c’è spirito di accoglienza, vogliono che parliamo, veniamo salutati con entusiasmo».
Come vive la famiglia, Gesù? Prima di tutto la vede come dono. Poi come una responsabilità. Infine, come una vocazione. La famiglia forse è il dono più grande, e lo è per tutti, anche per noi sacerdoti che professiamo il santo celibato per il Regno dei cieli. Anche noi proveniamo da una famiglia, anzi, coltiviamo relazioni famigliari. Vorremmo addirittura che le nostre comunità avessero caratteristiche di famiglia; non sapremmo pensarci fuori da una famiglia. La famiglia è un dono per tutti, davvero, perfino per quanti ne hanno sperimentato la difficoltà, il fallimento. Sono una grande sofferenza la mancanza della famiglia, i suoi cedimenti; un dolore che ha il timbro della nostalgia.
C’è una pagina meravigliosa della Genesi a cui Gesù ricorre spesso ed è una pagina che illumina la storia di ogni famiglia. Tutto parte da una parola di Dio: «Non è bene che l’uomo sia solo» (Gn 2,18). Il male originale, il primo che appare sulla Terra prima ancora del peccato, è la solitudine, perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo, neppure il paradiso è sufficiente. Per questo Dio dice: «Voglio fare all’uomo un aiuto che gli corrisponda». Questo dono per Adamo è Eva, data a lui nel sonno, perché l’uomo non ha fatto nulla per meritarsela, tratta dal fianco perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. C’è un midrash che dice che Dio non ha tirato fuori la donna dalla testa dell’uomo perché la donna avrebbe potuto montare in superbia; non l’ha tirata fuori dai suoi piedi, perché l’uomo non la tratti come uno zerbino; l’ha tolta da una costola, dal suo cuore, perché fosse pari nella dignità. Insieme, uomo e donna, sono chiamati ad un amore per sempre e chiamati a suscitare vita. All’inizio, prima della «durezza del cuore» (Mt 19,8), era proprio così. Poi, con la «durezza del cuore», sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati. Ma Gesù, nel tempo delle nozze di Cana, cambia l’acqua in vino, fa agli sposi il dono del sacramento del matrimonio. L’amore umano non viene abbassato, ma innalzato e trasfigurato, riconsegnato all’uomo e alla donna con un valore aggiunto, fino ad essere segno dell’amore tenero, fedele, indissolubile e fecondo di Dio. Gesù ripropone la grazia del principio. Chi si sposa, chi è sposato, chi progetta il suo matrimonio pensi a questa grazia. È potenza di Dio, non si basa sulle proprie forze, sulle proprie promesse di giovani innamorati. «Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali» (San Leone Magno). Nel sacramento del matrimonio passa la potenza di Gesù, del suo amore. Il matrimonio è un dono perché la creatura che viene al mondo, un cucciolo d’uomo, ha bisogno per amare di essere amato dal papà e dalla mamma. Il matrimonio è un dono perché è uno spazio spirituale dove le differenze possono fare armonia: giovani e adulti insieme, doni e carismi, uguaglianza e diversità, proprio come rami che da un unico albero, dallo stesso tronco, salgono divaricandosi. La famiglia dunque è luogo di intense relazioni, vera palestra di umanità.
La famiglia a volte viene chiamata, anche nella Bibbia, “la casa”. Ricordo che nei giorni del terremoto a Ferrara, nel 2012, molti di noi vivevano fuori casa, in tenda, e una famiglia venne a chiedermi il permesso di parcheggiare la roulotte nel cortile della scuola materna parrocchiale, perché non osava più tornare a casa; ho capito che “la casa” era la loro unione, era la famiglia. Ecco, le Scritture ci dicono che la famiglia è un grande dono, per questo facciamo festa ed è giusto, con immensa gratitudine. La famiglia, in quanto dono, va protetta, difesa, non sprecata.
Poi, la famiglia è una responsabilità perché ogni suo componente deve averla a cuore, dipende da lui la famiglia, non dipende solo dal papà o dalla mamma. Non vale essere soltanto “a rimorchio”. Occorre che ognuno faccia la propria parte. Responsabilità, del resto, vuol dire risposta. Amore che va e amore che torna nella reciprocità. È opportuno un esame: che cosa facciamo per la vita e la missione della mia famiglia? Inoltre, essendo anche una responsabilità sociale, occorre chiedersi che cosa facciamo per difenderla e per promuoverla come il più grande dei doni. Questo vale a livello politico, a livello culturale e come Chiesa.
All’inizio è detto che i due, uomo e donna, sono «una carne sola» (Gn 2,24), perché l’amore decide di assumere la vita dell’altro come propria; l’amore non è solo perdersi nell’altro, ma ritrovarsi, ritrovarsi più ricco perché la vita dell’altro diventa la tua. Quando si parla di fedeltà a volte si avverte una connotazione un po’ negativa, quasi di rimprovero; invece la fedeltà è ricchezza, perché la tua vita si riempie sempre più del profumo dell’altro e dell’altra che vive con te.
Infine, la famiglia è una vocazione. «Il Signore disse ad Abramo: “Vattene dalla tua terra,
dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò”» (Gn 12,1). E Abramo partì. Quando vado ad incontrare i fidanzati nei corsi di preparazione al matrimonio mi viene sempre da pensare ad Abramo e vedo grande l’esperienza spirituale che stanno facendo quei fidanzati, anche se spesso sono già conviventi. È un inizio, è una partenza, è un rischio, come ogni vocazione… Ad esempio, che ne sapevo io il giorno che nella cattedrale mi sono disteso per terra davanti al vescovo per ricevere la consacrazione sacerdotale: avevo solo ventitré anni. Mi hanno fatto chiedere la dispensa per l’età (si può ricevere l’ordinazione sacerdotale solo al compimento del ventiquattresimo anno di età). Penso anche, soprattutto in questo momento, a Maria. Anche per lei il matrimonio è stata una vocazione. Quando dico “vocazione” sottolineo che è “iniziativa di Dio”. Può sembrare che i due sposi si siano scelti e che abbiano deciso loro di sposarsi; ma se scendiamo in profondità, capiamo che c’è un progetto meraviglioso che li ha fatti incontrare, che ha fatto sì che si piacessero, che diventassero una cosa sola, un progetto di Dio. Certo, c’è una partenza e un distacco, ma anche la promessa di una benedizione. E le promesse di Dio non sono come quelle del marinaio. Si compirà la promessa, la vocazione, con la forza che viene da Colui che chiama. L’audacia del “sì” non è temeraria. Il Signore chiama ad una missione, non a diventare “due cuori e una capanna”: la famiglia è una grande risorsa sociale ed ecclesiale.
Il Signore ha pensato alla famiglia non solo per prendersi cura l’uno dell’altro; anche la sessualità va ricondotta nell’alveo della crescita interpersonale e nella prospettiva della vita, della generazione. Questa missione è stata affidata dal Signore. Coraggio! Pensiamo a quanta stima, a quanta fiducia ha il Signore nel chiamarci ad essere nella famiglia suoi collaboratori per la vita, per la trasmissione della fede, per un amore sempre più grande. Così sia.