Omelia in occasione del funerale di mons. Pietro Corbellotti
Monte Grimano, 18 aprile 2018
2Cor 4, 14 – 5, 1
Sal 22
Gv 6,51-59
(da registrazione)
Il mio primo pensiero è rivolto ai miei fratelli sacerdoti: siamo una vera famiglia! La mancanza di don Pietro ci rende davvero più tristi.
Poi, il pensiero va ai familiari, ai parrocchiani di Monte Grimano Terme, di San Donato e di Montelicciano e a tutta la realtà dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero, al collaboratore e amico fraterno Giampiero Piscaglia e a tutti i collaboratori, i consiglieri e i consulenti.
Ho pensato di partire con la meditazione, prima di attardarmi sulle letture bibliche offerte dalla liturgia, delle seguenti parole del Vangelo di Marco: «Li chiamò per mandarli a predicare e perché stessero con lui» (Mc 3,13-14). È finita la lunga giornata di predicazione con parole e opere, la lunga giornata di don Pietro, una giornata spesa interamente per il Signore; ma adesso egli vive in pienezza la chiamata a stare con lui, una chiamata già iniziata, già in essere dal primo istante del suo cammino vocazionale, quando, da ragazzo, lasciò il territorio della Carpegna per entrare in Seminario. Ripensiamo così alla vita, alla morte e al sacerdozio di don Pietro; sacerdozio che il Signore pensa come svolto nello stare sempre con lui.
Quello di don Pietro è stato un sacerdozio a contatto con la gente, un servizio quotidiano, concreto, generoso, veramente umano e cristiano, verso tante persone. Oltre 54 anni proprio qui, a Monte Grimano, verso innumerevoli volti, tante famiglie, da fratello tra fratelli. Quanti incontri, quanti episodi, quanti ricordi potrebbero donarci anzitutto i parrocchiani di Monte Grimano; materiale prezioso, da non abbandonare all’oblio.
Un sacerdozio speso, per oltre trent’anni, a servizio di noi sacerdoti, ricoprendo l’incarico di presidente dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero, prima come fondatore e poi guida, insieme al collaboratore e amico Giampiero Piscaglia. Compito, quello nell’Istituto, che don Pietro iniziò e svolse con grande dedizione e amore. E la sua opera non può che continuare a dare frutti importanti.
Non un prete da scrivania (l’ho visto poche volte seduto alla scrivania), eppure ugualmente immancabile in ufficio, addetto ai doveri del suo incarico. Mattine spesso iniziate ai piedi della Madonna delle Grazie, nel vicino Santuario a Pennabilli. Oggi sono presenti qui molte persone di Pennabilli; ho ricevuto le condoglianze del Sindaco, Mauro Giannini, che mi pregava di estendere ai presenti.
Don Pietro arrivava a Pennabilli dopo una lunga traversata di questo Montefeltro incantevole, ma severo e aspro nei mesi invernali. Sempre presente. Uso questo aggettivo dopo aver chiesto a varie persone un attributo che qualificasse la personalità di don Pietro. Alla fine, ne ho scelto uno, quello che ho sentito più mio: quello di essere presente. Presente, sempre “sul pezzo” – come si suol dire – con autorevolezza e, quando necessario, anche con autorità. Situazioni concrete, a volte interlocutorie, soprattutto con i custodi e gli affittuari dei beni della Chiesa, beni custoditi con diligenza, appunto perché non propri, ma della comunità. Mai esoso, soprattutto con chi realmente era in difficoltà, ma esigente, questo sì. Presente alla vita diocesana, vicariale e di presidio; immancabile agli incontri di formazione e di discernimento comunitario. Presente con i suoi appelli ripetuti alla cura del bene più prezioso che abbiamo, i nostri preti giovani; con le visite ai sacerdoti anziani e anche col farne memoria al Vescovo («Eccellenza, non si dimentichi!»). Immancabili le soste nella Casa del Clero a Rimini, dove diversi dei nostri confratelli sono stati e sono ospiti. Si faceva presente sempre con un dono, con una parola di simpatia, di incoraggiamento, di affetto, al punto da stupirmi, le prime volte (il mio primo approccio con lui mi parve un incontro con una persona piuttosto burbera). In realtà ho potuto constatare il suo animo semplice, delicato, grande. Ha voluto bene ai suoi vescovi, senza adulazione. Per quanto mi riguarda, devo dire di averlo fatto un po’ soffrire, quando gli ho chiesto, dopo tanti anni di fedele servizio, di lasciare l’incarico all’Istituto. Ne ho patito anch’io, ma poi, sia lui che io, siamo stati contenti per le soluzioni adottate. Io in particolare mi sono sentito incoraggiato dalle sue parole pronunciate appena qualche ora prima della sua morte, che a me pareva del tutto remota, ma forse che lui presentiva come vicina, imminente. Mi accolse con parole molto lusinghiere che non oso dire in pubblico, ma molto dolci. Invece, ho il dovere di riferire il suo saluto: «Mi raccomando, mi saluti tutti i preti», cosa che faccio con tutto il cuore.
Le letture bibliche che abbiamo ascoltate ci fanno rivedere la vita di don Pietro come il miracolo della vita cristiana. San Paolo: «Piano piano il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ma quello interiore si rinnova di giorno in giorno… Quando verrà disfatto il nostro corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna» (2Cor 4,16.5,1). Ecco, noi abbiamo assistito, in parte, a questa vicenda, abbiamo visto in don Pietro l’estenuarsi delle forze, ma il crescere dello spirito nella comunione con Dio. Abbiamo constatato, come si constata per ogni uomo, la fragilità della nostra natura, dell’abitacolo della nostra anima, ma insieme, accanto, il progredire dell’uomo interiore.
E poi sentite Gesù: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,48-49.54-56). Questo ritorno della dimora, della casa, dell’abitazione mi ha fatto tanto pensare, tra le righe, anche alla sua ultima vicenda del restauro della palazzina Carboni a Pennabilli; un progetto che ha seguito, che ha amato profondamente e che ha consegnato, con un sorriso straordinario, il pomeriggio del 4 febbraio, quando insieme abbiamo tagliato il nastro e siamo entrati nella nuova sede dell’Istituto. Ma quello che promette Gesù a don Pietro e a tutti noi è molto di più, non si può neanche paragonare. Le parole di Gesù valgono per ogni credente, dal pane della Parola, portato dal Signore, al pane della vita, da lui lasciato nel Sacramento. Pane che è promessa di vita, attuazione di reciproca inabitazione, pegno di resurrezione. Parole che sono per ogni fedele, per tutti noi, ma soprattutto per ogni sacerdote, perché il prete è associato a Cristo, immedesimato con lui: agisce in persona Christi, ripete e prolunga Cristo, ripresentandone il prodigio stupendo. Egli, il sacerdote, per la vita del mondo sfama generazioni di uomini. La Chiesa, d’altronde, non ha altro pane per la fame delle anime. Artefice di questa moltiplicazione nel tempo e nello spazio dell’Eucaristia è ogni sacerdote, è stato don Pietro. Noi celebriamo sul suo altare, grandezza e potenza sovrumana di questo uomo, fragilità e debolezza da un lato, sublimità e poteri dall’altro. Il sacerdote, nel sacramento della Riconciliazione, perdona i peccati. Viene da ricordare quello che dicevano i contemporanei di Gesù: «Chi ha dato una tale autorità agli uomini e li ha resi degni di ricevere il sacramento del pane di vita per il tempo presente e per il futuro?». Debolezza umana e forza divina. Così il sacerdote, così don Pietro.