Omelia Festa del Beato Domenico Spadafora
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Montecerignone, 11 settembre 2016
Festa del beato Domenico Spadafora
Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32
Oggi il beato Domenico Spadafora ci riunisce per fare festa. Quale festa?
La festa per la sua memoria ancora viva dopo 500 anni (fatto ancor più sorprendente del suo corpo incorrotto). La festa per le grazie che la sua intercessione ci ottiene presso il Signore. Festa soprattutto per il messaggio che in questo anno giubilare della misericordia egli ci riconsegna. E’ un messaggio di conversione. Ci parla di braccia spalancate di un Dio che ci aspetta. E perché mai si sale al suo santuario se non per questo? So che qui viene celebrato con assiduità e frequenza il sacramento della riconciliazione. Qui si alternano gruppi di preghiera, una sorta di staffetta per l’intercessione. Si rinnovano propositi di vita cristiana. E si impara dall’esile frate domenicano la testimonianza: una testimonianza come la sua, trasparente (con la vita), contestuale (adeguata ai tempi), coraggiosa (con libertà e franchezza). Egli fu un missionario. Lasciò la carriera accademica e le cariche del suo ordine per venire nelle nostre valli per vivere il motto domenicano: Contemplata aliis tradere.
Bellissima la coincidenza che oggi ci fa incontrare il cuore del terzo Vangelo, il Vangelo di Luca. Siamo nel vangelo del Vangelo! Come i detti di Gesù che abbiamo letto la scorsa domenica, così radicali, avevano come sfondo un banchetto con gente per bene, le parabole della misericordia che ci accingiamo a meditare hanno come sfondo un banchetto con pubblicani e peccatori. Gesù questa volta ha cambiato campo: scribi e farisei sono presenti, ma a distanza, indignati per il comportamento del profeta di Nazaret. Le parabole sono tre. Le prime due sono parabole “gemelle” (si possono leggere in parallelo); protagonisti: un uomo -è un pastore- che ha perso una pecora e una donna -è una donna di casa, una massaia- che ha perso una moneta; la terza parabola racconta di un padre che perde un figlio (ma abbiamo già letto questa parabola nella Quaresima scorsa, pertanto non viene letta oggi). Tutte e tre hanno in comune alcune parole chiave: il perdere, il cercare, il gioire. Inoltre ci offrono l’immagine di Dio e il comportamento di Gesù: un tratteggio sorprendente, unico nella letteratura religiosa di tutti i tempi. Ma nelle parabole si riflette anche una preoccupazione pastorale: il problema dell’accoglienza di chi ha sbagliato. I tre racconti esprimono un pressante invito a cambiare mentalità ad entrare nelle vedute di Dio, a capire il suo agire, a condividere la sua gioia, condizione necessaria per entrare in comunione con lui ed avere il suo pensiero.
Salvare chi si perde.
Appare abbastanza illogico abbandonare un gregge intero per andare alla ricerca di una sola pecora che si è perduta! 99 contro 1, ma questo contrasto mette in risalto l’interesse del pastore per la singola pecora: il fatto che la pecora si trovi in difficoltà basta per mobilitare la sua attenzione e le sue energie su quella sola. Il Vangelo di Tommaso (n. 107), a sua volta, riporta una parabola della pecora perduta. Ma in questo apocrifo, la pecora perduta è la più grande, la più bella, la preferita del pastore che va alla sua ricerca. L’insegnamento di Gesù è completamente frainteso: se un pastore perde una pecora del gregge, certo farà l’impossibile per ritrovarla, non perché è la migliore, ma semplicemente perché gli appartiene. Così agisce Dio. Se per Dio il peccatore ha tanto valore, non è perché possiede delle qualità particolari, ma proprio perché ha bisogno di aiuto. Gesù incarna il comportamento di Dio che per primo va in cerca di ciò che è perduto, e che rende visibile sedendo a tavola con i peccatori e i pubblicani. Il rapporto fra le novantanove pecore e la sola che è scappata accentua ancor più il prezzo che Dio dà alla salvezza di ciascun essere umano. E noi? Abbiamo la stessa preferenza nel raggiungere chi si perde o resta indietro? Quali sono le nostre priorità pastorali? Siamo disposti come la donna della parabola che ha perso la moneta a spazzare via ogni pregiudizio dal nostro cuore e davanti alla porta delle nostre comunità perché non siano chiuse come dogane, come scrive papa Francesco (cfr EG 47)? Saremmo poi farisei a nostra volta se non ci facessimo consapevoli d’avere in noi zone smarrimento e buio, bisognose di ritrovamento e di luce.
Cercare chi si perde.
Osserviamo il pastore che cammina e fatica sulle tracce della pecora perduta: quanta strada, quanti sentieri, quanta salita, quante discese… Osserviamo la donna nella sua povera casetta palestinese (con una piccola finestrella insufficiente per vederci bene) che accende la lampada, spazza accuratamente su un pavimento sconnesso, probabilmente di pietra e di terra: quanta costanza, quanta caparbietà…
Cercano finché non trovano. L’uno e l’altra non si scoraggiano, non si danno per vinti. Così il Signore: non lascia nulla di intentato. Impariamo. Non dovremmo mai interrompere un dialogo, eliminare un ponte. Camminiamo sui passi di Gesù.
Gioire per chi è stato ritrovato.
Non è vero, come talvolta si dice a proposito della teologia dei fratelli di altre religioni, che comunque l’dea di Dio è la medesima in tutte. Il cristianesimo rivendica giustamente di custodire un’immagine di Dio del tutto originale. Certo Dio è l’unico Dio, ma Gesù ce ne dà una descrizione con dei contorni esatti, sorprendenti, unici. Gesù ci mostra il volto raggiante di Dio, raggiante di felicità per aver trovato e accolto chi era perduto, per radunare attorno a sé le creature nella sua casa. La parabola della pecora perduta è narrata anche dall’evangelista Matteo che insiste più sulla ricerca, Luca invece più sulla gioia del ritrovamento (è presente il tema del compimento del regno e del banchetto escatologico). E come interpretare “i giusti che non hanno bisogno di conversione”? Se pensiamo agli avversari di Gesù è evidente il tono ironico: e chi non ha bisogno di conversione? Se l’evangelista pensa veramente ai veri “giusti” di cui ha parlato all’inizio del suo vangelo, allora vuole sottolineare come la gioia di Dio per i peccatori che tornano è davvero una gioia speciale, quella delle grandi occasioni; gioia che non ha l’opportunità di prodursi a proposito dei giusti!
L’evangelista vuole smentire il volto di Dio che talvolta ci immaginiamo, volto di un giudice implacabile. “Gioite con me”, dice. Condividiamo la sua gioia e facciamo festa per ogni ritorno: il nostro e quello dei fratelli!