Omelia della XXXIII Domenica del Tempo ordinario
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Scavolino, 16 novembre 2014
Mt 25,14-30
Cari amici, ecco il motivo del nostro riunirci festoso in questa domenica d’autunno: dire grazie al Signore per i frutti della terra. E dire “grazie” anche a chi continua ad avere fiducia nella terra. Imparino i più giovani, e gli adulti raccontino la bellezza del vivere in sintonia con la natura. Il sudore della fronte e la fatica sono – secondo Genesi 2 – eredità del peccato, ma dopo la redenzione diventano una benedizione feconda. Così preghiamo ogni domenica: «Benedetto sei tu Signore, Dio dell’universo, dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo…».
Il Regno di Dio, che cominciamo a gustare qui e ora, non è solo splendore e tenerezza, ma anche responsabilità. Nel Regno di Dio si lavora!
Il lavoro rende, in qualche modo, simili a Dio che ha fatto il mondo e lo regge con la sua Provvidenza. Nella Genesi viene fotografato con le abili mani del vasaio: prende la creta dalla terra e con essa plasma l’uomo; è immaginato come levatrice che soffia nelle narici del neonato che così comincia a respirare, o come chirurgo che dal torace di Adamo espianta la costola da cui viene creata la donna. Dio è raffigurato anche come un sarto che prepara il vestito per Eva e Adamo. Metafore dell’amorevole “lavoro” divino, svolto in totale gratuità. Opposta alla laboriosità è l’accidia: il vizio (grave!) di chi non sa assumersi responsabilità. L’accidia ha due forme: quella della pigrizia (indolenza, svogliatezza, ozio, inerzia, inoperosità) e quella dell’attivismo (lavoro come stordimento e alibi per il disimpegno dai doveri principali o dalla cura dei rapporti). Propongo tre sottolineature. Tutti i lavori sono importanti e “sacri”, compresi quelli domestici, umili e nascosti, compreso il servizio gratuito al vicino di casa, in parrocchia, nel volontariato. Il lavoro è la via normale per il proprio sostentamento, per mettere insieme uno stipendio e per realizzarsi, ma, in fondo, si lavora sempre per gli altri. Mai dimenticarlo! C’è un lavoro fra tutti il più trascurato: è la cura dell’anima. Non bastano le promesse da marinaio; ci vuole la pratica della vigilanza, l’ascolto del cuore, la preghiera! La parabola dei talenti ci insegna che Dio ha stima di noi e conosce le nostre possibilità; non pretende che siamo perfetti, ma chiede di non sprecare la vita e di non sottrarci alle responsabilità, anche minime, ma sempre preziose ai suoi occhi. La mentalità corrente, al contrario, pretende molto, troppo, salvo poi creare ansie e alimentare pesanti frustrazioni (burn-out). Allargando la considerazione ai grandi temi dell’attualità, domandiamoci se non vi sia nell’ingiustificato rinvio del matrimonio (secondo i dati Istat, per la prima volta, l’ anno scorso, il numero dei matrimoni è sceso sotto quota 200mila; e sono 53mila le nozze in meno negli ultimi cinque anni), o nella paura a mettere al mondo figli, o nella latitanza nell’educazione (genitori sempre più assenti), anche una mancanza di fiducia e di confidenza in Dio. Il servo che sotterra il talento – per stare alla parabola – è un pauroso. Lascia a riposo la creazione, mentre gli è affidata per farne esplodere le potenzialità. Egli può guarire solo recuperando un rapporto di fiducia. Questo il messaggio che vogliamo raccogliere da questa giornata del ringraziamento.