Insediamento dei Capitani Reggenti
Basilica di San Marino,
1 Ottobre 2014
Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Signori Capitani Reggenti, Segretari di Stato, Mons. Nunzio apostolico e Signori Ambasciatori, dignitari, collaboratori, vorrei tutti abbracciare con l’unica e più bella qualifica di fratelli e sorelle.
Abbiamo preso posto in Basilica attorno all’altare, in sostanza attorno ad una tavola. E subito siamo investiti da una profezia, quasi l’overture di una sinfonia, “la sinfonia del nuovo mondo”; qui c’è un bozzetto dell’umanità futura secondo il disegno di Dio: la famiglia dei figli di Dio riunita.
Permettete una confidenza; sei mesi fa fu la mia prima volta a presiedere questa liturgia.
Avevo preparato un breve commento alle letture bibliche (rigorosamente pertinente al testo sacro), ma elaborato a tavolino. Non avevo messo in conto quello che avrei visto e chi avrei incontrato: in Basilica erano presenti cinquanta ambasciatori provenienti da altrettanti paesi, dall’Europa e dagli altri continenti. Non ero preparato ad un simile spettacolo. Ed ogni sei mesi questa liturgia si ripete con immutata solennità; un rito antico e sempre nuovo, austero e festoso allo stesso tempo.
In questa circostanza torna a risuonare un appello in favore della fratellanza universale, appello a costruire ponti fra i popoli, fra cuori e cuori.
Il cammino è arduo, realisticamente. Eppure succede – ecco! – culture, interessi, convinzioni, progetti si incontrano. Il destino – o meglio, la Provvidenza – vuole che sia questa antica e piccola repubblica ad essere ospite e attore dell’evento.
La comunità cristiana sammarinese-feretrana si sente assai in sintonia con tutto questo. Il Concilio Vaticano II le ha ricordato la sua vocazione ad essere segno e strumento (“sacramento”) di unità per il genere umano (degli uomini fra loro e degli uomini con Dio). La Chiesa è a servizio di questo sogno. Ammaestrata dal suo Signore non pensa a sé, ma pensa se stessa per il mondo, mandata a radunare i dispersi figli di Dio in unità (cfr. Gv 11, 52) e a far sì che nessuno di questi piccoli vada perduto (cfr. Mt 18, 14). La missione a cui è chiamata non è altro che un atto di amicizia (non proselitismo). Il mio augurio è che ognuno si senta a suo agio attorno a questo altare, convivialità delle differenze (secondo una formula suggestiva). Sì, l’altare è tavola ed è anche ara. Sedersi qui attorno comporta fare spazio, far accomodare l’altro, cedere il passo; non solo per buona educazione e cortesia, ma per ascesi, liberazione da se stessi, dai propri interessi. L’ara richiama il sacrificio, il dono di sé. Qui abbiamo la rappresentazione – mistero della fede – di quanto ha detto Gesù: non c’è amore più grande di chi dà la vita (cfr. Gv 15,13). Nel cuore di questa liturgia sentirete risuonare nel silenzio le parole di chi si è fatto radicalmente dono di sé: «Prendete e mangiate, questo è il mio corpo… Prendete e bevete, questo è il mio sangue versato per voi» – dice Gesù!
Penso che ogni persona impegnata nel proprio paese per la coesione e per il bene comune riconosca che il perno su cui tutto si regge è questa misura alta della moralità (etica) basata sull’amore: fare agli altri quello che vorremmo fosse fatto a noi. La “regola d’oro”.