Giornata sacerdotale al Pellegrinaggio dell’ Ustal – Unitalsi Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santuario della Santa Casa di Loreto, 24 luglio 2014
(da registrazione)
Davanti ai nostri occhi abbiamo la Santa Casa di Nazareth: mistero di prossimità e nascondimento che ha visto l’incarnazione del Figlio di Dio.
Nella sua vita terrena il Signore Gesù ha rinunciato a tutto, ma non ad avere una famiglia. In famiglia ha imparato ad amare e ad aver cura dei rapporti. Il Signore fa vedere che la nostra vita di tutti i giorni è vita di Dio, redenta, significativa. E’ una vita in cui anche un bicchier d’acqua offerto per amore non perde la sua ricompensa. Nella casa di Nazareth si vivono le virtù soprannaturali: la fede, la speranza, la carità. Si potrebbe vedere come ognuna di queste virtù viene interpretata da coloro che la abitano: Giuseppe, Maria e Gesù. Ma si praticano anche le virtù morali. Anche le virtù morali sono, in qualche modo, dono di Dio, perché, anche se prendono forma con l’esercizio del nostro impegno, si possono vivere meglio con l’aiuto della grazia. Allora, più tardi, quando potrete accarezzare le pareti della casa di Nazareth, vi propongo di lasciarvi andare alla contemplazione, ad immaginare come Maria si aggirava tra quelle pareti impegnata nei lavori di casa, come Giuseppe vi lavorava, con la presenza di Gesù in mezzo a loro.
Nella casa di Nazareth si vive la franchezza. Ricordate quando Giuseppe va sulle tracce del fanciullo Gesù, dodicenne, e gli dice: «Figlio, perché ci hai fatto questo?». Anche nella loro famiglia c’è il momento del rimprovero, il momento della verità. E Gesù replica al padre in modo sorprendente. In essa si vive la purezza, perché c’è il rispetto delle relazioni. Nella casa di Nazareth c’è anche l’obbedienza; Giuseppe è il capofamiglia, Maria è la sua sposa e Gesù, che è il figlio di Dio, è sottomesso a Giuseppe e a Maria. In realtà questa triade di persone si potrebbe capovolgere; in cima ci sarebbe Gesù e poi Giuseppe e Maria, ma Gesù accetta con amore e per amore questo capovolgimento. Un giorno i cristiani diranno: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina spogliò se stesso facendosi obbediente». Nella casa di Nazareth si vive la povertà, la povertà concreta e la povertà spirituale, quella dei poveri di Jahvè, di coloro che tutto si aspettano da Dio. Mi viene da pensare, cari amici sacerdoti, alle nostre canoniche. Sono luoghi aperti, accoglienti, luoghi nei quali c’è armonia? Noi ci siamo riuniti questa mattina nel segno della croce. Non potremmo parlare delle relazioni che si svolgono nella casa di Nazareth senza contemplare il mistero fondamentale della nostra fede, il mistero della Trinità, perché, in fondo, nella casa di Nazareth si vivono rapporti trinitari. Adoriamo un solo Dio in tre persone. Un dogma che ci assicura che Dio non è in se stesso solitudine, ma movimento d’amore verso il “tu”, circolarità d’amore in cui ognuna delle tre divine persone è per l’altra, vive l’essere per. Il dogma della Trinità sta a dirci che l’essenziale in Dio è comunione, è relazione. Da questo noi capiamo l’importanza e la bellezza delle relazioni. Gesù nella sua vita pubblica ci apparirà come un cultore delle relazioni, in particolare dell’amicizia. E questo è molto importante soprattutto per noi sacerdoti, perché con la scelta del celibato, non abbiamo rinunciato all’amore, alla casa. Gesù si prende tutto il tempo necessario per far visita agli amici, frequenta le loro case, si ferma a cena, stabilisce un rapporto personale, “a tu per tu”, da cuore a cuore; spesso porta fuori dalla confusione i suoi interlocutori proprio per poter stabilire un rapporto più profondo. Per Gesù nessuno è anonimo e senza volto. Un giorno Gesù laverà i piedi ai discepoli, a Giuda si rivolgerà chiamandolo amico, pregherà per chi lo uccide, piangerà per l’amico sepolto da giorni, gioirà per il nardo profumato dell’amica, si chinerà su chi soffre; Gesù non cercherà servitori, ma andrà in cerca di amici e durante l’ultima cena potrà dire «non vi chiamo più servi, ma amici». Nell’orto del Getsemani, in preda all’agonia, cercherà sostegno dagli amici, si farà mendicante di amicizia; non solo la offre, la domanda. Noi siamo nell’era delle comunicazioni, ma ci sono anche tante barriere nel nostro tempo: culturali, etniche, religiose, politiche; si vivono pregiudizi e chiusure, ma il nostro DNA rivela che siamo fatti per la relazione, per amare così come ama Dio. Amare tutti, senza alcuna aggettivazione, simpatici o antipatici, giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani. E’ sorprendente come Gesù dica, durante l’ultima cena, «come io ho amato voi – e noi ci aspetteremo grammaticalmente «voi amate me», e invece: «così amatevi gli uni gli altri». E’ da questo che sapranno che siete miei discepoli». Certo, l’amore esige un superamento di sé per fare spazio all’altro, proprio come accade nel rapporto tra le tre divine persone, dove una si perde nell’altra. Non sono tre dei, non sono tre essenze. Se noi chiedessimo al Padre “chi sei?”, lui direbbe “io non sono”. Se chiedessimo al Figlio, e poi allo Spirito Santo “e tu chi sei?”, direbbero “io non sono; mi ritrovo nell’altro”. Una sola essenza, una sola natura in tre persone. Occorre andare di fronte all’altro e fare silenzio, un silenzio profondo di ascolto per mettersi nei panni dell’altro. Il Signore ci chiede questa ascesi della relazione.
La chiave per vivere la comunione è la croce. Il Vangelo ci ha condotti nella via della croce. E’ “l’ora”. Questa dizione, “ora”, non ha niente a che fare con l’orologio, ma ha un significato altamente teologico. In quell’ora Gesù introduce ancora una volta la tensione alla relazione. Ai piedi della croce – il momento solenne della redenzione del mondo, il momento in cui nasce la Chiesa, in cui Gesù effonde il suo Spirito – egli stabilisce un campo di profonde, autentiche, umane relazioni. Gesù, nel momento in cui offre se stesso al Padre, guarda dalla croce e vede sua madre, tre discepole e il discepolo amato, Giovanni. Un campo di intense relazioni. Certo, non ci si può fermare al sentimento, men che meno al sentimentalismo, ma la vita spirituale è una vita vera, dove talvolta ti batte il cuore, ti scende una lacrima, dove senti il buio, la lontananza del Signore (che poi non è lontano, semmai instaura con te un gioco d’amore). La vita spirituale è intensa vita affettiva.
Ebbene, Gesù dalla croce guarda sua madre e gli dice «ti affido Giovanni, il discepolo più piccolo», e a Giovanni dice «ecco tua madre» e lui «la prende nella sua casa». Possiamo sentire rivolte a noi quelle parole. Allora prendiamo Maria nella nostra casa, perché abbiamo tutti bisogno di una madre che si prenda cura di noi e lei ha bisogno di noi. Noi sacerdoti abbiamo bisogno ancor di più di imparare da lei, perché, anche se non fu “sacerdote”, ella compì un gesto sacerdotale: mise al mondo Gesù. Tra poco, noi insieme, metteremo al mondo Gesù nell’Eucaristia.
Maria, vieni nella nostra casa!