Prima tappa di avvicinamento a Lisbona

28 luglio 2023

Da un mare all’altro. Dall’Adriatico luccicante di primo mattino, visto dalle terrazze di Borgo Maggiore (RSM), al Mediterraneo che si increspa dolcemente sulla Costa Azzurra nel pomeriggio. È il percorso dei 60 giovani verso Lisbona per la GMG (sul pullman 63 posti). Buona parte dei ragazzi si conoscono già, più difficile per me agganciare, fare conoscenze, imparare nomi. Mi rendo conto dell’abisso fra i miei 75 anni e i loro vent’anni (verrà colmato in qualche modo?). Colgo tanta disponibilità: mi sembra sincera e, in questo, vedo già una prima concretizzazione della parola che costituisce il motivo-guida di questa esperienza: “Maria si alzò e andò in fretta”. Contesto: la fanciulla di Nazaret, dopo l’annuncio del Verbo che si fa uomo nel suo grembo verginale, si mette prontamente in cammino verso la casa di Elisabetta, incinta alla sua età avanzata. Una giovane donna verso una donna matura…
Ai ragazzi è stato raccomandato di far caso a quel complemento di moto a luogo. “Andare verso”: possibilità con infinite sfumature, applicazioni, aperture. Si comincia a vivere con questo stile. L’ho visto nelle cortesie, nell’intreccio delle voci nel canto, nel carico/scarico di zaini enormi…
Stiamo in pullman per una decina di ore (con necessaria apertura di qualche “corridoio umanitario”). La vita nello spazio disponibile è come un piccolo mondo: ci sono cose da raccontare, canzoni da riascoltare, panorami e città da guardare…  La curiosità aumenta varcato il confine Italia-Francia.
C’è il tempo per una preghiera, un Rosario aperto sulla mondialità: “Un Rosario verso”. Ogni decina di Avemarie viene dedicata ad un continente: all’Europa in assetto di guerra, all’Africa così ricca e così depredata, all’Asia misteriosa e alla ribalta, all’America con le sue contraddizioni, all’Oceania, il continente nuovissimo.
Una delle caratteristiche principali della GMG è l’internazionalità. Domenica 6 agosto sono attesi un milione di giovani da tutti i paesi del mondo.

Arriviamo alle 19 a St. Maximin (Saint-Maximin-la-Sainte-Baume), tutto sommato in gran forma. Ci sgranchiamo gambe e spalle raggiungendo la parrocchia cattolica di St. Madeleine. Un gruppo di famiglie, insieme al parroco, ci accoglie festosamente e… subito a tavola: un buffet ricco di verdure fresche, couscous e, inattesi, dieci cabaret di ravioli. Capito a tavola con otto splendide ragazze, vivaci e per niente stanche, nonostante le ore di viaggio.

C’è una sorpresa: un dopo cena culturale. Ci viene accordato il privilegio della visita notturna alla Basilica dedicata a Santa Maria Maddalena, un grandioso tempio in gotico-francese mozzafiato. Nella cripta possiamo fare una preghiera davanti alla reliquia della Santa, una discepola amata da Gesù e divenuta, come ci ricorda il monsignore che ci fa da guida, “Apostola degli apostoli”. Ci interessa relativamente il fondamento storico della tradizione che tramanda i trent’anni penitenti di Maria Maddalena qui in Provenza, nel villaggio della Baume.
Interessante il tentativo di distinguere nei Vangeli le “Marie” che via via compaiono sulla strada di Gesù. «È sempre Maria di Magdala?», ci chiede il Monsignore. Un restauro difficile da fare, ma ci basta vedere nelle tre “Marie” l’itinerario di ogni discepolo: Maria che piange i suoi peccati bagnando i piedi di Gesù con le lacrime e asciugandole con i capelli (conversione); Maria che accoglie Gesù nella sua casa e si mette a servirlo con prodigalità; Maria che lo riconosce risorto e che fa per abbracciarlo mentre viene mandata a portarne l’annuncio.
Scende la notte su questa prima tappa di avvicinamento a Lisbona. Siamo ospiti nelle aule della parrocchia: non ci resta che ringraziare e… dormire.

+ Andrea Turazzi

@pgsanmarinomontefeltro

#smgmg23

In partenza per la GMG

Nell’imminenza della Giornata Mondiale della Gioventù il Vescovo scrive un messaggio di saluto ai 57 giovani in partenza, mentre chiede a tutti un ricordo speciale nella preghiera.
Speriamo sia un travaso di entusiasmo per tutta la nostra Diocesi!

Omelia nella XVI domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città (RSM), chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone, 23 luglio 2023

Sap 12,13.16-19
Sal 85
Rm 8,26-27
Mt 13,24-43

In mezzo al grano cresce e matura la zizzania… chi l’ha seminata? Dietro un semplice racconto che parla di campi e di sementi è nascosto il segreto del nostro mondo e del Regno di Dio.
Quella del grano e della zizzania è la parabola che più di tutte apre il cuore alla prospettiva futura, alla vittoria finale del bene sul male, anche se il male è tanto avvolgente. Nessun campo è al riparo dalla zizzania. È ingenuo voler tracciare una linea di demarcazione: fuori i cattivi/dentro i buoni, oppure immaginare che saremo liberi, dentro di noi, dalla cattiveria, che non avremo fallimenti, che non incontreremo motivi di dolerci… Ci sono bellezza e sporcizia, amore e odio…
Può darsi che Gesù abbia tratto ispirazione per comporre questa parabola da un banale episodio di gelosia fra contadini o forse, più verosimilmente, dalla insoddisfazione di qualcuno dei suoi discepoli. Chi di noi è esente da amarezze? E forse c’è anche il tocco dell’evangelista Matteo, che vuole prevenire i delusi che, non vedendo sfolgoranti trionfi del Regno di Dio, ma solo i suoi umili inizi, le sue modeste performance, la sua scarsa incidenza, sono tentati di gridare al fallimento.
Punto focale della parabola è il contrasto tra il modo di reagire dei servi e quello del buon coltivatore. I servi propongono una soluzione radicale: cavar via subito la zizzania. Il padrone lascia, invece, che il bene e il male crescano insieme. Solo alla fine trionferà il bene, ma dovrà farsi strada nella libertà. L’impazienza messianica dei giusti pretende che subito, già ora, il Regno di Dio nella sua fase terrena coincida con una comunità di perfetti, separata dai peccatori, ben arroccata nella “cittadella dei buoni”.
Succede anche a noi con noi stessi di essere impazienti, intolleranti. Gesù, ai servi che vogliono estirpare la zizzania, risponde: «No, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano». Ci deve essere, dunque, rassegnazione al dilagare del male? No, il male è male, il bene è bene. Ma non ci devono essere intolleranze. Con questo non si tratta di negare la zizzania, ma ricordare che Dio vuole debellare la malattia e salvare il malato. Il Signore sradicherà la zizzania, ma solo alla fine – dice la parabola –, dopo averle provate tutte per redimerla. Il Padre vuole salvare tutti i suoi figli e ognuno, se si lascia toccare dalla sua Parola, può entrare fra quei giusti che «splenderanno come il sole nel Regno». Dunque, con una buona coltivazione la zizzania può diventare buon grano. È stato così per Zaccheo, per la Maddalena, per la Samaritana, per san Paolo, perfino per il ladrone crocifisso accanto a Gesù… Perché non potrebbe essere così anche per la nostra comunità e per ciascuno di noi?
Se la parabola evangelica insiste tanto sulla pazienza, noi possiamo applicare questo atteggiamento all’incontro fra le generazioni, un suggerimento fondamentale per questa Giornata dei nonni e degli anziani. Per i giovani in partenza per la GMG e per i nonni identico il messaggio: «Per meglio accogliere lo stile dell’agire di Dio ricordiamo che il tempo va abitato nella sua pienezza, perché le realtà più grandi e i sogni più belli non si realizzano in un attimo – c’è la logica del buon grano e della zizzania – ma attraverso una crescita e una maturazione. Il progetto di Dio attraverso il passato, il presente e il futuro, abbraccia, mette in collegamento, le generazioni» (Messaggio di Papa Francesco per la III Giornata Mondiale dei nonni e degli anziani). Il tema che il Papa ha assegnato a questa Giornata è un versetto del Magnificat (il canto di Maria nel momento dell’incontro fra lei, la giovane fanciulla di Nazaret, ed Elisabetta, la cugina ormai anziana, in gravidanza ai tempi supplementari): “Di generazione in generazione la sua misericordia”. E’ la stessa icona che papa Francesco mette davanti ai giovani.

Ripercorro un testo del cardinale Martini, arcivescovo di Milano e grande studioso della Bibbia, che riferisce e commenta un proverbio indiano che parla di quattro stadi nella vita dell’uomo. Il primo stadio è quello nel quale si impara; nel secondo si insegna e ci si mette a servizio degli altri, mettendo a disposizione ciò che si è imparato; nel terzo si va nel bosco: è lo stadio del silenzio, della riflessione, del ripensamento. «Credo che quando si aprirà per me il terzo stadio – scrive il Cardinale – ritirandomi nel bosco potrò ripensare e riordinare con gratitudine tutte le cose che ho ricevuto, le persone che ho incontrato, gli stimoli che mi sono stati dati e che non hanno avuto l’opportunità di essere elaborati». Il quarto stadio è molto significativo per la mistica e per l’ascesi indù, ma anche per noi: in esso si impara a mendicare. È il tempo in cui si impara la mendicità: è lo stadio del dipendere dagli altri. Saper essere mendicanti, accettare di aver bisogno degli altri è la povertà radicale ed è il sommo della vita ascetica. «È lo stadio del dipendere da altri, quello che non vorremmo mai, ma che viene, al quale dobbiamo prepararci» (C.M. Martini, Discorso alla Fondazione Ambrosianum, 17 maggio 2002).
Concludo invitando tutti a pregare per noi anziani, per tutti i nonni, mentre assicuriamo la preghiera per i ragazzi e per i giovani: ci incontreremo in questo abbraccio ideale tra Maria ed Elisabetta, un abbraccio che può diventare concreto in questi giorni, incontrandoci e donando ognuno il meglio, da una generazione all’altra.

Discorso nel conferimento della cura pastorale delle parrocchie di Mercatino Conca e di Monte Cerignone a don Sante Celli

Mercatino Conca (PU), 22 luglio 2023

XVI domenica del Tempo Ordinario

Sap 12,13.16-19
Sal 85
Rm 8,26-27
Mt 13,24-43

La parabola racconta di un uomo che ha seminato del grano buono nel suo campo. Il Seminatore sei tu, Signore. Il campo è il mondo. Tuo campo sono gli uomini. Tuo campo è il nostro cuore. Tu non sei soltanto il Seminatore, ti sei fatto coltivatore. Questo è per noi motivo di fiducia. Tu sei il Signore di questo mondo e dei nostri cuori.
Diventando uomo in mezzo a noi, sei venuto come coltivatore del tuo campo per portarlo a produrre frutti buoni. E tu, Signore, ci vuoi associare al tuo lavoro, vuoi fare di noi tuoi collaboratori. Allora, l’importante per compiere bene l’opera che ci affidi è avere fiducia in te, totalmente. Tu conosci meglio di noi il campo, conosci l’opera da compiere e conosci noi, tuoi collaboratori.
C’è zizzania nel campo, Signore. Tu sei un coltivatore realista, concreto, tu sai che nella creazione non c’è un terreno perfetto. Solo Dio è perfetto. Tu, Signore, non ti stupisci di scoprire che c’è zizzania. Ci inviti a condividere la tua pazienza, ad accettare la zizzania che vediamo negli altri, che forse è la più sopportabile, ma anche la zizzania che è in noi e che ci è insopportabile: sono i nostri limiti, i nostri sbagli, le nostre miserie. Ci fai entrare nell’amore di un Padre che è paziente e vuole che tutti arrivino alla conversione. Con una buona “agricoltura” la zizzania può diventare buon grano. È stato così per Zaccheo, per Maria di Magdala, che oggi festeggiamo, per la Samaritana, che aveva cinque mariti ed è diventata apostola del Vangelo, per il buon ladrone, per san Paolo… perché non potrebbe essere così anche per noi?
Ti preghiamo, Signore, per don Sante, che inizia oggi il suo ministero in Val Conca, a Mercatino Conca e a Monte Cerignone. Tu che lo hai scelto e voluto come tuo collaboratore e sacerdote nel campo della Chiesa e nella “squadra presbiterale” di questa cara Diocesi, dagli forza, coraggio, fiducia.
Ti preghiamo per don Marino e don Erminio; con il loro passaggio ci hanno fatto capire che solo tu sei il Buon Pastore; noi sacerdoti ti abbiamo dato il nostro cuore, la nostra intelligenza, le nostre mani e i nostri piedi per essere al tuo servizio, ma sei tu il Buon Pastore.
Benedici le comunità da cui don Sante proviene, comunità alle quali il Signore ha già provveduto ad inviare un nuovo pastore e alle quali tu, Signore, farai sentire la tua tenerezza.
Ti preghiamo, Signore, per le comunità cristiane della Val Conca, che si avviano – sono pioniere in questo – a costituire una vera unità pastorale.
Rendici docili, fa comprendere a tutti noi sacerdoti, religiosi, laici, le nuove sfide davanti alle quali tu, Signore, poni la tua Chiesa.
Il campo è il tuo campo, tu vegli su di lui. Il seme è il tuo seme e questo per noi è motivo di fiducia. E noi? Noi siamo tuoi e questo ci basta. Così sia.

Esercizi spirituali ignaziani

Il Vescovo desidera informare che la Diocesi organizza anche quest’anno un corso di Esercizi Spirituali “ignaziani” di cui tutti possono avvalersi, dal 24 al 27 agosto presso il Seminario di Pennabilli (pernottamento presso l’albergo “Il parco”).

Il corso sarà guidato da padre Davide Saporiti, educatore dei novizi della Compagnia di Gesù (Gesuiti).

Le iscrizioni si ricevono presso la Curia vescovile entro il 15 agosto (cell. 335.6540190; e-mail: loris.tonini@diocesi-sanmarino-montefeltro.it).

La quota è di € 60 al giorno comprensiva di vitto e alloggio in camera singola (€ 55 in camera doppia). La partecipazione deve essere continuativa per tutta la durata del corso.

Omelia nella XV domenica del Tempo Ordinario

Basilica di Santa Maria di Piè di Chienti (MC), 16 luglio 2023

Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-9

Il diacono ha letto la forma breve della lettura liturgica del Vangelo di oggi: non per brevità, ma per concentrarci nella prima parte del testo, dove il protagonista è il Seminatore, Gesù (nella seconda parte – spiegazione della parabola – è il seme).
Permettetemi due premesse. Se fossimo dei contemporanei di Gesù rimarremo colpiti dal verbo “uscire”. Per gli ebrei il verbo “uscire” aggregava tanti riferimenti e pensieri: principalmente il pensiero dell’esodo, l’uscita dalla schiavitù verso la libertà, verso la terra promessa. Se sfogliamo il libro della Sapienza, troviamo l’allusione all’uscita del Verbo di Dio che diventa creazione. Gesù – ci fa capire l’evangelista Matteo – è tutt’altro che un “casalingo” (anche se è stato trent’anni a Nazaret per vivere le nostre giornate). Ci viene “raccontato” come colui che “esce” e “incontra”. Prima ancora sappiamo che Gesù è uscito dal seno del Padre e si è incarnato: questa è la sua “grande giornata”. Gesù –racconta l’evangelista – “quel giorno” esce di casa, si dirige verso il lago e comincia a seminare: è il ritratto di Gesù, il Seminatore.
Seconda premessa: Gesù è andato sulla barca. La barca dà l’idea dell’insicurezza; sulla barca si traballa, ci si affida, in fondo, ad un guscio di noce che galleggia. Gesù sale sulla barca, accetta la sfida di questo tipo di “uscita”. La gente, invece, sta sulla terraferma, con i piedi ben piantati, alla ricerca di sicurezza. Gesù questa mattina dice: «Fidati di me». Ognuno di noi ha nel cuore qualche decisione da prendere, qualche discorso avviato con se stesso e da concludere. Il Vangelo ci sta dicendo: «Non avere paura, non restare a tutti i costi sulla terraferma, fidati di Gesù, non ti lascerà andare a picco. Ascoltalo e seguilo».

Quella mattina, sulle rive del lago di Galilea, c’è tanta gente attorno a Gesù. Molti sono lì per curiosità, alcuni lo ascoltano distrattamente, qualcuno non si lascia toccare dal suo insegnamento; c’è anche chi pensa: voglio vedere se dice cose giuste oppure se c’è un appiglio per contestarlo. C’è anche il volto raggiante dei Dodici apostoli che hanno lasciato tutto per lui, hanno lasciato la terraferma e le sue sicurezze, per stare con il Maestro.
La parabola che Gesù racconterà tiene conto della varietà dei suoi ascoltatori. Gesù parla di molte cose in parabole; gli apostoli ne sono stupiti e chiedono spiegazione. Gesù risponde che, quando ha parlato senza veli, tante persone sono rimaste sulla difensiva: «Pur udendo non odono e non comprendono…». Allora prova con le parabole: chissà che non comincino a riflettere, ad interrogarsi, attirati dal racconto. Le parabole sono una forma di comunicazione volta a scalfire i cuori, a creare stupore e domande in chi ascolta. Quelle che racconta Gesù sono parabole a volte paradossali. Mio padre, ad esempio, quando tornava dalla Messa domenicale, dopo aver ascoltato il commento del parroco, talvolta non era d’accordo con Gesù, soprattutto con la parabola degli operai dell’ultima ora pagati come quelli della prima, oppure con quella del figliuol prodigo… Era bello che mio papà uscisse di chiesa con delle domande, con del disappunto: la parabola aveva funzionato, perché aveva creato – come si dice in linguaggio calcistico – un tackle, un contrasto. La parabola deve interrogare, smuovere, far prendere posizione: è performativa.
Gesù, nel tentativo di aprire i cuori ai misteri del Regno, usa appunto il metodo parabolico. La prima parabola che racconta – ne leggeremo sette nel mese di luglio – viene detta “la parabola del seminatore”. È un autoritratto: è Lui che semina la Parola con generosità, senza risparmio né calcolo, pur vedendo che gran parte del seme va perso sulla strada, sul terreno sassoso, sui rovi, ma anche sulla terra buona. Io, ciascuno di noi, siamo contemporaneamente strada, terreno sassoso, ciglio del campo su cui crescono i rovi e terra buona… Anche la Chiesa di oggi è terra buona, terreno sassoso, campo con le spine, strada, ma Gesù le affida il seme della sua Parola. Così è questo nostro tempo… Ma il Seminatore c’è ancora. Consideriamo i fiumi di Eucaristia che scorrono ad irrorare questo nostro tempo. Così ci fa pregare un Salmo: «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio» (Sal 46,5). L’Eucaristia è la grande risorsa della Chiesa. Attraverso l’Eucaristia – tema per il nostro cammino – il Signore continua a seminare del “buon grano”, con abbondanza e prodigalità. Anche se il mondo non se ne accorge… Se la Chiesa si propone di mettere l’Eucaristia al centro e sta in adorazione del suo Signore, offre la testimonianza più necessaria, più utile e più bella. Si potrebbe pensare anche a quanta seminagione vada perduta… La seminagione piena di frutti deve passare anche attraverso il mistero del rifiuto, il mistero che è dentro di me, nella Chiesa e nel nostro tempo. «Signore, rendi solidi la nostra fede e l’amore dei nostri cuori così instabili e fragili. Trasforma in cuori di carne i nostri cuori di pietra» (Ez 11,19). «Signore, aiutaci a cogliere i semi del Verbo – come dicevano gli antichi Padri – che sono sparsi dappertutto. Rendici consapevoli di quanto il mondo sia gravido della tua seminagione». Le filosofie e le religioni contengono i semi del Verbo. Ci fu una stagione meravigliosa nella storia della Chiesa in cui la comunità cristiana sentiva la missione di far sbocciare questi semi, cioè l’urgenza ad inculturare il Vangelo.
Grazie Gesù! Entriamo nella settimana con la certezza che tu sei Seminatore infallibile. Anche noi dobbiamo seminare: guai avvilirsi! Così devono sentire i genitori, gli insegnanti, le forze dell’ordine: continuare a seminare per il meglio di tutti noi. Così sia.

Omelia nella XIV domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Cappella del Vescovado, 9 luglio 2023

Zc 9,9-10
Sal 144
Rm 8,9.11-13
Mt 11,25-30

Questa pagina evangelica è chiamata “la perla del Vangelo di Matteo”. È un inno di gioia ed una grande preghiera di Gesù. Per comprenderla bene occorre collocarla nel contesto. Gesù si trova in un momento critico: le città del lago dove ha svolto la sua attività apostolica cominciano a prendere le distanze; i sapienti, l’intellighenzia, coloro che presumono di avere la conoscenza di Dio e delle Scritture sono in difficoltà con Gesù e Lui è in difficoltà con loro. Gli scribi e i farisei hanno la pretesa della conoscenza, ma non entrano in sintonia con Gesù; invece, con meraviglia, si trovano in sintonia con Gesù i piccoli, i semplici, gli umili. Cosa significa essere piccoli, semplici, umili? Gesù ha presente – anche se l’evangelista Matteo non lo dice esplicitamente (Matteo legge e racconta la vicenda di Gesù avendo l’Antico Testamento come background) – i testi dell’apocalittica e i testi sapienziali. Per quanto riguarda l’apocalittica, Gesù ha presente il libro di Daniele; Daniele è un piccolo che, insieme ai suoi compagni di cattività al tempo di Nabucodonosor, custodisce l’Alleanza. Nabucodonosor fa un sogno misterioso; convoca a corte i sapienti, ma non riescono ad interpretare e a decifrare il sogno. Sarà il piccolo Daniele a svelare a Nabucodonosor il suo significato. Ed è in quel momento che il profeta esplode in un inno di giubilo: non è la sua scienza personale che gli ha consentito l’interpretazione, ma quel sogno è stato rivelato in lui dalla sapienza di Dio (cfr. Dn 2,1-23): «Sia benedetto il nome di Dio di secolo in secolo, perché a lui appartengono la sapienza e la potenza».
Una cosa analoga accade a Ben Sira, autore del libro del Siracide, un libro sapienziale importante nella Bibbia, che parimenti si conclude con un inno di giubilo: «Il Signore mi ha dato in ricompensa una lingua con cui lo loderò. Avvicinatevi voi che siete senza istruzione, prendete dimora nella mia scuola. Ho aperto la bocca e ho parlato: “Acquistate la sapienza senza danaro. Sottoponete il collo al suo giogo, accoglietene l’istruzione. Essa è vicina e si può trovare. Si diletti l’anima vostra della misericordia del Signore; non vogliate vergognarvi di lodarlo» (Sir 51,22-30). Parole analoghe a quelle pronunciate dal profeta Daniele e riecheggianti nell’inno di giubilo pregato da Gesù.
Gesù entra in questa dimensione; allora comprendiamo il suo prorompere nella gioia: Gesù è felice perché il Padre gli ha rivelato i segreti del Regno; vede che attorno a lui ci sono tanti posti vuoti; gli han girato le spalle i presuntuosi, i sapientoni, quelli che pensano di sapere tutto. Quei posti vuoti adesso sono occupati dai piccoli che accorrono a lui.
Chi sono i piccoli? Che cos’è il giogo di cui stiamo parlando?
I piccoli non sono di per sé le persone semplici e popolane e non sono neppure i poveri in senso sociologico, ma sono coloro che davanti al Signore Dio hanno un cuore umile, aperto e disponibile. Sono i piccoli di cui Gesù ha parlato nelle beatitudini: «Beati i poveri in spirito, beati i miti, beati i puri di cuore…» (Mt 5,3). Il prototipo dei piccoli è Gesù, il piccolo per antonomasia, piccolo perché ha un cuore aperto, spalancato, alla conoscenza del Padre. Al tempo di Gesù c’era una corrente spirituale che veniva chiamata degli “anawim”, i “poveri di Jahvè”. A questo gruppo appartengono Zaccaria, Elisabetta, Anna, Giuseppe… e soprattutto Maria di Nazaret. Sono coloro che si aspettano tutto dal Signore e confidano in Lui.
Il giogo è uno strumento che viene usato anche nelle nostre campagne, dove i buoi si inerpicano sulle colline con l’aratro (ormai è raro vederli perché sono sostituiti dai trattori).
Quella del giogo è una metafora ambivalente. Per giogo si intende qualcosa di opprimente, che imprigiona le spalle e il collo e costringe alla fatica. Gesù l’adopera in questo senso negativo per riferirsi al legalismo dei sapienti del suo tempo, che imponevano leggi e precetti, che percorrevano la terra per fare proseliti e mettevano addosso ai fedeli pesi che loro non erano capaci di portare (cfr. Mt 23,15). Ma c’è anche un altro significato: il giogo come ciò che stanca. Stanca vivere con l’ansia di produrre performance spirituali; ti stanchi quando ti senti in gara, quando davanti a Dio rincorri la sua riconoscenza, quando ti confronti con gli altri e vuoi essere migliore, quando vorresti che la tua vita fosse più significativa della vita di un altro e, se vedi qualcuno realizzato, ti spunta nel cuore l’erba amara dell’invidia e della gelosia. Comprendiamo allora quando Gesù dice: «Prendete il mio giogo, il mio giogo è leggero… Mettetevi come me in relazione col Padre, diventate piccoli, non preoccupatevi delle vostre prestazioni, preoccupatevi invece che il vostro cuore sia aperto, umile, semplice, perché Dio non fa il computo ragionieristico degli atti obbedienti, vuole un cuore obbediente». Questo è riposante, questo è entrare nella mentalità di Gesù.

Riassumo il significato di questa pagina evangelica attorno a tre parole: gioia, rivelazione, riposo.
Gioia. Nei Vangeli non troviamo un Gesù che ride… però Gesù è gioioso. Oltre all’esplosione di gioia testimoniata in questa pagina di Vangelo: «Ti lodo, Padre, perché hai nascosto queste cose ai presuntuosi e le hai rivelate ai piccoli», incontriamo la gioia di Gesù quando partecipa al banchetto degli sposi di Cana, quando abbraccia i bambini, quando, nella casa di Simone il lebbroso, si fa profumare i piedi dalla donna peccatrice… È una gioia che viene da dentro e che viene dallo Spirito. In questo l’evangelista Luca è molto esplicito: è proprio nello Spirito che Gesù esulta ed è pieno di gioia. Come la preghiera di Gesù, la nostra preghiera dovrebbe aprirsi sempre con un inno di giubilo, perché ci è stato rivelato chi è Dio e chi siamo noi in relazione con lui. Lui è Padre e noi siamo figli. Si è detto più volte che la vocazione più grande – non si può pensarne un’altra maggiore – è la vocazione ad essere figli: ecco il motivo della gioia. Sapere che nulla accade – anche le cose che non ci piacciono, che ci fanno soffrire, che non sono giuste – senza il Padre: non sei solo, non sei abbandonato.
Rivelazione. Se io sono figlio e lui è il mio papà siamo nella luce; a volte il Signore permette anche il buio, per ingaggiare un gioco d’amore nel quale si nasconde per farsi cercare e darci di lui qualcosa di nuovo e di ancora più bello.
Riposo. Quando vivi la fede ed esprimi la religiosità in questo modo, non c’è niente di tetro, di chiuso, di inibente; il cuore si allarga e può riposare: «Solo in Dio riposa l’anima mia» (cfr. Sal 62,2).
Auguro a tutti, in questo periodo estivo, di vivere il riposo nel Signore.

Omelia nella XIII domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (RN), Monastero della Rupe, 2 luglio 2023

Celebrazione conclusiva della Summer school “Lab.Ora. Lavorare e Lavorarsi”

2Re 4,8-11.14-16
Sal 88
Rm 6,3-4.8-11
Mt 10,37-42

«Un giorno Eliseo passava per Sunem, ove c’era un’illustre donna che lo trattenne a mangiare». Anche noi siamo degli “intrattenuti”. Non solo perché le sorelle agostiniane ci hanno invitato a vivere questi giorni con loro, ma perché Gesù «ha preparato per noi una mensa di fronte ai nostri nemici» (cfr. Sal 22). È talmente grande il suo dono che dobbiamo rallegrarci e soprattutto ringraziare. Siamo degli “intrattenuti” a mangiare con il Signore! Rendiamo grazie per tutto quello che lui opera in noi. Circa tre settimane fa – lo dico per chi non appartiene a questa Diocesi – abbiamo fatto un grande convegno diocesano dove era bandito il “parlare di noi”: si poteva parlare di noi, delle nostre comunità, soltanto per raccontare quello che il Signore era andato facendo in ciascuno di noi e nelle comunità. Il Signore è un grande “operaio” e fa con la “materia” che ha, che siamo noi. Tuttavia, può fare dei capolavori: vedo della santità attorno a me!
Sono andato in una parrocchia in un pomeriggio molto caldo: in chiesa ho trovato un parroco giovane, che ha studiato a Roma, mentre pregava il Rosario con sei-sette persone. Mi ha commosso. Quel sacerdote giovane, che lavora molto, ha saputo sostare in preghiera con quelle persone. Aveva “scelto la parte migliore”, che non lo sottraeva, successivamente, agli altri impegni. Lavoro sì, ma senza esserne fagocitati. Lavoro e libertà.
Il brano evangelico proclamato oggi è durissimo. La redazione di Luca è ancora più forte. Ricordo che, a Ferrara, era venuto Rinaldo Fabris, un grande biblista morto alcuni anni fa. Era un sacerdote piccolo di statura, ma incantava quando faceva qualche lezione. Una volta aveva approfondito una pagina analoga, ma nella redazione dell’evangelista Luca. Ad un certo punto si alzò un professore universitario e disse: «Don Rinaldo, che genere letterario è questo?». Rinaldo Fabris si alzò in piedi – si fece un grande silenzio – e disse semplicemente: «Gesù ha parlato proprio così». Perché queste espressioni così dure? Penso a tanti fratelli sacerdoti che, questa mattina, nelle chiese cercheranno di dimostrare che Gesù non è contro gli affetti familiari, contro le relazioni, contro le esperienze che catturano la nostra vita, come il lavoro. Il lavoro ti prende, soprattutto se è un lavoro che ti piace, nel quale esprimi la tua creatività e se ti stanno a cuore le persone per cui lavori, che rendono bello e atteso il lavoro stesso. Il rapporto con Gesù si colloca all’interno di relazioni di questo tipo: Gesù parla volentieri del rapporto tra padre, madre, figlio, figlia, sposo, sposa, fratello, sorella… per dire che la relazione con lui non è una teoria o una cerimonia, ma una relazione vera. È chiaro che è un modo iperbolico di esprimersi: Gesù non chiede di amare “di meno”, ma “di più”. Ad esempio, nell’architettura della vita succede che una ragazza, che ama alla follia la propria famiglia, incontra un ragazzo che gli rapisce il cuore. Non è che non ama più la sua mamma o il suo papà, ma accade, in quella ragazza, qualcosa di diverso. Gesù approva l’amore per il fratello, la sorella, la mamma, i figli, un amore che induce a dare la vita: non chiede una sottrazione… Faccio un altro esempio: quando mio fratello Silvio, paraplegico, partiva per la missione in Congo era un momento straziante per la nostra famiglia. Noi eravamo “pieni” della relazione con Silvio; persino il postino era coinvolto: quando arrivava la lettera di Silvio dall’Africa, il postino veniva immediatamente a casa nostra. Ebbene, nell’architettura del Regno di Dio Gesù ha questa pretesa: vuole una relazione d’amore che comprende e allarga l’orizzonte all’infinito. Rinaldo Fabris direbbe: «Ha detto proprio così».

Poi Gesù aggiunge: «Chi non prende la propria croce…». Qual è la mia croce? Si possono dare un’infinità di interpretazioni… Alcuni esegeti pensano sia un detto che Gesù non possa aver usato (Erode il Grande aveva abolito la crocifissione; Gesù è stato crocifisso proprio nel momento storico in cui è stata reintrodotta questa forma di condanna). Forse è un detto della comunità primitiva per dire l’eventualità reale della persecuzione. Può essere che Gesù pensasse ad Isacco caricato della croce, cioè della legna sulla quale sarebbe stato immolato (cfr. Gn 22,6). Altri esegeti ritengono che Gesù pensasse al testo di Ezechiele (cfr. Ez 9,4) in cui si dice che, nel momento del grande giudizio, a Gerusalemme ci sarebbe stato uno scriba vestito di bianco che sarebbe passato con uno stilo per tracciare un “tau” sulla fronte di coloro che si sono mantenuti fedeli (il “tau” è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce). Gesù chiede al suo discepolo di prendere il “tau” dell’affidamento: «Signore, noi ci affidiamo, tu ci hai invitati alla tua mensa».
Penso alla croce anche in termini più personalistici: la croce è quello che non mi va di me, che mi fa vergognare di me, che vorrei scaricare dalle mie spalle, ma che fa parte di me. Gesù vuole che io vada dietro a lui con la mia croce, con quello che sono, come sono. Allora dico: «Va’ con lui, prendi la tua croce e seguilo. Se fai così, diventerai degno di lui».

«Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa». Un bicchiere d’acqua fresca che ristori. Tante persone ce lo offrono: dobbiamo avere gratitudine per chi lavora per noi. Anche le cose pubbliche sono un dono. «Grazie, Signore, per il bicchiere d’acqua che ci offri con la cultura, l’arte, il lavoro. A nostra volta prendiamo il lavoro come un atto d’amore. Si lavora per amore.

Discorso in occasione del 60° anniversario di ordinazione presbiterale di mons. Graziano Cesarini

Macerata Feltria (PU), 24 giugno 2023

Mt 10,26-33

«Voi valete di più». Sono parole che incoraggiano e invitano, o meglio comandano: «Non abbiate paura» (è un imperativo!). Mentre la prima parte del discorso missionario di Gesù ha il tono dell’esortazione, questa seconda parte, che abbiamo ascoltato or ora, è imperniata su tre imperativi (aoristo) che si possono tradurre così: «Che non incominciate ad avere paura!». I discepoli stavano facendo i primi passi e già il Maestro li stava inviando in missione. La prima cosa che veniva loro in cuore erano le paure. È umano avere paura: paura della persecuzione, paura della derisione, paura – una paura che abbiamo anche noi – dell’incoerenza nel sentire discordanza tra quello che si dice (la testimonianza evangelica) e quello che si fa: questo fa soffrire e qualche volta frena nel dire le parole di Gesù. «Non incominciare ad avere paura», ripete Gesù.
Questa sera sono qui con voi per fare festa ad un presbitero che non ha avuto paura, che non ha paura di parlare.
Quando uno parla può essere riconosciuto come maestro, ma può essere anche rifiutato, può accontentare e può scontentare. Però don Graziano si è messo davanti a Dio.
Qui avete un prete che non ha paura di essere se stesso. Tutto d’un pezzo. Un prete che non ha paura di essere spirituale, col rischio di apparire d’altri tempi. Si è messo davanti a Dio.
Qui avete un prete che non ha paura di riconoscere Gesù Cristo davanti a tutti, perché Gesù Cristo gli basta, anche se questo prete può apparire poco umano. Con l’età arrivano gli acciacchi, tuttavia questo prete ha il coraggio di rimanere sulla breccia. C’è, però, un tempo per prendere e un tempo per lasciare, un tempo per seminare e un tempo per raccogliere, un tempo per parlare e un tempo per tacere – riecheggia il libro del Qoelet: Dio solo resta. Cosa dice quel prete che si è messo davanti a Dio? «Sei tu, Signore, l’unico mio bene» (Sal 16,2). Ed è pronto a tutto.
«Nulla accade senza che ci sia il Padre» (cfr. Mt 10,29). Abbiamo sentito leggere così, parlando dei passerotti dei quali il Signore si prende cura, dei capelli del capo che non cadono a terra senza il volere del Padre. Però vediamo tante cose non belle che accadono… «Sei tu, Signore, che le vuoi?». La traduzione esatta sarebbe: «Nemmeno un passerotto cadrà a terra senza che ci sia il Padre accanto a lui». Pensiamo alle persone che sono nella prova, i bambini che vengono violati, i migranti che si inabissano nel mare. Tutto questo non accade senza il Padre, senza che ci sia il Padre accanto a loro nel mistero della sofferenza. Capita spesso di usare il proverbio: «Non cade foglia che Dio non voglia». No. Nulla accade senza che il Padre sia accanto a te, pronto a raccoglierti. Anche per i distacchi, l’oblio, la solitudine, se il cuore è innamorato, non c’è nulla da temere.
Dico a mio fratello, monsignor Graziano: «Non avere paura. Tu vali di più, perché il tuo cuore è innamorato del Signore. Tutto passa, tutto può crollare, ma il Signore non passa. Il Signore rimane sempre». Così sia.

Omelia nella XI domenica del Tempo Ordinario

Secchiano (RN), 18 giugno 2023

40° anniversario di ordinazione sacerdotale di don Sante Celli

Es 19,2-6
Sal 99
Rm 5,6-11
Mt 9,36-10,8

Caro don Sante,
cari parrocchiani,
non poteva esserci pagina più bella di questa per comprendere la bellezza del prete missionario e la missionarietà di ogni discepolo di Gesù.
Il Vangelo ci presenta il Signore nell’atto di scegliere coloro che devono continuare la sua missione. Qual è il motivo che lo spinge a chiamare nuovi missionari? «Vedendo le folle» Gesù intuisce in loro il bisogno profondo di Vangelo. Lo sguardo di Gesù è uno sguardo di amore infinito, che conosce le esigenze e le sofferenze della gente. Solo l’amore conosce veramente.

1.

Gesù volge lo sguardo attorno e vede la folla. Nel testo originale (nella parlata propria di Gesù) “folla” va intesa nel senso di “folla disordinata”, “folla ammucchiata”. Gesù vuole fare il passaggio da una “folla disordinata” di persone ad una comunità. Chiederà, poi, agli apostoli e ad ogni discepolo di “essere costruttori di comunità” (è il tema del Programma Pastorale 2022/23!). Dio è comunione e non desidera altro che siamo una comunità di fratelli, un “cantiere” dove tutti sono impegnati, ognuno al suo posto, nei diversi ambiti di vita.
Gesù fa nascere la comunità col suo sguardo: questo è il perché della Chiesa. Ho incontrato persone che sono innamorate di Gesù Cristo, ma non vogliono la Chiesa… Ciò non è possibile! Se segui Gesù, non puoi non riconoscere la sua Chiesa come un corpo organico con tanti ministeri e tanti carismi.

2.

Il Vangelo dice che Gesù prova un sentimento di commozione che attraversa “le sue viscere” (il verbo usato descrive il fremere tipico del grembo materno). Caro don Sante, anche tu come Gesù, proprio qui in questa chiesa, nei momenti in cui preghi per la tua gente condividi con Gesù lo sguardo amorevole che coglie il bello che c’è nella tua gente e la sua compassione viscerale per le fragilità e le debolezze.
Come viene descritta la folla? Abbiamo sottolineato che viene presentata come una “folla disordinata”, lacerata, dispersa, afflitta dalla stanchezza. Oggi si parla molto della stanchezza esistenziale, che non è la stanchezza fisica, ma il riverbero di una stanchezza più profonda. Che cosa ci rende stanchi? È il non poter contare su relazioni in cui possiamo riposarci. Il cuore di ogni persona riposa nella pienezza di una relazione di amore, di accoglienza, nella quale c’è dono reciproco. L’essere lontani da questo tipo di rapporto rende stanchi nel cuore. Non è una novità di oggi, era così anche al tempo di Gesù. Si ha bisogno di fidarsi di qualcuno. Quando sei in una relazione in cui ti puoi fidare, il cuore si riposa: puoi essere te stesso. Altrimenti devi sempre difenderti, conquistare posizioni, avere prestazioni che ti facciano accreditare dagli altri (invece con la propria mamma non si ha bisogno di manifestare chissà che cosa per essere amati). Questa è la stanchezza che tu, don Sante, devi soccorrere per «essere costruttori di comunità», affinchè ognuno si senta bene, non si senta giudicato. In ogni iniziativa parrocchiale si esaltino le qualità di ogni persona, come in una famiglia.

3.

Il Vangelo aggiunge un’altra immagine. Gesù sente la folla che ha di fronte «come pecore senza pastore». È una frase che, alle orecchie degli ascoltatori era ricorrente, perché era una frase dell’Antico Testamento. La frase «erano pecore senza pastore» era sbocciata nel contesto storico dell’esodo, il periodo in cui gli ebrei erano schiavi in Egitto. Poi si mettono in cammino. Mosè cerca di fondere insieme le dodici tribù ed arriva alle soglie della terra promessa. Anche per lui si avvicina il tempo della morte e, guardando il popolo che ha messo in cammino, preso da un grande abbattimento prega: «Signore, chi continuerà dopo di me? Queste persone sono come pecore senza pastore». Allora, a Mosè viene indicato un successore: Giosuè (è lo stesso nome di Gesù, senza l’accento all’italiana). L’immagine delle «pecore senza pastore» viene usata anche in un altro passo biblico, quando gli ebrei sono a Babilonia durante il tempo dell’esilio. Hanno il terrore di scomparire per sempre come popolo: non hanno più il tempio, non hanno più la terra, non hanno più il sacerdozio, non hanno più profeti… Vivono nella terra tra i due fiumi, a Babilonia. Allora dicono al Signore: «Siamo come pecore senza pastore, scompariremo…». Invece, il Signore farà sorgere altri condottieri. Gesù prova lo stesso sentimento, la stessa urgenza. Eppure dice: «La messe è molta, ma gli operai sono pochi… Pregate!». Questa risposta stupisce, perché Gesù non esorta anzitutto a darsi da fare per raccogliere e mietere, ma a pregare. Questa frase ci libera dall’ansia da prestazione; in fondo pensiamo che tutto dipenda da noi, dalla nostra attività, invece, secondo Gesù, l’apostolo, il vero evangelizzatore, deve sapere che non è lui che salva il mondo: è Dio che opera. Noi interveniamo, caro don Sante, nella fase finale: Dio fa crescere, fa maturare, opera nel cuore delle persone, a noi il compito di mettere in evidenza quello che il Signore fa. A volte la persona meno religiosa, meno praticante, compie atti d’amore, è sensibile, accoglie il sacerdote per la benedizione e fa domande… Il sacerdote ha la missione di far sbocciare il bene presente in germe, di evidenziare talenti, di avere lo sguardo di Gesù.

4.

Gesù ha chiamato a sé quelli che ha voluto come apostoli e dirà che li chiama «a stare con lui» (cfr. Mc 3,14): ecco cosa chiede al sacerdote (non invita tanto a corsi di aggiornamento, perché l’insegnamento è Gesù stesso, la sua persona, non una teoria). Poi Gesù esprime, con cinque verbi, cosa deve fare l’apostolo; da notare che con solo uno di questi invita l’apostolo a fare attività mediante parola, mentre con gli altri quattro verbi indica attività di carità, di servizio, di prossimità: «Strada facendo – cioè nello svolgimento della vita – predicate, dicendo che il Regno di Dio sta per venire (unico verbo che indica attività mediante parola), guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demoni». Non commento questi verbi, ma sottolineo che, per Gesù, i “demoni” sono anzitutto le immagini sbagliate di Dio. Ci sono persone che girano alla larga da Dio perché hanno paura, perché gli è stata trasmessa un’immagine contraffatta di Dio. Dio è ben diverso dai loro “fantasmi”; il Dio di Gesù è pieno d’amore, è lui che crea relazioni in cui non avanzi per i tuoi meriti e le tue performance. I prediletti di Dio sono le persone più fragili. Il cristiano deve fare esorcismi perché deve liberare l’immagine bella di Dio che è nel profondo del cuore di ciascuno: Dio è amore!