DOMENICA DELLE PALME

13 aprile 2014 – Pennabilli

 

Is 50, 4-7

Sal 21

Fil 2, 6-11

Mt 26, 14 – 27, 66

L’evangelista Matteo dà del crocifisso un’immagine ieratica e maestosa, come di un grande sovrano. Perché la Passione – letta con gli occhi della fede – è la presa di potere del re d’Israele. La comunità dei credenti che contempla il Crocifisso non tarderà ad accorgersi che colui che i militari scherniscono dicendogli: “Salve re dei Giudei! ” lo acclama veramente come re. Così come quella scritta sul suo capo “Questi è Gesù il Re dei Giudei” è una vera e propria consacrazione; e dunque Caifa e Pilato, condannandolo alla croce, lo accompagnano – ironia della sorte – nella sua salita al trono. A Caifa che lo scongiura: “Per il Dio vivente dicci se tu sei il Messia, il Figlio di Dio” Gesù risponde: “Tu l’hai detto”; e a Pilato che lo interroga: “Sei tu il re dei Giudei?” risponde ugualmente: “Tu lo dici”. Essi stessi, pur senza accorgersene, confessano come stanno veramente le cose. Sono gli esecutori involontari della promessa che Dio ha fatto ad Israele per bocca dei profeti. Per questa ragione Matteo dà grande risalto al compiersi delle profezie: “percuoterò il pastore”, sta scritto di lui, ma in tal modo tutti vedranno “il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio” come hanno preannunciato i profeti. Notare: sulla scena c’è agitazione, un andirivieni di personaggi inquieti, persino la moglie di Pilato… solo Gesù resta sovranamente padrone della scena.

Gesù è il re d’Israele, ma è anche molto di più. Viene valutato “trenta monete d’argento” come il Signore Dio d’Israele (cfr. Zac 11, 12). E come lui potrebbe chiamare “più di dodici legioni di angeli” e annientare gli avversari, sebbene non lo faccia. Alla sua morte “il velo del tempio si squarciò in due, da cima a fondo, la terra si scosse, le rocce si spezzarono e i sepolcri si aprirono”: è uno sconquassamento generale della natura e della città santa, come nelle manifestazioni di Dio ad Israele. Ecco cosa deve imparare a vedere la comunità credente che fissa lo sguardo sul Crocifisso: la suprema manifestazione di Dio. Allora esclamerà con stupore incredulo: è il Signore! Capirà che non vi è altro Dio che quello che si manifesta in Gesù Cristo Crocifisso. Regnavit a ligno Deus!

Tu, Gesù, nostro re! Ti adoriamo Cristo e ti benediciamo perché con la tua croce hai redento il mondo. Oggi assistiamo ad una nuova apostasia dalla fede. La società in cui viviamo abbandona il riferimento a Cristo. Un rifiuto “culturale” del pensiero, prima che della volontà. Viene estromesso. Ma non per questo è meno Re!

 

Quale la nostra risposta? Ecco, noi stiamo uniti a lui, lo proponiamo al mondo così! Fedeli e fieri della sua nudità sulla croce, stoltezza per i pagani, scandalo per i giudei ma, per chi è disposto a credere, potenza di Dio (cfr. 1 Cor 1, 18).

 

Due proposte concrete per questa Settimana Santa:

 

1. Staccare, qualche volta, il crocifisso dalla parte in cui sta confinato; spolverarlo, coprirlo di baci e tenerlo sulle ginocchia o tra le mani durante la preghiera. Libro inarrivabile che ci racconta “l’altezza, la larghezza, la profondità” dell’Amore di Dio (cfr. Ef 3, 18-19).

 

2. Facciamo risuonare dentro la mente ed il cuore l’invito di Paolo ai Filippesi: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2, 5). Seguiamolo passo passo in questa sua Pasqua. “Che cosa hai vissuto come oggi? Con quale stato d’animo? Come posso anch’io venire con te?

COMMEMORAZIONE STRAGE DI FRAGHETO

5 aprile 2014 – A Fragheto e Casteldelci

 

Ger 11, 18-20

Sal 7

Gv 7, 40-53

 

Inizio la meditazione sulla Parola di Dio con un celebre testo: la finale dell’Amleto di Shakespeare. La tragedia si chiude col tradimento, la morte della regina e poi del re usurpatore. Amleto, ferito dalla punta della spada avvelenata, sta per morire. Anche l’amico Orazio vorrebbe seguirlo nella morte, felice di abbandonare la scena drammatica e amara di questa vita, bevendo l’ultimo sorso di veleno che è rimasto. Amleto non vuole e gli dice: “Se sei un uomo, dammi la coppa; lasciala, per Bacco! La voglio. Oh buon Orazio che nome infame lascerei se tutto questo rimanesse ignorato? (…) in questo mondo crudele devi trarre il tuo respiro per raccontare la mia storia”. E poi conclude: “Il resto è silenzio”.

Restare per raccontare.

Raccontare perché non vada persa la memoria e perché quanto è successo settanta anni fa qui a Fragheto non scivoli nell’oblio: rappresaglia e strage di innocenti inermi. Ricordare e raccontare, non per vendetta ma per giustizia.

Non per bloccare la storia su immagini di sangue, ma per apprendere la lezione della pace e la pedagogia dell’incontro: dall’orrore per la barbarie al quotidiano lavoro su noi stessi per dominare le “passioni”.

Anche la prima lettura che abbiamo ascoltata in questa liturgia, una celebre pagina del profeta Geremia, ci porta dentro uno scenario di sangue: un agnello innocente viene condotto al macello. Il profeta teme che il suo nome non sia più ricordato e il sacrificio inutilmente sprecato. L’agnello è figura di Gesù, l’innocente che si è caricato del peccato e del male che è nel mondo. Egli rimette la sua causa a Dio: chicco di frumento che cade per terra e muore, ma per portare frutto e vita (cfr. Gv 12, 24).

“Egli è stato trafitto per i nostri delitti, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe siamo guariti” (Is 53, 5).

Un dolore innocente: il Figlio di Dio è solidale fino in fondo. Egli ci indica nell’abbandono in Dio e nel perdono la via della redenzione.

Il Vangelo ci riferisce la disputa dei Giudei intorno a Gesù: c’è chi lo riconosce Messia; c’è chi gli è ostile; c’è chi sta a guardare. Curiosa l’esortazione dei farisei a Nicodemo – il visitatore notturno di Gesù – “Studia e vedrai…” (Gv 7, 52). Un’esortazione valida anche per noi: applicarsi allo studio delle Scritture, imparare le lingue, non dimenticare l’importanza della ricerca storica, ecc… In ogni caso, mettere in attività la ragione: “La cura per l’istruzione è amore” (Sap 6, 17).

Quale tipologia di studio ci viene chiesta? Quella dei farisei, dove il sapere diventa una forma di potere? Lo studio riservato ad una élite? La cultura presuntuosa di chi è pago della sua erudizione e non ascolta il cuore? Nicodemo ci mostra il sapere che sa andare di pari passo col cuore e con la vita, perché si lascia interpellare e mettere in questione. Un sapere aperto; Nicodemo pone una domanda aperta intorno a Gesù: “E se costui…”

Un avvertimento: non trascuriamo d’essere attenti all’attualità e ai segni dei tempi da decifrare, ma impariamo anche dal passato, la storia è maestra di vita e apertura al futuro che speriamo migliore.

Omelia Valdragone, 13 marzo 2014

Ester 4,17k-u

Sal 137

Mt 7,7-12

 

La liturgia della Parola, questa sera, ci propone una pagina stupenda dal Libro di Ester: una accorata e fiduciosa preghiera che sgorga dal cuore della protagonista racchiusa in un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. La vicenda di Ester è ambientata nei sontuosi palazzi del re di Persia. La protagonista è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio). Il suo nome significa “Stella”. La vicenda assomiglia alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. In breve: la splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare la sua bellezza al popolo e ai capi. “E’ un oltraggio”, gridano i saggi di corte: “Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina”. Viene bandito allora un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina. Intanto, a corte, un potente ministro del re sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce come provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (Ester come Mosè!). E così accade: il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato, mentre il cattivo ministro Amman viene punito. “Per i giudei era spuntata una luce; ci fu letizia, esultanza, onore”.

La liturgia di oggi ci fa vedere il valore della preghiera di intercessione e, nella provvidenziale intercessione di Ester, il ruolo di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi. Di che cosa parla Maria quando è davanti al Signore, se non di noi? Di che cosa parla Maria quando è accanto a noi, se non di Lui? “Non hanno più vino”, dice a Gesù. E a noi: “Fate tutto quello che vi dirà”!

Perché ricorrere a Maria? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria, in esso ha un posto particolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. Dio vuole attorno a lui un campo d’amore ad alta tensione: Maria è al centro. Anche al centro diocesi – a Pennabilli – la veneriamo col titolo di Madonna delle Grazie. Ci sono tanti fedeli che, prima di salire al Signore, sostano davanti a lei: certi che le cose sono fatte. Non fu così anche alle nozze di Cana? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù!

Anche il Vangelo ci parla di preghiera.

In particolare, svela come è il volto del Padre a cui indirizziamo la preghiera: un Padre provvidente, desideroso di condividere e di farci dono di ciò di cui il nostro cuore è assetato: “Bussate… chiedete… cercate”. Che contrasto con l’immagine di Dio che – nella Genesi – il serpente vuole insinuare! Il Padre non aspetta altro che farci dono di ciò che ha di meglio per noi, la sua stessa vita. Ma il serpente è sempre in agguato per frammettersi tra noi e il Padre. Arriva persino – l’abbiamo sentito domenica scorsa nel racconto delle tentazioni – a travestirsi della sua Parola per alimentare le nostre pretese di onnipotenza (“giocare a fare Dio”, come diceva papa Francesco) o la presunzione di bastare a noi stessi. Che questa Quaresima ci faccia trovare o ri-trovare la gioia che viene dalla certezza di sentirci amati.

Insediamento dei Capitani Reggenti

Basilica di San Marino, 1 aprile 2014

 

Ez 47, 1-9.12

Sal 45

Gv 5,1-16

 

Il lato destro dal quale sgorga l’acqua che dà vita in eccedente abbondanza è il petto trafitto del Signore (cfr.  Ez 47, 1-ss; Gv 7, 37-39). Lui è il tempio vivo (cfr.  Gv 2,21), Sacramento dell’incontro con Dio (cfr.  Gv 14,9).

Viviamo questo inizio del nostro cammino civico con lo sguardo rivolto al Crocifisso.  Papa Francesco, qualche giorno fa, ci confidava di aver strappato furtivamente il piccolo crocifisso dalle mani del suo vecchio confessore ormai composto nella bara e da allora di portarlo sempre sul suo cuore. Guardiamo il Crocifisso (cfr.  Zac 12, 10; Gv 19,37). E che cosa ci dice? “Guarda se in me vedi altro che amore” (cfr. Beata Angela da Foligno).

Anche noi, come i nostri padri, come milioni di credenti sparsi nel mondo, “sale della terra” (così Gesù chiamava i suoi discepoli, cfr. Mt 5,13) e come tanti uomini di buona volontà senza pregiudizi, apprendiamo da quelle braccia spalancate e immobilizzate dai chiodi nel gesto di accoglienza, la lezione dell’amore che si dona senza riserve. “E’ un fiume – cantiamo parafrasando il salmo 45 – e noi i suoi ruscelli che rallegrano la città di Dio”. Il fiume è il suo amore, noi vorremmo essere i testimoni e i portatori. Il Vangelo ci ha parlato di Gesù che prende l’iniziativa e guarisce. Chi di noi non è desideroso di guarire dalle sue fragilità e infermità? Gesù non domanda niente, né fa rimproveri. Non per indifferenza ma perché ci prende dal punto in cui siamo. E perché ci vuol preservare nella prova raccomanda: “Non peccare più, che non ti accada di peggio”.

A nostra volta vorremmo essere – autorità e cittadini – portatori di una vita nuova, più giusta e più bella, pronti a chinarci sulle necessità dei fratelli.

Grazie ai Capitani che lasciano e ai nuovi eletti alla Suprema Magistratura: auguri. Confidiamo sappiano essere garanti e testimoni dei Valori che San Marino ci ha trasmesso e di cui siamo fieri.

Omelia Quarta Domenica di Quaresima

Sante Cresime

Lunano, 30 marzo 2014

 

1Sam 16,1.4.6-7.10-13

Sal 22

Ef 5,8-14

Gv 9,1-41

 

Un cieco qualsiasi lungo la strada… Ci piacerebbe conoscere il suo volto e il suo nome e interrogarlo sul “prima” e sul “dopo” l’incontro con Gesù. Un incontro fortunato, inatteso e risanatore. Gesù gli ha ridato la vista: era cieco dalla nascita. Adesso vede tutto per la prima volta! Una festa per i suoi occhi e per la sua mente. Il suo nome non ci è stato tramandato, forse per dirci che quel cieco è ciascuno di noi; il cieco innominato è l’interprete della nostra condizione umana di non-vedenti. In effetti, vediamo solo quello che è racchiuso dentro l’orizzonte della nostra vista, non riusciamo a vedere oltre. Gli uomini hanno allargato gli orizzonti mediante la tecnologia: il telescopio per le grandi distanze, il microscopio per l’infinitamente piccolo, l’internet per istantanei e planetari collegamenti audio e video…

Ci sono poi messaggi e sentimenti affidati a segni grafici convenzionali. L’analfabeta, benché in buona vista, non può leggerli. Rimangono indecifrati. Chi sa leggere può andare più in profondità decifrando e interpretando. Chi sa leggere può navigare verso altri orizzonti.

Ma c’è, nel cieco che siamo noi, una sete d’infinito; sta affacciato alla finestra del suo cuore e vorrebbe “vedere” il prima e il dopo della sua esistenza. In altre parole: vorrebbe vedere il senso del suo esistere e del suo destino. Questo desiderio struggente è ben espresso dal canto di Giacomo Leopardi, il poeta dell’Infinito.

Gesù si avvicina a noi, cura i nostri occhi e ci permette di vedere “oltre”. Ci fa dono della fede. La fede ci consente di conoscere, di avere lo stesso sguardo di Gesù.

Certo, è una sfida per noi. Dal nostro posto in chiesa fissiamo il Crocifisso: per quanto possa sembrare “incredibile”, la fede ci fa vedere nell’uomo inchiodato alla croce il Signore, rivelatore dell’amore di Dio. Tra poco il sacerdote alzerà l’ostia consacrata: si farà grande silenzio e gli occhi di tutti vedranno, nel dono di un pane spezzato, la presenza del Risorto. Grande dono la fede!

Quando ci riuniamo attorno ad una bara, pur tra le lacrime, intravediamo eternità di vita. La fede ci porta a promuovere e a difendere, se necessario, valori e profezie anche quando sono impopolari. E’ la fede che ci fa considerare la bellezza che c’è nell’ “altro” e non ci fa fermare ai difetti di cui soffre e si duole. Come Dio che non guarda le apparenze, ma vede il cuore. La fede mette ordine nella nostra vita e le ripropone il suo vero senso. Signore, cura la nostra cecità, aumenta la nostra fede!

Terza domenica di Quaresima

Basilica di San Marino, 23 marzo 2014

 

Es 17,3-7

Sal 94

Rm 5,1-2.5-8

Gv 4,5-42

 

Strade che si intrecciano attorno a quel pozzo… Gesù, stanco per il lungo cammino, si ferma al pozzo. Anche una donna di Samaria in ricerca scende a quel pozzo. C’è un incontro. Anche gli apostoli e i samaritani si muovono attorno al pozzo presso il quale Giacobbe aveva riunito le dodici tribù.

La nostra meditazione potrebbe prendere il via proprio da queste suggestioni: la strada, il pozzo, l’incontro.

Le strade percorse da questi “cercatori” non sono strade idilliache…

Gesù e i suoi compagni di viaggio sono Galilei fedeli alla liturgia del tempio di Gerusalemme. La donna e i samaritani sono avversari; tra gli uni e gli altri c’è un’antica ostilità e incomprensione.

Gesù è stanco non del ministero, semmai è il ministero che lo ha stancato, affamato e assetato: sono le ore dodici! (allusione ad un altro mezzogiorno: quello del Venerdì santo).

La donna che sopraggiunge al pozzo è vivace, intraprendente, capace di reagire, ma è una donna sconfitta, segnata da una serie di vicende affettive finite male.

Davanti a Gesù, ebreo e maschio, rivendica con orgoglio la propria appartenenza e dice: “Sei forse tu più importante di Abramo?”.

Gesù si presenta in modo semplice: ha bisogno di bere. Non parte da un tema, da una correzione, ma da un suo bisogno che manifesta umanità. E’ un chiedere che è un darsi. Gesù si mette nelle mani di quella donna per coinvolgerla. Ciò che fa partire il cammino è quel “dammi da bere”. Il mostrarsi nella sua fragilità è per Gesù non un ostacolo, ma un punto di partenza. Vale anche per noi: non facciamo mai delle nostre fragilità una scusa per tirarci indietro.

Ancora un dettaglio che rafforza l’atteggiamento umile di Gesù favorendo e facilitando l’incontro: secondo alcuni codici Gesù si mette a sedere “per terra”.

“Se tu conoscessi il dono di Dio”: il dono è Gesù in persona! E’ lui l’acqua viva!

“Acqua viva” è una espressione mutuata dall’Antico Testamento che significa vitalità divina, rivelazione, sapienza. Anche la Torah era salutata come acqua viva.

Adesso davanti alla donna di Samaria c’è l’acqua viva: è Gesù!

Gesù pian piano conduce la Samaritana alla scoperta della sua identità: giudeo, operatore di prodigi, profeta, Messia, inviato del Padre, Salvatore del mondo.

Attraverso l’incontro, la donna è passata dalla chiusura e dal dubbio all’apertura, alla meraviglia, alla fede incerta e, infine, alla piena confessione.

L’anfora rimane sul pozzo perché ci sarà un ritorno, il ritorno della donna e dei samaritani. Che cosa ci dice quell’anfora lasciata presso il pozzo?

Perché Gesù beva? Per dirci che la donna non ha più bisogno d’attingere acqua?

Forse viene lasciata lì per proporci l’esperienza sacramentale, il nostro incontro con la persona viva di Gesù attraverso il sacramento, segno della sua presenza.

Chiunque beve quest’acqua avrà un’acqua che gorgoglia dentro di lui, diventerà lui stesso pozzo d’acqua viva!

Omelia “Venerdì bello”

21 Marzo 2014
Santuario della B.V. delle Grazie di Pennabilli,

Gen 37,3-4.12-13.17-28
Sal 104
Lc 1,26-38

Entriamo in punta di piedi nella casa di Nazaret. Impariamo alla scuola di Maria il raccoglimento, condizione prima e indispensabile per andare in profondità ed ascoltare quello che il Signore vuole dirci.
L’angelo entrò da lei: anche la mia Nazaret, pur fra tante voci che l’attraversano, può essere casa del raccoglimento, spazio formativo, atmosfera spirituale. Un luogo interiore ed un luogo esteriore, vero angolo di preghiera, forse disadorno o col sapore della nostra casa; eppure è lì che Dio mi sfiora. Mi sfiora non solo nelle liturgie solenni della cattedrale, ma anche nel quotidiano più feriale; come nella Messa dove il sublime confina con una tovaglia bianca, con un calice ed un pane. Nazaret è la mia casa!
Nazaret è anche il mio cuore, quando lo custodisco e lo difendo dal chiacchiericcio, dalla impertinenza dei giudizi, dall’invadenza dell’immaginazione.
La prima parola che esce dalla bocca dell’angelo è una parola di gioia: Rallegrati, Maria. Troppo riduttivo tradurre una delle prime parole dell’evangelo con Ave. Le parole del saluto angelico appartengono più alle promesse messianiche che al galateo. Invitano Maria alla gioia prima ancora che si espliciti il dialogo con le sue conseguenze. Non si tratta di una gioia effimera e intimistica. E’ una gioia divina che spiega il senso della sua esistenza. Gioia, dunque, per un amore incondizionato che precede; per una presenza che la rende colma. Allo stesso modo Dio vuole entrare nella nostra vita, vuole abitare la nostra povertà, fecondare la nostra sterilità.
Noi moderni abbiamo qualche difficoltà a situarci di fronte ad un racconto come questo. L’evento non è certo di quelli di cui possa occuparsi la storiografia scientifica: siamo di fronte ad un evento soprannaturale, il Verbo di Dio si fa carne. Non ci interessano le modalità, ma la sostanza dell’evento.
La parlata dell’angelo a Maria è costituita da un rammendo di citazioni bibliche. In questo modo viene svelato alla fanciulla di Nazaret il compimento delle antiche scritture: Dio parla ai piccoli! Ed è ciò che fa prendere coscienza a Maria del suo destino eccezionale e a noi annuncia la vera identità del nascituro. Colui che la fanciulla di Nazaret sta per concepire è il Messia! Dio visita il suo popolo. Non sapremo mai come è avvenuto il concepimento, ma questo non è essenziale: dobbiamo rispettare l’intimità di una donna. Anche nella nostra vita è accaduta un’annunciazione: il Verbo vuol prendere carne in noi. Come Maria gli diciamo: Eccomi!

Seconda Domenica di Quaresima

San Leo, 16 marzo 2014

 

Gen 12, 1-4

Sal 32

2Tm 1,8-10

Mt 17,1-9

 

Sono pieno di emozione e di trepidazione nell’entrare nella prima sede dei vescovi feretrani, la più alta espressione di arte e di fede esistente nel Montefeltro.

Ma il cuore – cari fratelli – è subito preso dagli eventi naturali che in questi giorni hanno ferito profondamente la montagna di San Leo e le adiacenze della Rocca, tengono in apprensione tutta la città e mettono a dura prova famiglie e istituzioni. Porto insieme alla mia vicinanza, quella dell’intera diocesi. Al signor Sindaco vorrei significare tutta la nostra solidarietà e dare testimonianza per quanto ha fatto e sta facendo con intelligenza e impegno, insieme ai colleghi amministratori, ai tecnici e all’Arma dei Carabinieri, per tenere sotto controllo la situazione.

Siamo raccolti qui insieme per la preghiera gli uni per gli altri, davanti alla Maestà divina.

Siamo qui con delle domande nel cuore: “Signore, che cosa vuoi dirci attraverso questi eventi?”. E poi: “Come vivere da credenti tali prove?”. E come cittadini “come prevedere e prevenire?”. Ci viene ricordato anzitutto di circondare di rispetto e attenzione la natura, questa natura così bella e così fragile. Un dovere di tutti. Ma siamo anche avvertiti che la nostra vita sulla terra è caduca, in balia di mille eventualità e di crolli. “Non abbiamo quaggiù una stabile dimora” (cfr. Ebr 13, 14) – ci ricorda la Parola di Dio. Qui ci siamo di passaggio. Quanto sono stolte le nostre presunzioni e ridicole le nostre meschinità! L’anima credente s’acquieta, propendendosi verso il Regno dei Cieli: “Solo tu, Signore, non passi” (cfr. Sal 102, 27) e cantando le parole del Salmo: “Sei tu la mia roccia e il mio baluardo” (Sal 31, 4).

C’è nei Vangeli un racconto di cronaca nera riferito tempestivamente a Gesù: diciotto persone sono rimaste vittima sotto il crollo di una torre (cfr. Lc 13, 4). Si vuole una presa di posizione da parte sua. Tra gli interlocutori di Gesù, qualche teologo da strapazzo vuol fare il paladino di Dio, quasi che Dio abbia bisogno di un difensore d’ufficio! Cerca colpevoli: “Perché quei diciotto e non altri?”. Ma Gesù va ben oltre: quei malcapitati non erano più peccatori degli altri e gli scampati non i più santi. Non si deve leggere ogni disgrazia come intervento della giustizia divina, ma un’occasione per fare discernimento, per guardarsi dentro e proporsi l’essenziale. “Se suona una campana a morto – diciamo con le parole di un celebre romanziere – non chiederti per chi suona, perché suona per te”! I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Un invito che raccogliamo e che diviene sostanza di questa Quaresima, impegnati – come tutta la natura di primavera – ad aprirci ad una vita nuova.

Il Vangelo proclamato in questa seconda domenica di Quaresima ci racconta la trasfigurazione. Mentre Gesù si incammina decisamente verso Gerusalemme, accade il prodigio: “Si trasfigurò davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce” (Mt 17, 2). Di solito si interpreta l’evento come l’aiuto offerto ai discepoli perché non si smarriscano nel tempo della prova. In anticipo verrebbe loro rivelato lo splendore della risurrezione di Gesù dopo la sua morte. Come dire: “Non fuggite; non esitate a seguire il maestro, non perdetevi d’animo; Gesù alla fine vincerà”. Questa non è una interpretazione sbagliata; al contrario, ha valore apologetico e incoraggia anche noi nel cammino penitenziale verso la Pasqua. Tuttavia propongo una interpretazione che tocca più in profondità la nostra vita di fede, più esperienza spirituale che apologetica. La Gloria di Gesù, in tutto il suo splendore, si manifesta mentre sale a

Gerusalemme. E’ dentro al suo donarsi (la decisione di salire a Gerusalemrne) che appare la Gloria. La trasfigurazione, dunque, accade nel presente, sul pendio stesso di quella salita, nella durezza del suo destino. Dunque, in quel “mentre”. Nella trasfigurazione di Gesù c’è la nostra trasfigurazione; proprio nel momento in cui decidiamo di donarci e di spenderci senza riserve, la Gloria prende forma. L’avrete vista, questa Gloria, risplendere sui volti di tante persone che, avvolte dalla Grazia e piene di amore, hanno affrontato le prove. L’ho vista sul volto di madre Teresa di Calcutta quando ebbi la fortuna di incontrarla: un volto scavato dalle rughe, la schiena incurvata, ma gli occhi luminosi. L’ho vista sul volto di padre Roberto, un caro amico, divorato da un cancro ma sempre proteso a vivere l’attimo presente nell’amore, con la chitarra accanto al suo letto. L’ho vista brillare tra le lacrime di mamme e di papà che vivevano nella fede un presente difficile. Dicono che talvolta le lacrime diventano perle!

Omelia per il secondo anniversario della morte di Mons. Agostino Gasperoni

Uffogliano, 12 marzo 2014

 

1Sam 3, 1-10.19-20

Lc 11, 1-13

 

“Quorum laus est in ecclesia Dei” (LG 41)

Con queste parole la Lumen Gentium riconosce ed esalta in tanti sacerdoti l’esercizio della santità. Secondo il progetto di vita che il Concilio suggerisce ai presbiteri: “Pregando e offrendo il sacrificio per la loro gente e per l’intero popolo di Dio in nome del loro ufficio, consapevoli di ciò che compiono e imitando ciò che amministrano senza lasciarsi ostacolare dalle preoccupazioni apostoliche, dai pericoli e dalle tribolazioni, vi sappiano trovare un mezzo per ascendere a più alta santità; nutrano e animino la loro attività con l’abbondanza della contemplazione, a conforto dell’intera Chiesa di Dio”(…). “La loro lode risuona nella Chiesa”.

Sì, questa sera, nel secondo anniversario del suo passaggio da questo mondo al Padre, vogliamo ricordare la figura bella e tanto cara di don Agostino. Diamo lode al Signore e stiamo davanti a Lui come frutto della carità sacerdotale di don Agostino. Esprimiamo gratitudine per l’offerta del suo sacrificio preparato in tanti anni di donazione e di servizio, di studio e di magistero, di solitudine davanti a Dio e di compagnia con i fratelli, a immagine dello scriba evangelico che “estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13, 52). Compagnia soprattutto con le famiglie, alle quali ha riservato le sue migliori risorse e  la passione per la loro formazione spirituale, pensandole non solo oggetto delle sue cure, ma soggetti di evangelizzazione e di pastorale. La famiglia evangelizza in effetti per quello che è e poi con quello che fa. Non ho avuto occasione di incontrare don Agostino, né ho potuto leggere i suoi scritti. Tuttavia, usurpando il posto che lui ha nei vostri cuori dico: pensate la vostra casa come una piccola Nazaret, la casa di Giuseppe, Maria e Gesù. Di solito si dice che la vita di Gesù a Nazaret fu il tempo della vita nascosta (effettivamente le Scritture non ci raccontano la vita di ogni giorno in quella casa e in quel minuscolo villaggio). Eppure, quei trenta anni sono rivelazione in senso pieno e forte; i trent’anni non sono solo preparazione agli altri tre! Con la sua vita a Nazaret, Gesù annuncia che il Regno di Dio è giunto. Rivela in tutta la sua pregnanza la verità dell’incarnazione (Gesù cresce come crescono i nostri bambini: impara, gioisce, piange, ecc. ); proclama il valore della nostra vita semplice e nascosta al mondo: lavoro, relazioni, fragilità, ecc. ; dice la santità della famiglia, delle relazioni domestiche, luogo per l’esercizio delle virtù: amore, pazienza, laboriosità, servizio.

E’ bella l’esperienza dei gruppi famigliari, è una esperienza da sostenere da parte dei laici, dei sacerdoti e da parte della comunità e della comunità diocesana. Sono famiglie che si mettono in rete, coltivano la spiritualità, coniugano fede, preghiera e vita di casa. Da laboratorio diventano poi portatrici nella Chiesa delle loro esperienze, scoperte e – perché no? – delle loro istanze.

Don Agostino, come il piccolo Samuele, ha ascoltato la voce di Dio che gli ha parlato mediante le Scritture di cui è divenuto appassionato cultore. Don Agostino, come Samuele, “acquistò autorità perché il Signore era con lui, non lasciò andare a vuoto una sola delle sue parole” (1Sam 3,19).

“Ascolta Israele”. È la parola che ogni giorno, più volte al giorno, il pio israelita ripete. “Ascolta”: in un tempo così “parolaio” veniamo ricondotti all’essenziale, alla più semplice delle attitudini, l’ascoltare. Attitudine semplice, ma non facile. L’ascolto vero è possibile quando ci si mette di fronte all’altro facendo il vuoto, essendo “nulla”. L’ascolto non è mera passività. È vuoto d’amore e quindi conquista, mai scontata.

Con la lettura di Luca, questa sera siamo posti davanti alla Preghiera di Gesù. Gesù non si limita a darci regole di preghiera, ma ci vuole coinvolgere nella sua relazione col Padre: “Padre, che sei nei cieli”.

Nella tradizione lucana del Padre Nostro manca il “sia fatta la tua volontà”. Don Agostino biblista ci avrebbe spiegato la differenza con la redazione di Matteo. La “volontà di Dio” come mistero e dono l’abbiamo cantata col salmo responsoriale (Sal 39). Volontà di Dio non sempre facile da comprendere e da accogliere (è mistero!), ma sempre dono perché è la realtà più bella: effusione dell’amore di Dio nei nostri cuori.

Omelia della Prima Domenica di Quaresima

Maciano, 9 marzo 2014

Gen 2,7-9; 3,1-7

Sal 50

Rm 5,12-19

Mt 4,1-11

 

“Militia est vita hominis super terram” (Gb 7, 1)

Ci sono le tentazioni: e chi non ne subisce! E c’è la “tentazione”, cioè la prova radicale della fede.

Le tentazioni si affacciano sugli ambiti più disparati della nostra vita. Guai andarle a cercare o mettersi nell’occasione prossima. Si può cadere! Meglio non presumere delle proprie forze. Tuttavia, sono inevitabili; per questo preghiamo “non indurci in tentazione ma liberaci dal male”. Le tentazioni sono, tuttavia, occasioni di crescita e di maturazione, di rafforzamento e di umile conoscenza di sé. Ci offrono l’opportunità di riaffermare la nostra fedeltà alla volontà di Dio e di vivere i “no” come altrettanti “sì” a Lui. Chi intraprende – come stiamo facendo con questa Quaresima – un serio cammino di fede e di conversione deve mettere in conto la prova. Le tentazioni non sono peccato, possono essere perfino un segnale che siamo sulla strada buona. Comunque, mai il Signore permette che siamo tentati oltre le nostre forze (cfr. 1Cor 10,13).Nelle prove sempre ci soccorre. I maestri spirituali insegnano non solo a non metterci nelle occasioni, ma a confidare le nostre prove ad una guida spirituale.

Ma la liturgia di oggi vuol metterci di fronte alla “tentazione”, prova radicale della fede, davanti alla quale si sono trovati i progenitori (come abbiamo sentito nella prima lettura), il popolo di Israele nel cammino dell’esodo e lo stesso Gesù. La “tentazione radicale” consiste nella tentazione di non fidarsi del Padre, nel pensare di essere soli davanti alla vita e, pertanto, consiste nel sussurrare al proprio cuore: “Se non penso io a me stesso, chi provvede?”. L’esito può essere quello della disperazione o quello dell’orgoglio e dell’autosufficienza, del non fidarsi e del bastare a se stessi.

I progenitori hanno ceduto alle insinuazioni del diavolo ed hanno steso la mano sul frutto proibito: presunzione di essere come Dio, di fare da soli, di “essere Dio”.

Il racconto delle tentazioni di Gesù secondo Matteo ha analogie impressionanti con le vicende dell’Esodo. Gesù è presentato come il vero Israele, il vero Mosè. L’analisi del testo non fa che confermare questo. Lo Spirito conduce Gesù nel deserto per essere provato. Anche Israele: “Dio lo condusse nel deserto alla prova, per educarlo come un padre educa il figlio” (Deut 8, 2-5). Il Deuteronomio aggiunge: “per quaranta anni”. Ad essi si riferisce Matteo con i suoi quaranta giorni, ben conoscendo il testo di Numeri 14, 34: “Per quaranta anni sconterete le vostre colpe, in base ai quaranta giorni che avete impiegato ad esplorare la terra. Ogni giorno conta un anno”. Il libro del Deuteronomio è un grande commento teologico all’esodo di Israele, soprattutto vuol dimostrare che il fallimento del popolo nel deserto è dovuto alla sua mancanza di fiducia in Dio. Dal Deuteronomio Matteo trae le citazioni con cui Gesù combatte le tre tentazioni. Nella prima, Satana mette Gesù nella stessa situazione di Israele: il popolo si lamenta perché ha fame. Israele non supera la prova, Gesù invece ne esce vittorioso: “L’uomo non vive di solo pane”. Nel suo deserto Gesù accoglie la volontà del Padre su di lui; vive della sua Parola.

Nella seconda, Gesù è tentato di compiere un prodigio spericolato, sensazionale e teatrale che lo accrediti come prestigioso Messia davanti alla folla attonita. Anche Israele a Massa, nel deserto, voleva costringere il Signore a compiere uno spettacolare prodigio. Per questo motivo Deuteronomio 6,16 ammoniva: “Non tenterete il Signore”. Gesù, a differenza di Israele, supera anche questa seconda prova. Sarà Messia, ma come vuole il Padre; un messia umile, sofferente, servo. “Gettati giù”: sembra il massimo della fede e invece ne è la caricatura perchè la ricerca di un Dio magico a proprio servizio. Satana è seduttivo; sembra voler aiutare Gesù “a fare il Messia”. La gente è sempre assetata di miracoli!

Anche la terza tentazione ricorda Israele: prima di entrare nella Terra era stato messo in guardia dall’idolatria. Ma Israele fallì, non ebbe fede in quel Dio che non vuole spartire con alcuno la fiducia del suo popolo. Gesù invece esce definitivamente vittorioso. Egli ha totale fiducia nel Padre. Diventerà il Signore del mondo, ma come il Padre vuole e per la via della croce, non in modo “disobbediente” e per facili scorciatoie. Il Padre sarà sempre con Lui. Gesù esce dal combattimento non solo indenne, ma vincitore. Non si è lasciato separare dalla volontà di Dio. In fondo Satana dice: “Vuoi cambiare il mondo con l’amore? Sei un illuso!”. La strada che seguirà Gesù non sarà mai quella del ricatto, della seduzione, del potere. In questa ottica cristologica e messianica il racconto acquista tutto il suo valore pedagogico per la Chiesa e per tutti noi che dobbiamo, in fondo, misurarci con la stessa tentazione: non fidarsi.