Veglia di Pentecoste

7 giugno 2014

Novafeltria

Gv (7, 37-39)

Siamo qui per vivere un’ora di Cenacolo (il cenacolo è la sala adornata, al piano superiore, nella quale Gesù riunisce gli amici) e qui portiamo tutte le sorelle e i fratelli della nostra Chiesa diocesana. Li consideriamo tutti presenti! Vorremmo che quest’ora non finisse mai…
In questo momento, qui, è la “Domus ecclesiae”: «Come è bello che i fratelli stiano insieme» (Sal 133). E’ utile, è necessario, è bello ritornare al Cenacolo (tutti insieme, pur diversi). E’ utile perché abbiamo di che meditare: il Cenacolo, infatti, ci riporta all’essenziale. Abbiamo gustato la sequenza delle letture, dall’episodio della Torre di Babele fino al grido di Gesù che dice: «Chi ha sete venga a me e beva» (cfr. Gv 7, 37). E’ necessario ritornare al Cenacolo, perché abbiamo la gioia di rinnovare l’incontro che ci emoziona sempre, l’incontro con Gesù Risorto che dice: «Pace a voi»! Bisognerebbe non farne mai l’abitudine, talvolta sembra quasi tutto scontato: entriamo in chiesa e usciamo tali e quali. Invece, questa sera imploro lo Spirito Santo di farci tornare a casa – come diceva il Papa domenica scorsa – “ubriachi di Spirito”. E poi è bello ritornare al Cenacolo, perché questo luogo, questa compagnia di amici, questa fraternità, ci dispongono ad accogliere una nuova effusione di Spirito Santo, Spirito che noi professiamo essere la Terza Divina Persona della Trinità, Dio Amore. Ricorderete tutti quel passaggio degli Atti degli Apostoli in cui viene proposta ad alcuni discepoli questa domanda: «Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?». Gli risposero: «Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo». «Quale battesimo avete ricevuto?». «Il battesimo di Giovanni» (cfr. At 19, 1-6). La nostra spiritualità, la nostra preghiera, spesso ignora il Dio di Gesù Cristo, che è un Dio Trinità di Persone: la Prima Divina Persona, che noi chiamiamo, con parola umana dolcissima, “Padre”, la Seconda Divina Persona che conosciamo, perché si è fatta uomo ed è venuta in mezzo a noi, Gesù di Nazaret, la Terza Divina Persona, lo Spirito. Una parola equivoca, Spirito. Quando si dice “Spirito” si pensa spesso agli spiriti, a qualcosa di evanescente, invece lo Spirito è parola che sta ad indicare la potenza di Dio, il suo respiro, il suo amore. Noi lo invochiamo qui, dentro il Cenacolo, e consideriamo il clima che lo avvolge attorno e dentro, i personaggi che lo abitano (gli apostoli, le donne, Maria madre-sorella-discepola), lo Spirito Santo Creatore che scende con potenza, Avvocato, Maestro interiore, e poi le porte del cenacolo già spalancate sulla città degli uomini. Il cenacolo è il luogo a cui Gesù riconduce i discepoli, perché vivano intensamente la Pasqua, l’Esodo: è la sala grande e addobbata, al piano superiore, in cui si gusta l’Eucaristia, in cui si fa memoria della lavanda dei piedi e della istituzione del ministero presbiterale, lo spazio nel quale si è compiuto l’evento della Pentecoste. Nel cenacolo Gesù ha pronunciato i discorsi di addio nei quali ha annunciato lo Spirito Santo Persona. Che cosa potevano sapere gli Apostoli dello Spirito Santo? Fu Gesù a rivelarne la presenza, fu Gesù che fece comprendere ai discepoli che l’Antico Testamento tante e tante volte alludeva allo Spirito Santo; dal momento della Creazione: «lo spirito di Dio aleggiava sulle acque» (cfr. Gn 1,2); poi Dio plasma l’uomo, prende la creta come abile vasaio, infonde il suo spirito soffiando nelle narici e l’uomo diventa un essere spirituale. E a seguire tutta la storia della salvezza, in cui lo Spirito guida Israele verso la Terra promessa, prima come nube e poi come fuoco; lo Spirito che scende sui profeti – anzi i profeti stessi diranno che lo Spirito sarà spirito di vita che farà rivivere ossa aride e sostituirà il cuore di pietra con un cuore di carne. Infine Gesù dice: «E’ bene che io me ne vada, altrimenti non verrà a voi lo Spirito» e ci saranno Giovanni, l’amico del cuore, e Maria, la mamma di Gesù, a raccogliere – come rappresentanti di tutti noi – lo Spirito che Gesù dona, lo Spirito che esce dalla spaccatura della sua umanità, da un amore indicibile che non poteva più contenerlo, effuso nel momento del suo grande dolore. Quando poi dirà «ho sete, tutto è consumato» consegnerà lo Spirito al Padre.
Inoltre Gesù, nel cenacolo, ha consegnato ai discepoli il comandamento nuovo, il suo testamento. Dal Cenacolo, apparendo a porte chiuse, inaugura la missione, inviando alle genti gli apostoli equipaggiati dei suoi stessi poteri per la remissione dei peccati. Il Cenacolo ci ripropone l’atmosfera per una intimità profonda; fu là che risuonavano queste parole: «rimanete in me e io in voi … non vi chiamo più servi ma amici» (cfr. Gv 15, 4.15); là c’era stata l’apertura dei cuori: Giovanni che posava il capo sul petto di Gesù, Tommaso che metteva la mano nella ferita del cuore; c’era stata la rivelazione piena: «mostraci il Padre e ci basta» – e Gesù che risponde: «chi vede me vede il Padre» (cfr. Gv 14, 8)…mentre un altro apostolo dirà: «sì, adesso parli apertamente» (cfr. Gv 16, 29).
Sì, il cenacolo prepara alla missione; in esso si vive una trepida attesa. Se paragoniamo la vita cristiana al battito del cuore, il cenacolo rappresenta il primo movimento, la missione fuori del cenacolo il secondo. II sangue viene richiamato al suo centro e poi mandato ad irrorare ogni parte del corpo: momenti diversi e successivi, ma inseparabili in un organismo vivo.
La stessa logica ritroviamo nelle cose della vita: l’alba prepara il pieno giorno, la gestazione la nascita, il fidanzamento il matrimonio, lo studio la professione, l’allenamento la gara …
A dire il vero, ogni persona conosce il suo cenacolo, lo spazio per l’intimità e il raccoglimento, il tempo per il radicamento degli ideali per cui vivere. Non ci sono imprese autenticamente umane che non siano precedute dalla contemplazione. Come non c’è vera comunicazione senza il silenzio. Non possiamo lasciare questo Cenacolo senza avere imparato una virtù di cui non si parla mai – la virtù della solitudine (ben intesa) – una virtù disprezzata perché non conosciuta. Non si tratta della solitudine sofferta o della solitudine che è privazione degli affetti (queste solitudini vanno eliminate o sopportate, se necessario, per la propria crescita), ma di quella creata in noi dalla vita interiore e necessaria alla vita interiore. È la virtù che fa spazio, assicura condizioni, crea capacità di accoglienza, di accumulo e di custodia, come una conca con l’acqua, in cui essa sale pian piano e tracima. E di che cosa se non di amore? Solitudine per amore. Solitudine per l’amore. Solitudine piena d’amore, perché piena di Dio.
La diocesi sta vivendo in questo mese le celebrazioni delle Cresime. Anche la diocesi è un grande Cenacolo. Il vescovo, come gli apostoli, stende le mani e compie il sacramento. I ragazzi completano così l’Iniziazione Cristiana; le famiglie si mobilitano, è un momento importante per loro (per qualcuno è occasione per un felice ritorno, che sia sempre una festa accogliente!); la parrocchia è in festa; i parroci e i catechisti sono pieni di trepidazione e di gioia. I ragazzi – come le volpi di Sansone – sono inviati ad incendiare d’amore i luoghi in cui vivono. Su tutta la diocesi scende la potenza del Signore con la ricchezza dei doni. Allora mi viene da domandare: “Ne siamo consapevoli?”. Davvero: «Un fiume e i suoi ruscelli rallegrano la città di Dio» (cfr. Sal 45). Riprendiamo entusiasmo da quanto accade?
Non cediamo alla tentazione delle lamentele. Il Signore è all’opera: «Io faccio una cosa nuova. Non ve ne accorgete?» (cfr. Is 43, 19).
Con questa fede-certezza si vive assai diversamente la responsabilità del discepolo “nella città degli uomini”. Si va in missione con un animo diverso, positivo: si va a raccontare l’incontro che ha cambiato la nostra vita; si va a riconoscere quanto lo Spirito va facendo prima e molto meglio di noi; si va per un ministero di consolazione. Viviamo tempi difficili. Ma quando mai i tempi sono stati facili? E’ certo che oggi c’è una cultura, un’antropologia, un modo di pensare l’uomo, che sono radicalmente cambiati, che fanno sentire diversamente il rapporto con Dio e le cose dell’anima. La tentazione è quella di rinchiudersi, di viaggiare per nostro conto (è come se i binari del nostro treno fossero convenzionati con altre misure rispetto ai binari del mondo). Allora è facile cadere nella tentazione della strategia della fuga. Gesù invece ha preferito la strategia di ingresso: essere lievito nella pasta, sale sciolto nell’acqua.
Nella nostra Chiesa diocesana vi sono molte associazioni, gruppi e movimenti. Una ricchezza formidabile. Non diremo mai grazie abbastanza. Associazioni, gruppi e movimenti nelle parrocchie, oppure, se si tratta di aggregazioni d’ambiente, accanto alle parrocchie, mai alternative o contro. Associazioni, gruppi e movimenti che hanno il grande pregio di favorire la formazione, con le loro tappe, le verifiche, la comunicazione aperta, lo scambio di esperienze, la vitalità, tutti in relazione tra loro, non in concorrenza. Tutti fedeli al carisma ispiratore, alla propria genialità. Carisma significa dono di Dio per l’utilità di tutti. I carismi appartengono allo Spirito e per questo vanno sottoposti al discernimento della Chiesa.
Vorrei dire grazie in particolare a tutti voi qui presenti, per quello che fate e per quello che siete, per la prossimità che, come laici, sapete esprimere a noi sacerdoti. Insieme al grazie, ripetiamo ora, insieme, il nostro “eccomi”!

Omelia Ascensione del Signore

Carpegna, 1 giugno 2014
At 1,1-11
Sal 46
Ef 1,17-23
Mt 28,16-20

Per tutti è una giornata straordinaria. E’ il giorno dell’Ascensione di Gesù al Cielo.
Gesù, il figlio di Maria e – come si riteneva – del carpentiere di Nazaret è il figlio di Dio fatto uomo. Con l’Ascensione si fa manifesta la sua duplice natura umana – divina. Gesù – come dice la formula di fede che proclamiamo ogni domenica – ora «siede alla destra del Padre». «Mediatore fra Dio e gli uomini – così recita il prefazio – giudice del mondo e Signore dell’universo, non si è separato dalla nostra condizione umana, ma ci ha preceduti nella dimora eterna, per darci la serena fiducia che dove è lui, capo e primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria». Gesù porta in Cielo la nostra umanità, la nostra umanità viene divinizzata. E tutto ciò che fu del nostro Redentore passa nei segni sacramentali (S. Leone Magno). Così il Signore Gesù ci fa suoi per sempre.
Con i sacramenti dell’iniziazione cristiana questi ragazzi toccano con mano il suo amore. Gesù li chiama a seguirlo da persone consapevoli. Ora si accingono a rispondere «sì»; ma non sarà sempre facile essere fedeli. Al fonte battesimale sono state dette su di loro le stesse parole pronunciate su Gesù dal Padre: «Tu sei il Figlio mio»… «tu sei l’amato»… «tu sei motivo della mia gioia». Che cosa c’è di più consolante che avere un Dio per papà? Che cosa c’è di più emozionante che sapersi da lui amati immensamente? E aggiungo: essere motivo della sua gioia!
Lo Spirito Santo scenderà su di loro come profumo (crisma), farà prendere a loro la forma di Gesù e sarà loro forza e loro luce. Potranno contare su di lui nei momenti difficili e nei momenti delle scelte: li assisterà.

Ho parlato del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo; è il mistero di Dio Trinità d’Amore. Concetti difficili? Non sono concetti, ma il volto stesso di Dio come ce lo ha presentato Gesù. Dio è amore, relazione di persone; persone che non vivono per sé, ma l’una per l’altra. Quando facciamo il segno della croce e la mano sfiora prima il capo e poi il cuore e le spalle: non facciamo altro che riconoscere che siamo partecipi della vita dei «Tre»; i «Tre» si amano tanto da essere «Uno», e noi «uno» con loro per grazia, perché avvolti dal loro Amore. La vita cristiana non è altro che stare in Gesù, rivolti verso il Padre con quell’infinita fiducia e quell’infinito abbandono che lo Spirito Santo mette in noi. Sono solito dire che il Padre è l’Amante, il Figlio è l’Amato, lo Spirito Santo il Bacio! Sarebbe bello ricordarsi, ogni mattina, che ci siamo svegliati con il Bacio di Dio!

Cose troppo grandi? Eppure Gesù le ha insegnate proprio per noi. Sono la verità della nostra vita e segnano la qualità e lo stile dei nostri rapporti. Alla fine ci verrà chiesto se avremo vissuto sulla terra come si vive in Cielo. La famiglia, lo studio, il lavoro, i vicini di casa… non sono altro che terra da trasformare in Cielo.
Bisogna cominciare subito con la forza dello Spirito Santo.
Intanto viviamo il momento presente con amore e dedizione. Facciamo comunione eucaristica; facciamo comunione con la Parola del Vangelo. Teniamo i contatti con la parrocchia, Chiesa viva e vicina. Se ti sembra di non trovarvi sempre amore, dico: «mettilo tu»!

Omelia alle esequie di Luca Fantini

Chiesa di Serravalle, maggio 2014

Lam 3, 17-26

Sal 129

Gv 14, 1-6

Cari fratelli, care sorelle,

queste parole prese dal libro delle Lamentazioni sembrano scritte proprio per noi: «Il ricordo del mio vagare e della mia miseria è come assenzio e veleno. Ben se ne ricorda la mia anima» (Lam 3,19).

Sulla rupe di Pennabilli c’è una pianta di assenzio. Ho provato a stringerne tra le dita alcune foglioline; ho portato alla bocca le dita: l’assenzio è amarissimo!

«E’ scomparsa la mia gioia, la speranza che mi veniva dal Signore» (Lam 3,18).

Il dolore va rispettato. Non giovano le frasi fatte. Sono di troppo anche le parole. E dal dolore non si scappa. Hai due possibilità: vivere il dolore con Gesù o viverlo senza. La vita può essere interpretata come vagabondaggio o come pellegrinaggio. La differenza sta nella meta. Vagabondo è chi non ha meta, pellegrino chi ha meta. La scelta della famiglia di Luca di celebrare qui, nella chiesa parrocchiale, l’ultimo saluto è una conferma che abbiamo scelto di essere pellegrini: abbiamo una meta. Le parole di Gesù lo dicono esplicitamente: “Io vado a prepararvi un posto; quando sarò andato e vi avrò preparato un posto vi prenderò con me (Gv 14, 2-3).

Negli anni del seminario – permettete questo ricordo – a ciascuno di noi studenti, veniva assegnato un posto: un posto in cappella, in refettorio, a scuola, in studio e persino nella fila. Gli educatori, di tanto in tanto, cambiavano il posto: era sempre un avvenimento con sorprese. L’unica eccezione era prevista per il sabato sera, quando nel teatro, si assisteva alla proiezione del film. Non c’erano posti assegnati. Erano liberi. Ricordo la gioia quando qualcuno dei compagni mi teneva il posto. Mi capitava di sentire: «E’ occupato per Turazzi!» (si usava chiamare col cognome). E’ ormai un lontano ricordo, ma mi serve per descrivere l’effetto che provo nel rileggere le parole rassicuranti di Gesù: Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… vado a prepararvi un posto… Ce n’è uno che Gesù riserva anche per Luca: «Occupato per Luca»!

Una terribile disgrazia l’ha portato via lasciando tra noi un vuoto incolmabile. Anche al tempo di Gesù vi fu una disgrazia (cfr. Lc 13, 1-5): diciotto galilei furono coinvolti nel crollo di una torre a Siloe. Il fatto venne riferito a Gesù, con il tono della provocazione: di chi la colpa? Gesù smascherò la duplice insidia: il giudizio su quei diciotto, il giudizio su Dio che ha permesso la disgrazia. Né l’una né l’altra interpretazione era giusta secondo Gesù. «Credete che quei 18 fossero i più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No…» e Gesù continuò con un forte invito alla conversione. Viene in mente un passaggio di un celebre romanzo: «Quando senti i rintocchi di una campana a morto, non chiederti per chi suona la campana. Suona per te!»

Preghiamo per Luca.

Preghiamo perché il mistero della sua morte non sia inutile.

Lo uniamo al sacrificio di Gesù morto ancora giovane sulla croce per la nostra redenzione. Lo facciamo nostro condividendo il dolore dei suoi cari e accettando di bere qualche goccia almeno di questo calice amaro. Lo sentiamo come appello che invita a considerare il grande valore della vita e la preziosità della giovinezza. Un appello rivolto specialmente ai giovani qui presenti.

«Questo intendo richiamare alla mia mente; e per questo voglio riprendere speranza. Le misericordie del Signore non sono finite, non è esaurita la nostra compassione, esse sono rinnovate ogni mattina» (Lam 3, 21-23).

 

Quinta Domenica di Pasqua Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

17 maggio 2014

Chiesa di Murata
GMG diocesana

At 6, 1-7
Sal 32
1 Pt 2, 4-9
Gv 14, 1-12

«Dove sono io, siate anche voi» (cfr. Gv 14, 3).

«Signore, mostrami il tuo volto». Cari ragazzi, a chi non è venuto in mente di rivolgere questa domanda? Ogni giovane, credente e non, cerca quel volto e lo pensa come luogo della sua salvezza: «Illustra faciem tuam, et salvi erimus»! (Sal 80). Quel volto darebbe senso alla vita, slancio ai percorsi, forza ai progetti più arditi. Filippo, l’apostolo, ha lasciato tutto per seguire Gesù, il Gesù che ora sembra incamminato verso una grande sconfitta…per questo chiede: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (cfr. Gv 14,8).
La domanda di Filippo ricorda quella di Mosè. Anche Mosè ha intrapreso un cammino rischioso e discusso dai suoi stessi compagni di viaggio. A Mosè Dio dice: «Tu non potrai vedere il mio volto, perché nessun uomo può vedermi e restare vivo. Ecco un luogo vicino a me. Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere» (cfr. Es 33, 20-33). Invece a Filippo viene data una risposta. Gesù dice che è giunto il momento in cui il volto di Dio può essere visto: «Guarda me! Chi vede me, vede il Padre». Il volto di Gesù di Nazaret, volto del figlio del falegname, del figlio di Maria, è volto di Dio. Per vedere Dio non c’è altra strada che seguire Gesù, il Cristo. Ma è soprattutto ai piedi della croce che i discepoli contempleranno il loro Signore: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (cfr. Zac 12,10).
«Perché – si chiedeva un grande maestro spirituale (San Giovanni della Croce) – un tempo Dio si manifestava con visioni e sogni ed ora non più?». Rispondeva così: «In Gesù crocifisso e risorto Dio ha detto tutto. Non c’è altro da aggiungere». Inchiodato sulla croce Gesù ha mostrato tutto l’amore di Dio. Gesù crocifisso e risorto è la via per andare a Dio.
E’ inutile sprecare energie pensando di farcela da soli. Il Padre ci viene incontro, viene fino a noi, donandoci il suo Figlio. Ci sono momenti di prova. Mi rivolgo specialmente a chi, in questo momento, è in un periodo di crisi, di difficoltà, di ricerca. Mi rivolgo a chi si trova ad una svolta importante, a chi soffre di nostalgia e ha bisogno di quel “volto” per avanzare.
Gesù dice: «Dove sono io, siate anche voi». E’ come se dicesse: mettiti con me! Io non ti tolgo nulla, ti do tutto… non aver paura.
Dove sei Signore? Dove ti nascondi? Gesù risponde: «A chi mi ama, mi manifesterò». Come amarti se non ti vedo? Sentite:
«Avevo fame e mi hai dato da mangiare; avevo sete e mi hai dato da bere; ero forestiero e mi hai accolto, ero ammalato e mi hai curato…» (cfr. Mt 25,35). Ecco dove sei Signore, ecco dov’è la tua carne.

C’è una beatitudine che sintetizza e riassume le altre nove: «Beato, se metterai in pratica…» (cfr. Gv 13, 17), cioè se amerai concretamente – passi l’espressione – se amerai “con i muscoli”! Con i muscoli dell’anima: è la progressione interiore; con i muscoli del corpo: nel servizio; con i muscoli della mente: l’esercizio della dimenticanza di sé (mettere l’altro davanti a sé). Cari ragazzi, Francesco d’Assisi, pregava così: «Maestro, fa’ ch’io non cerchi tanto di essere consolato, quanto di consolare; di essere compreso, quanto di comprendere; di essere amato, quanto di amare».
«A chi mi ama, mi manifesterò». Permettete una metafora un po’ sbarazzina: «Pedala! La dinamo farà luce». Più ami, più vedrai!
Vale anche per chi fa fatica a credere, per chi è in ricerca… come l’apostolo Tommaso.
Riprendiamo la domanda: «Dove sei Signore?»…
Oggi c’è la tendenza ad esibire tutto, c’è la pretesa di una trasparenza totale in politica, nella finanza, perfino nella famiglia, nella coppia. La riservatezza viene giudicata con sospetto. Nell’era di Facebook e dei social network il confine tra vita privata e vita pubblica è diventato esile, perfino inesistente… La prepotenza delle immagini e dei suoni fanno dell’anima un mercato!
C’è posto per un piccolo angolo di giardino segreto dove poter prendersi cura dell’anima? Il giardino segreto è la sede dei pensieri più intimi, dei desideri profondi, dei sogni più coraggiosi. E’ qualcosa di vitale! La custodia di questo giardino è indispensabile per la nostra vita. E’ una sorgente viva che domanda d’essere alimentata. I sentimenti, la natura, le letture, la contemplazione, nutrono e vivificano l’interiorità. Anche le prove… configurano i confini di questo spazio interiore, condizione di un dialogo profondo con Dio nella preghiera. Non è intimismo, ma la responsabilità per la nostra vita interiore. La gioia che si espande da questo giardino è, per gli altri, il segno che è accaduto un incontro. Cari ragazzi, vi faccio due proposte: sceglietevi una guida spirituale che vi ascolti, vi aiuti a mettere in ordine i pensieri, vi incoraggi nel cammino di fede. L’altra proposta è la seguente: dedicate ogni giorno dieci minuti alla lettura del Vangelo. Lasciate inzuppare la vostra giornata dalle parole di Gesù.
Nelle prime pagine della Bibbia, si legge che Dio, sul far della sera, scende nel giardino a cercare Adamo ed Eva ed è lui che fa la domanda all’uomo: «Dove sei?». Il fruscio delle pagine sfogliate è il rumore dei passi di Dio nel nostro giardino segreto.
«Dove sei tu, Signore, ci sono anch’io».

 

Agli studenti, agli insegnanti e ai genitori che partecipano all’incontro con papa Francesco

Carissime, carissimi,

siete in partenza per incontrare papa Francesco, un punto di riferimento per tanti, giovani e adulti, credenti e non credenti. Sarà una coloratissima festa nella quale incontrerete tanti amici per dire che “siamo tutti per la scuola e la scuola è per tutti”. Portate con voi idealmente gli amici e i colleghi che non possono essere presenti. E auguro che sappiate riportare a casa una carica di speranza e di entusiasmo.
A volte, con troppa superficialità, si delega l’impegno educativo alla scuola senza rendersi conto che la scuola ha bisogno della simpatia e della partecipazione di tutti nel rispetto dei ruoli di ciascuno. Talvolta è stata la scuola a presumere di poter fare da sola riuscendo perfino a fare soggezione.
Consentitemi di confidarvi la scuola che vorrei. Riassumo con cinque parole.
 
Accoglienza.
Vorrei una scuola in cui ci sente accolti per quello che si è e in cui si impara ad accogliere gli altri; un luogo nel quale ognuno si senta valorizzato come “persona”, al di là delle performance, dove non si conta per i voti, ma per quello che si è.
 
Incontro.
Sogno una scuola capace di mettere in luce le risorse di ciascuno e di riconoscere e di rispettare i diritti dei più deboli; un luogo dove si valorizzano le diversità. Una esperienza nella quale si prova lo stupore e l’incanto della bellezza, perfino da una formula di matematica come nei versi di una lirica o nei colori di un’opera d’arte.
Come la scintilla che brilla nell’incontro di due pietre così la verità si manifesta sullo sfondo di un incontro.
 
Scoperta.
Auspico una scuola in cui si scoprano i propri talenti e la ricchezza racchiusa in ogni cuore e in ogni intelligenza; uno spazio educativo dove la luce e il clima che si respira fa sbocciare e dischiudere i germi presenti in ogni persona.
 
Impegno.
Immagino che ognuno vada a scuola consapevole di fare una scelta libera di impegno nella convinzione che il sacrificio è un investimento per il futuro. Le materie si chiamano anche discipline perché esigono impegno e rigore. In tempi in cui i saperi cambiano e si evolvono al ritmo della velocità della luce, si fa attenzione non solo ai contenuti e ai percorsi didattici delle singole materie, ma ad affrontare le sfide della vita, alla capacità di riflessione, al pensiero critico.
 
Cittadinanza.
Auguro alla scuola di essere un luogo in cui si impara a diventare cittadini, ad approfondire le ragioni della convivenza e la convivenza delle ragioni; dunque una scuola inclusiva, laboratorio di reciprocità. Una scuola dove si imparte l’educazione al bene comune senza tralasciare percorsi educativi sull’affettività e sull’interiorità.
Chi è cristiano sta volentieri nella scuola come lievito nella pasta e sa testimoniare le ragioni della sua fede.
 
Cari amici, mi rendo conto che, in questo periodo della vita scolastica nel quale studenti, insegnanti e genitori hanno i nervi a fior di pelle per le imminenti scadenze di fine anno, i pensieri che ho formulato possono sembrare piuttosto “ideali”. Ma è il momento giusto perché ognuno scopra le sue carte per fare più bella la scuola.
Buon viaggio a chi va e a tutti l’augurio di una esperienza scolastica sempre migliore.
 
Con simpatia
il vostro vescovo
+ Andrea

Omelia Messa di Pasqua

20 aprile 2014, Cattedrale di San Leo

Lasciarci amare. Lasciarci salvare. Lasciarci trasformare.

Di trasformazione in trasformazione: miracolo della risurrezione di Cristo, potenza di Dio che “ricostruisce ciò che è distrutto, rinnova ciò che è invecchiato e fa tornare tutto alla sua integrità, per mezzo del Cristo che è principio di tutte le cose” (orazione nella Veglia Pasquale).

Trasformazione che è da intendere come splendore e compimento dell’origine, promessa e alleanza mantenuta – dal diluvio in poi nessun annullamento o tradimento di ciò che esisteva.

La trasfigurazione di Gesù sul monte è il paradigma della trasformazione pasquale. Ne abbiamo contemplato gli aspetti mistici e sacramentali nel corso della Veglia Pasquale.

Da schiavi a liberi, come nella notte dell’Esodo, dietro alla colonna di fuoco, il cero pasquale. Da cuori di pietra a cuori di carne, il percorso su cui c’ha condotto la lettura della storia della Salvezza dalla creazione alla redenzione. Da una amara condizione di morituri alla destinazione di una vita indefettibile ed eterna, in virtù del battesimo che in noi svela e fa rivivere il germe di immortalità di figli di Dio. Dalla lontananza alla stupefacente prossimità, quasi una immanenza di noi in Cristo e di Lui in noi, in virtù della comunione eucaristica, sua presenza reale, sostanziale, vera nel dono di un dono spezzato.

Dalla dispersione all’essere Chiesa, suo corpo e sua presenza nel mondo: il congedo proclamato dal diacono tra gli alleluia al termine della liturgia pasquale è un invio. Cristo cede a noi il suo stesso donarsi, cioè si dona attraverso il nostro donarci.

Di trasformazione in trasformazione, di splendore in splendore: chiamati a libertà perché restiamo liberi; fatti di cielo perché non restiamo come perle prigioniere nella conchiglia; perché Cristo viva in noi; perché non siamo più spaventati dalla morte, ma guardiamo il futuro con la speranza; per essere Chiesa, suo popolo.

La novità con la risurrezione è entrata in circolo e rinnova le fatiscenti strutture del vecchio mondo. E’ la vera modernità.

Trasformazione da intendere bene. Non è trasformazione, ma tradimento semmai, quando il Vangelo non viene sviluppato secondo la sua vitalità o le sue esigenze, ma viene piegato alle nostre pretese e alla nostra misura. Non è sviluppo la verità della fede quando si tramuta in un’altra (cfr. Commonitorium di Vincenzo di Lerin).

Non è trasformazione, ma tradimento quando il progetto originario sulla famiglia, fondato sull’amore e sulla comunione di vita e d’amore fra un uomo e una donna – fondamento del vivere sociale – diventa unione fra persone dello stesso sesso; non è più matrimonio ma altro.

Non è trasformazione, ma sfruttamento, quando la natura che è stata affidata alla nostra custodia viene manipolata, inquinata, spremuta per il nostro egoismo.

Buona Pasqua! Ma soprattutto una Pasqua Buona. La nostra risurrezione sarà trasformazione di tutto il nostro essere senza perdita di identità: nuovi della novità di Cristo Risorto.

OMELIA PER LA VEGLIA PASQUALE

Lasciarsi trasformare

20 aprile, Cattedrale di Pennabilli

 

Lasciarsi amare.

Lasciarsi amare da un Dio che s’è fatto vicino, perché perdutamente innamorato (non c’è altro motivo); un Dio che si piega a lavare i piedi alla sua creatura. E’ un’esigenza del suo amore intrattenersi in una relazione d’amore con noi, come sposo dolcissimo.

Lasciarsi salvare.

Lasciarsi salvare: sappiamo tutti quanto è corto il nostro fiato, quanto in salita la strada, quanto buio l’orizzonte, quanto ardua l’impresa dell’esistenza. Lui non umilia, non interviene dall’alto; condivide la nostra condizione, si mette, anzi, al disotto di noi, dalla più scomoda delle posizioni, quella dell’innocente condannato a morte. Si passa da morte a vita quando si ama (cfr. 1 Gv, 3-14): ecco il segreto, la formula che ci salva. Non il dolore, ma l’amore: il suo.

Lasciarsi trasformare.

Lasciarsi trasformare: Cristo ci vuole come altrettanti “Lui”. Come Lui amanti. Come Lui amanti salvati e salvatori a nostra volta. In questa notte abbiamo vissuto l’esodo, in cammino dietro una colonna di fuoco (il cero pasquale). Ecco la prima trasformazione: non più schiavi, ma liberi.

Abbiamo ascoltato squarci di storia della salvezza; quella storia ci racconta che siamo stati creati a sua immagine, immagine indistruttibile anche se deturpata dall’infedeltà, ma poi resa ancor più splendente. E’ la seconda trasformazione: cuori di pietra in cuori di carne, perché appaia che siamo fatti di cielo.

L’annuncio della resurrezione di Gesù ci assicura che anche per noi c’è un destino di “vita per sempre”. Cristo è risorto! Noi siamo risorti con lui! L’acqua del Battesimo – che tra poco scorrerà abbondante da questo tempio – significa morte e vita. Le tre immersioni nell’acqua battesimale significano i tre giorni di Cristo nel sepolcro e poi lo splendore del terzo giorno: la resurrezione. E’ la terza trasformazione: da morituri a immortali! Evviva il Battesimo di cui in questa notte rinnoviamo le promesse.

Ancora un passaggio, un passaggio inebriante: “Prendimi, mangiami. Sono risorto e sono sempre con te. Mangiami: io in te, tu in me, in reciproca immanenza. Ma non sei tu a trasformarmi. Io ti trasformo in me”. E’ una quarta trasformazione: noi in lui, per il corpo di cui ci siamo nutriti.

Il diacono ci congeda e ci riconsegna alla nostra responsabilità di vivere nel mondo: «la messa è finita andate in pace». Un congedo accompagnato da festosi, perentori «alleluia». La liturgia è terminata; inizia la nostra messa nella vita. Il diacono ci ricorda che il donarsi di Gesù, il suo perdersi per amore, è ceduto a noi. Il Signore ci dona il suo donarsi, perde il suo perdersi. E’ la quinta trasformazione. Ci trasforma in sua Chiesa, suo corpo per la salvezza del mondo.

Trasformazioni mistiche? Ma la vita cristiana non è etica, prima di tutto è mistica.

Pasqua 2014 Messaggio di auguri di Mons. Turazzi alla Diocesi

Auguri a tutti di una buona Pasqua.
Auguro un momento di serenità pieno di sole per tutte le famiglie. Incoraggio le iniziative di solidarietà che so essere numerose in questi giorni. La Pasqua è anche una pausa opportuna per chi lavora o studia.
Un augurio che rivolgo anche a chi non conosce il contenuto di questa festività o è di altra convinzione o di altra cultura. Siamo invitati ad allargare lo sguardo sul mondo per invocare pace, ad alimentare progetti di fraternità universale e a metterci in cuore la forza della speranza.
Auguro che la Pasqua sia buona, cioè non resti soltanto una metafora di ciò che rinasce, sboccia o si rinnova…
Auguro sia per tutti l’incontro con il festeggiato: la persona viva del Cristo Risorto. In molte comunità si rievoca la Passione o si percorre la “Via Crucis”. Arriva fino a noi il suo messaggio: “Guarda se in me vedi altro che amore”. Dunque lasciarsi amare. Lasciarlo amare. Promette e mantiene pienezza di senso e di gioia per la nostra vita reale. Nessuno si sottragga pensando d’essere inadeguato o lontano o incapace di corrispondere. Via ogni ritrosia.
Abbiamo una sete profonda di amore. Cristo colma questa voragine. A volte ci accontentiamo di poco (talvolta di qualche goccia di piacere) e ci lasciamo corteggiare da chi offre molto meno; ci blandisce e poi ci delude e ci lascia vuoti. Aggiungo: lasciamoci salvare. Cristo ha coscienza – ce lo confermano i Vangeli – di essere Re, un re di cuori, e di avere una regalità superiore, universale, inarrestabile. Una regalità che significa “prendersi cura”, un voler salvare, salvare spiritualmente, salvare tutti, salvare ad ogni costo…
Da soli – riconosciamolo – non sappiamo e non possiamo salvarci. Dobbiamo avere il coraggio e la sincerità di dichiarare il fallimento di tanti tentativi e la sterilità dei nostri piani che finiscono per avvilire il nostro stato d’anima. Riconosciamo il nostro peccato di superbia e la superbia del nostro peccato. Da esso, o da essa, non riusciremo ad evadere, non riusciremo a sollevarci. Abbiamo bisogno di qualcuno più forte di noi.
Lasciarci amare, lasciarci salvare… e, vorrei aggiungere per essere completo, lasciarci trasformare.
La resurrezione non riguarda solo l’esistenza storica di Cristo, ma è potenza di Dio che – come raggio di luce – trasfigura ogni cosa e la vivifica. Prepara la trasformazione del nostro essere caduco in eternità di vita. Dà senso alla nostra vita e gusto ad ogni nostra azione; da subito! La crisalide che diviene farfalla è solo una pallida immagine dell’energia che promana dalla risurrezione. Questa “notizia” è stata affidata da Gesù ai suoi discepoli, ai discepoli di allora e di adesso. Auguro sappiamo essere autentici e gioiosi testimoni della Pasqua di Gesù.

Pennabilli, 19 Aprile 2014

Omelia alle esequie di Milena Sabba

Sant’Agata Feltria, 10 aprile 2014 

Cari genitori, cara sorella di Milena,

tutti i presenti – sono tantissimi – piccoli e grandi, se fosse possibile, vorrebbero stringervi forte forte per dirvi tutto il loro affetto e la loro vicinanza. Anch’io lo voglio… Nessuno può prendere il posto di Milena nella vostra casa e nel vostro cuore. Avete bisogno di consolazione, ma ne abbiamo bisogno anche noi. Tutta Sant’Agata Feltria è coinvolta. Io sono qui per dire, come l’apostolo Pietro, «Signore da chi andremo? Solo tu hai parole di vita» (Gv 6, 68).

Quel giorno alle porte della cittadina di Nain – ce ne fa un resoconto l’evangelista Luca – avvenne un incontro straordinario. Un gruppo di persone stava abbandonando la città: era un corteo mesto che accompagnava un ragazzo a sepoltura; accanto a lui una mamma in lacrime. La città, di per sé, è simbolo di vita: case, piazze e vicoli, fontane, negozi, vociare di bambini, rumore e ronzio di mestieri… come in un alveare.

Quel grappolo di gente esce dalla città, lasciandosi alle spalle la vita; è incamminata verso la morte. Ma sulla soglia ecco l’incontro inatteso. Sta salendo verso la città un altro drappello: è Gesù coi suoi amici. L’incontro ha sempre qualcosa di sorprendente. Ma questo è speciale. Qualcuno potrebbe pensare che è casuale: se il corteo fosse partito un’ora più tardi, se Gesù fosse salito prima… Allora si potrebbe ridurre ogni “incontro” a casualità. Ma l’incontro è reale, accade. E’ un dono! Sulla soglia, all’ingresso della città di Nain, è stato così: sguardi, compassione, intraprendente tenerezza di Gesù, il suo farsi vicino. Il corteo si ferma. E poi la parola dolcissima di Gesù alla mamma: “Non piangere”. Lui ha potuto dirla in verità. Anche noi stiamo vivendo un incontro reale con Gesù; sulla soglia di questa chiesa sentiamo la sua Parola e sperimentiamo la sua tenerezza che conforta e che ci parla di un’altra città, di altre strade e piazze, di un’altra vita, di una vita piena, felice. Una vita con lui.

Sì, Signore, crediamo! La liturgia non conosce lacrime, conosce solo lacrime asciugate.

Omelia Messa in Coena Domini

17 aprile 2014
Cattedrale di Pennabilli,

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15
Lasciarsi amare .
C’è un diverbio, subito appianato, fra Pietro e Gesù: «Signore, tu lavi i piedi a me?…Non mi laverai mai i piedi». E Gesù, perentoriamente: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». Il gesto di Gesù è un gesto d’amore. «Dopo aver amato i suoi, li amò sino alla fine». L’ora suprema della manifestazione di questo amore è giunta.
Gesù deve amare. E l’inizio di questo culmine è appunto la lavanda dei piedi. Gesù sente in sé la spinta travolgente di questo sentimento, la necessità incontenibile di questa donazione e l’urgenza che questa donazione gli pone nel cuore. Ma Pietro non capisce. Pietro non capisce che Gesù è così e, senza volerlo, non capisce se stesso.
Lasciarsi amare. Perché? C’è anche in noi una strana ritrosia. Forse per falso pudore (o per falsa umiltà) di non meritare quell’attenzione. Forse per timore di un equivoco, uno scambio di persona: proprio io, Signore? Forse perché quella sua dichiarazione d’amore appare troppo impegnativa: troppo difficile corrispondere all’amore?
“Pietro, lasciati amare”. Ma vale per tutti noi questo invito. Riconosciamo in noi la necessità di essere amati. Arrendiamoci. Dio ha posto in noi una sete infinita d’amore. E’ un desiderio che solo lui può colmare. La parola stessa – desiderio – fa riferimento etimologicamente, al nostro provenire da lui, dalla “stella”, e siamo inquieti e in tensione fino a che ci ricongiungiamo con la nostra origine. Lasciamoci amare: bisogna che Qualcuno – l’Amore – ci venga incontro. Ci sono indispensabili la sua luce e il suo calore per sbocciare.
Lasciarsi amare per capirsi e guadagnare una conoscenza vera di sé. Se un Dio ti ama vuol dire che sei amabile, non sei uno scarto. Sei creatura, ma fatta di cielo, fatta per il tuo Creatore, predisposta per entrare in comunione con lui. «Riconosci la tua dignità» e la tua grandezza. A volte ti accontenti di troppo poco e ti lasci corteggiare da chi ti offre molto meno; ti blandisce e poi ti delude e ti lascia vuoto. La relazione mette in evidenza la tua verità fatta di grandezza, ma fatta anche di meschinità, e in un gioco d’amore anche questa serve.
Lasciarti amare perché, nella dinamica dell’amore, l’iniziativa di Gesù è decisiva perché ti accende di ardore. A tua volta allora ami e la tua condizione di amante consente, a chi per primo ti ha amato, di amarti ancora di più. Dio ama per amare! (cfr. SANT’AGOSTINO, Contra Julianum). Ed è solo l’inizio di una spirale d’amore senza fine. Questa sera egli vuol lavare i piedi a te. Cogli l’invito. Non sottrarti. Lascialo fare.
Sai cosa ti dice?
«Vedi se in me trovi altro che amore» (cfr. Beata Angela da Foligno). Egli si propone, si offre e poi si impone, si fa irruente e irrompe nel cuore, ricorrendo ad ogni mezzo pur di amare: non gli è bastato crearti e redimerti, vuole santificarti. Lascialo amare!

 

[1] cfr. Omelia di Mons. Luigi Maverna, 1989