XVI Domenica del Tempo Ordinario

Molino di Bascio

Omelia del Vescovo S.E. Mons. Andrea Turazzi

Sap 12, 13.16-19

Sal 85

Rm 8, 26-27

Mt 13, 24-43

 

 

Buon grano tra erbe cattive, minuscoli granelli di senape perduti tra zolle, pizzico di lievito in un mucchio di farina: immagini per curare la nostra impaziente sfiducia. Ognuno provi a pensare quando e in quali situazioni è sfiduciato o impaziente: il Vangelo gli darà risposte. Gesù, attraverso la parabola del buon grano e della zizzania, ha voluto anzitutto confidarci come lui sa stare nella complessità e nella “complessità più complessa” che è quella dei rapporti. Può darsi che Gesù abbia tratto l’ispirazione da un banale episodio di gelosia fra contadini. O, più verosimilmente, dall’insoddisfazione di qualcuno dei discepoli. Da sempre gli uomini sono tra bontà e cattiveria, gioia e lacrime, riuscita e fallimento, giustizia e iniquità, bellezza e sporcizia, amore e odio, pace e guerra. Quella realtà piccola, nascosta, sproporzionata – come una goccia d’acqua nel deserto o una barchetta nel Pacifico – ma carica di forza e di amore, è Gesù stesso, radicatosi nella storia e incarnato tra noi; un uomo fra miliardi di uomini. Gesù non teme la storia e le sue contraddizioni. Non ha paura di sedere a mensa con i peccatori. Non si defila dai cammini di croce. Così vuole i suoi discepoli. Siamo nel punto focale della parabola: il contrasto fra il modo di reagire dei servi e quello del padrone di fronte a grano e zizzania. I servi propongono di sradicare subito il male; il padrone lascia che il bene ed il male crescano insieme. Solo alla fine il bene trionferà, ma dovrà farsi strada nella libertà. Il metodo dei servi esprime – come scrivono gli esegeti – l’impazienza messianica dei giusti. Essi pretendono che subito, già ora nella sua fase terrestre, il Regno di Dio sia una comunità di perfetti, separata dai peccatori, ben arroccata nella cittadella dei buoni (F. Forini). Costoro non vedendo sfolgoranti e rapidi trionfi del Regno, ma solo i suoi umili inizi e le sue modeste performance, sono tentati di gridare al fallimento. Gesù replica con le miniparabole del granello di senape e del pizzico di lievito: il Regno di Dio diventerà albero e fermento per tutta la pasta. Insegna loro che un chicco di frumento è più forte di un intero campo di zizzania. Ma questo non dipenderà dagli sforzi umani. A Dio bastano mezzi minimi, compresa la nostra pochezza, per realizzare i suoi grandi disegni. Impariamo la lezione: non lasciamoci paralizzare dalla inapparenza della presenza cristiana nella storia e nella società, non perdiamo la mentalità del lievito e del granello di senape, confidando troppo sui nostri numeri! Vietato ripiegarsi su di sé coi soliti lamenti. Vietato contrabbandare per esigenze del Regno le astuzie e i criteri mondani di giudizio.

Se la parabola della zizzania spiega il perché Gesù tollera i peccatori, la rilettura che ci offre Matteo, dandocene una spiegazione, stimola noi peccatori a darci da fare e ad uscire dalla nostra ignavia.

 

XV Domenica del Tempo Ordinario

Monteboaggine, Chiesa di San Giovanni Battista,
Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Is 55,10-11
Sal 64
Rm 8,18-23
Mt 13,1-23

C’è chi mi ricorda che il Signore è giusto giudice e mi precisa che il Signore sfodererà la sua falce per mietere nel suo campo. Lo so. Ma resto folgorato, piuttosto, da questo versetto di Vangelo: Il seminatore uscì a seminare. Un’immagine di Dio che precede tutte le altre, che sta all’inizio di ogni inizio “che vibra di gioia e di profezia, colma di promesse, di buon pane e di fame saziata” (E. Ronchi). Ancora adesso Dio esce a seminare e a diffondere i suoi germi di vita. A piene mani. Dio è seminatore; la sua mano dona largamente; la sua forza incoraggia (cfr. Sal 112, 9); è aurora di ogni giorno, il «la» di ogni canto. Il mondo è gravido di lui. Qualcosa di Dio palpita in ogni fibra della creazione. I semi del Verbo sono presenti in ogni cultura.
Vedo, in questo, il primo tratto che descrive la Regalità di Dio come seminagione straripante, generosa, senza calcoli. Per la nostra logica angusta questo strano modo di fare può apparire come spreco, imprudente assenza di pianificazione. Egli semina su strade, pietraie, siepi e terra buona. Quale agricoltore si permetterebbe di sciupare così i tre quarti della sua semente? Ma Gesù non sta tenendo un corso di agronomia. Parla in parabole – questa è la prima di sette che leggeremo in queste domeniche di luglio – per svelare i segreti del Regno.
Io sono strada, pietra, siepe e terra buona. La mia città è strada, pietra, siepe e terra buona. Il mio tempo è strada, pietra, siepe e terra buona.
Il Seminatore non si arrende. Non s’attarda a considerare le zone refrattarie. Semina ancora con fiducia: offre altre chance.
Qualche pagina più sopra (cfr. Mt 9, 35-38), Matteo racconta la commozione di Gesù davanti alla sofferenza dell’umanità e il suo invito a chiedere al Padre rinforzi per l’impresa salvatrice: «operai per la sua messe». Per descrivere la situazione, che potrebbe essere avvilente, Gesù adopera per ben tre volte l’immagine della messe, immagine gioiosa, piena di canti e di sole. E’ una lezione importante per noi che non sappiamo alzare lo sguardo oltre le difficoltà del momento e l’arditezza delle sfide che ci attendono.
Non dimentichiamo la promessa di Gesù: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28, 20) e «vi manderò il mio Spirito per stare con voi sempre… lui parlerà in voi» (cfr. Gv 14, 15-18).
Allora pregherò così: Padre, venga il tuo Regno, ossia, fa che sappia farti spazio. Apri, Signore, i miei occhi perché possa vedere le tue impronte lungo le nostre strade sassose. Apri, Signore, le mie orecchie perché i tuoi appelli non siano soffocati dalle mille voci della foresta che mi cresce attorno. Apri, Signore, il mio cuore perché, come terra buona il tuo seme porti frutto. Un’ultima preghiera, Signore: che la tua Chiesa sia una Chiesa di seminatori. Seminatori pieni di fiducia e di coraggio, con questa parola d’ordine: «Ne vale la pena»!

 

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi XIV domenica del tempo ordinario

Chiesa Parrocchiale di Mercatale – Celebrazione Eucaristica 

6 giugno 2014

 I vangeli non ci riferiscono risate di Gesù, ma ci fanno comunque partecipi della sua gioia; così è nella pagina evangelica che ci accompagna questa settimana. L’evangelista Luca è ancora più esplicito di Matteo nel riferirci l’allegria di Gesù e nello svelarci, insieme al motivo, l’ispiratore segreto, lo Spirito Santo: In quell’istante Gesù esultò nello Spirito Santo e disse: Io ti rendo lode, o Padre, Signore del Cielo e della Terra … Questa non è l’unica circostanza: la gioia di  Gesù trapela nella sua presenza ai banchetti (ricordate a Cana? Non fece mancare il vino migliore), nell’abbraccio commosso riservato ai bambini contrastante la severità degli apostoli,  nei momenti di serena intimità con gli amici (a Betania gradirà il profumo di Maria). In questa pagina il motivo di gioia sta nel vedere come l’annuncio del Regno di Dio fa presa sui piccoli. Il Padre rivela loro cose belle ed inaudite. Egli dischiude un “sapere”  precluso alla superba presunzione degli pseudo intellettuali, un “sapere”di cui sono assetati i saggi di tutti i tempi, cose nelle quali i profeti hanno desiderato fissare lo sguardo. La scienza che il Padre dona a “questi piccoli” non è dunque frutto di una ricerca intellettualistica. Sboccia nell’anima che si pone dentro la relazione stessa che il Figlio Gesù ha con il Padre. Si usa talvolta nel linguaggio liturgico l’espressione «figli nel Figlio» che esprime in forma sintetica l’intima comunione con Cristo che il Battesimo produce in chi lo riceve. Per il dono della grazia battesimale il cristiano vive della stessa vita di Gesù; è divenuto infatti figlio del Padre, fratello di Cristo, tempio dello Spirito Santo e dunque – come scriveva Pietro ai primi cristiani – “partecipi della natura divina”. Dovremmo più spesso considerare la grandezza e sublimità della nostra vocazione e della nostra dignità e gioire dello splendore della grazia! Gioia indicibile che nessuno può toglierci, eccetto il peccato.

Se accetti di entrare e di diventare un “bambino evangelico”, cioè figlio, troverai il sapore di quel sapere; un sapore che condisce ogni cosa che fai.Gesù propone di entrare in una relazione viva, dinamica (qualcuno l’ha paragonata ad una danza!) la stessa che lui ha col Padre; una relazione a cui non sono estranee neppure le emozioni, il coinvolgimento affettivo e i passaggi tra oscurità e luce. Vita: vita filiale, vita umano-divina. Relazione con il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe; col Dio di Gesù, non il Dio dei filosofi (B. Pascal). Condizione unica e necessaria: accettare dunque di essere figlio, fino in fondo. In questi giorni di sole e di mare mi sovviene l’immagine di colui, che abbandonandosi quieto, sta a galla sulle onde, mentre chi si agita scomposto va a picco! Gesù non disprezza l’intelligenza, l’inquietudine della ricerca, il tumulto del desiderio, chiede, con l’intelligenza della fede, l’apertura del cuore. L’intelligenza, dunque, non resta fuori. Al contrario: quanti sentono il peso di una esistenza difficile, troveranno risposte e riposo. Troveranno il sapere che dà sapore!

Festa dei Santi Pietro e Paolo

Domenica 29.6.2014
Omelia di S. E. Mons. Andrea Turazzi
Chiesa parrocchiale di Pietracuta,

E’ festa grande per la vostra comunità. Auguri! Nel giorno dei santi apostoli Pietro e Paolo do’ l’annuncio ufficiale del pellegrinaggio che faremo a Roma, “ad Petri sedem” insieme a tutte le diocesi della Romagna. Sarà nel prossimo ottobre. Andremo insieme per dire a papa Francesco il nostro grazie; per consegnarli la nostra “confessio fidei”; per assicurargli la nostra adesione al grande progetto di “una Chiesa in uscita”.
Pietro e Paolo costituiscono le colonne visibili della Chiesa! Festeggiarli (sono molto contento che quest’anno la loro memoria cada di domenica) ci permette di prendere sempre più coscienza delle radici della fede della Chiesa. Dalla giorno della confessione messianica Simone – il “pescatore di Galilea” – fu chiamato da Gesù: “Pietro”. Rinnegherà il Maestro nel momento cruciale, ma sarà il primo nel pentimento fino alle lacrime e sarà intrepido nella triplice dichiarazione d’amore. Gesù lo confermerà nella sua missione: “pasci le mie pecore”.
San Paolo ha aperto le frontiere della Chiesa ed è andato verso i lontani, verso le periferie di allora, attualizzando il progetto di Gesù che voleva fare dei giudei e dei pagani un solo popolo “abbattendo il muro di separazione” (Ef 2,14).
In che modo sono diventati apostoli? Né l’uno, né l’altro per propria iniziativa. Paolo, sulla via di Damasco, ha ricevuto una rivelazione che gli fa dire: Il Vangelo che io proclamo non è invenzione umana. Da persecutore dei cristiani diviene apostolo!
Pietro, senza l’azione dello Spirito Santo, non avrebbe mai potuto pronunciare una così bella professione di fede: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente.

La Chiesa è sacramento di salvezza, ma il Regno di Dio è infinitamente più grande di lei; e il potere di legare e di sciogliere, che Gesù ha dato agli apostoli, oltrepassa la loro stessa persona: portano un tesoro in vasi di creta. Con questa debolezza la Chiesa e gli apostoli annunciano il Cristo vincitore del peccato e della morte. Essi portano un messaggio che li supera. Il Signore non ha affidato ad una comunità di “puri” il compito di portare al mondo il suo Vangelo, ma a fragili strumenti, quali siamo anche noi, peccatori riconciliati.

Il Vangelo appena letto ci interpella: “E voi chi dite che io sia?”
Le risposte per sentito dire non valgono. Quelle frutto di una sommaria istruzione dottrinale lasciano il tempo che trovano. Gesù vuole la risposta del cuore: Chi sono io per te? Pietro un giorno – stava camminando sulle acque del lago – aveva già dato una sua risposta, gridando sotto la spinta della paura e della fiducia: Signore salvami!(cfr Mt 14,30). Un giorno dirà a nome di tutti: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna (cfr Gv 6,68). A Cesarea di Filippo, tappa centrale nel Vangelo di Matteo, risponde: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente. E Gesù, di rincalzo: Non la carne, né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio… come a dire: non ci sei arrivato da solo! E tuttavia a Pietro che riconosce in Gesù il Messia viene conferita la dignità di suo rappresentante e cambiato il nome: da Simone a Pietro. La tradizione biblica collega sempre il cambio del nome ad una missione speciale (così è accaduto ad Abramo, Sara, Giacobbe, Paolo…). Pietro vuol dire Roccia: la stabilità e la compattezza della futura comunità messianica poggerà su Cristo e visibilmente su Pietro. La Chiesa appartiene a Cristo (la mia Chiesa); Pietro non l’ha fondata, non è a disposizione del suo arbitrio e non ne è il capo per doti particolari. Tuttavia, dopo la risurrezione, Gesù associa Pietro a sé come garante della unità e stabilità della Chiesa. Questa investitura vale anche per chi succede a Pietro. Come potrebbe la comunità messianica godere di un servizio di unità se la roccia non sarebbe tale per tutto il tempo? La dimensione petrina è esercitata in modo proprio dal vescovo di Roma, il papa, successore di Pietro. Ma ogni cristiano che risponde a Gesù: Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente, è, in qualche modo, roccia viva, e pietra dell’edificio santo.
Durante un’udienza pubblica Giovanni Paolo II, con grande stupore del seguito e con l’imbarazzo della sicurezza, oltrepassò le transenne e, raggiungendo un ragazzo invalido seduto in carrozzina, mise le sue mani grandi e vigorose sulla sua testa e stringendola forte ripeté: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa. Il ragazzo stupefatto per quelle parole, pianse di commozione.
E noi siamo pronti, in forza del nostro battesimo, ad essere pietre vive per edificare la Chiesa? Concretamente che cosa possiamo “fare” per “essere”?

 

 

 

Festa del Castello di Domagnano

Omelia Mons. Andrea Turazzi
At 12,1-11
Sal 33
2Tm 4,6-8.17-18
Mt 16,13-19
E’ festa grande per la vostra comunità ed io vi faccio tanti auguri.
Davanti a me c’è lo staff della festa. Questa sera dovete mettere tanti germi di bontà e di amore: a questo serve la festa vissuta da voi. Colgo l’occasione della festa dei Santi Pietro e Paolo anche per dare un annuncio: la nostra diocesi di San Marino-Montefeltro, insieme alle altre sei diocesi della Regione Emilia Romagna, andrà in pellegrinaggio a Roma per incontrare Papa Francesco nel prossimo Ottobre.
E’ suggestivo per la nostra vita spirituale ripercorrere l’itinerario dell’apostolo Pietro. Propongo di fissare l’attenzione su tre momenti.
Il primo: Pietro è sulla barca che ha ritrovato la sua navigazione sull’acqua del lago ormai placata dalla burrasca. In lontananza Pietro e gli altri apostoli vedono Gesù che avanza camminando sull’acqua. Non è un fantasma, ma Pietro non si fida: «Signore, se sei tu, comanda che io venga da te sulle acque». E Gesù disse: «Vieni» (cfr. Mt 14, 28-29). Pietro scende dalla barca e si incammina. Poi comincia a sprofondare e grida: «Signore, salvami!». La sua fede, nel bisogno e nel pericolo, si fa preghiera. E’ una fede piccina quella a cui si ricorre nei momenti difficili? Al Signore va bene anche questa. Non diciamo più, per giustificare il nostro disimpegno: è troppo comodo gridare a Dio quando si è nel bisogno. Sottrarsi alla preghiera, in questo caso, è una forma velata di orgoglio.
C’è poi, nell’itinerario spirituale di Pietro, l’atto di fede più maturo, quello suggeritogli dal Padre: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (cfr. Mt 16, 16). Qui, Pietro è, per così dire, portato ad affermare qualcosa di più grande di lui, l’obbedienza ad una professione di fede di cui si assume la responsabilità.
Infine, vorrei fermare la mia e la vostra attenzione su un’altra tappa del suo cammino. Gesù, il Risorto, è apparso agli Apostoli sulle rive del lago. Dopo la pesca prodigiosa, Gesù ferma il suo sguardo su Pietro e chiede: «Mi ami?» (Cfr. Gv 21, 16). Meraviglia considerare come Gesù Risorto, dopo il passaggio dalla Passione alla morte, dopo l’esperienza della discesa agli inferi e il ritorno al Padre, vada in cerca dell’amore di Pietro: «Mi ami?». Gesù avrebbe potuto “raccontare” ai filosofi e a coloro che indagano su queste cose i misteri dell’aldilà e, invece, torna a chiedere all’amico: «Mi ami?».
Per Pietro scocca l’ora di un’adesione personale e totalmente fiduciosa all’amore di Gesù: «Signore, tu sai tutto; tu sai che io ti amo» (cfr. Gv 21, 17).
Dal grido nel momento del pericolo, all’obbedienza di fede, al sì definitivo: crede, spera, ama!

 

 

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi nella veglia di preghiera per e con i politici

Chiesa dei Santi Pietro, Marino e Leone di Murata, 21 giugno 2014

Gv 13, 1-17

Accade spesso che la parola servizio venga legata al sentimento della tristezza; invece è la gioia la prima caratteristica del servizio: «Il Signore ama chi dona con gioia» (cfr. 2Cor 9, 7).
Anche se il contesto di questa preghiera ci riporta alla fine tragica di una persona molto generosa come San Tommaso Moro e la memoria della Lavanda dei piedi è nel contesto dell’Ultima cena di Gesù, tuttavia vogliamo considerare il servizio come una parola di Vangelo, cioè una parola di gioia (il Vangelo della gioia o la gioia del Vangelo).
Sgombrato il campo da questo “equivoco”, entriamo nella situazione che sta vivendo Gesù la sera della sua Ultima cena. E’ scoccata la sua ora. Colgo due piccole suggestioni. La prima: «è giunta l’ora»; è il momento in cui Gesù raccoglie tutti i suoi insegnamenti, sintetizza tutta la sua vita e sta per consegnare il suo testamento. Quello che sta dicendo è la cosa più importante. Sembra quasi dire “dimenticate tutto, ma questa cosa non dimenticatela”, perché è la mia vita.
La seconda suggestione: «è giunta l’ora nella quale il Padre mi glorificherà»; è il momento in cui il Padre gli dona la sua gloria, gli dona il suo potere. Ma qual è il potere di Gesù? Qual è il momento della sua intronizzazione? Il momento in cui lava i piedi ai suoi discepoli.
Ecco il potere di Gesù: il potere di servire. Gesù ci dà l’esempio. Lo vediamo inginocchiato davanti ai discepoli nell’atto di lavare i loro piedi. E’ un gesto forte di servizio; era infatti il compito dello schiavo, l’ultimo della casa.
E’ un esempio da imitare, perché Gesù dice: “Fate anche voi come ho fatto io”.
Queste sono tra le ultime parole che ha detto. Ci coinvolgono. Coinvolgono proprio noi che siamo qui, sia le persone credenti sia quelle di altra convinzione (che ci onorano della loro presenza). E allora, coerenza vuole che ci laviamo i piedi l’un l’altro. E’ ovvio, non si tratta di riprodurre il gesto alla lettera, ma domandiamoci: siamo disposti a lavare i piedi, a metterci sinceramente in relazione di servizio con chi ci passa accanto con i suoi problemi concreti, con la sua povertà, con la sua fragilità? C’è la politica grande, statale, ma c’è anche il rapporto quotidiano con chi ci è più prossimo.
Gesù ci chiama al servizio.
Esistono servizi sociali, associazioni politiche e umanitarie, forme organizzate di volontariato. Essi stanno a ricordare a noi cristiani che non siamo per forza tra i migliori o migliori degli altri.
Qual è la modalità di servizio che chiede Gesù? Gesù chiede di fare come ha fatto lui, chiede di assumere il suo essere totalmente “fuori” di sé, il suo essere totalmente donato per servire l’uomo, tutto l’uomo. Gesù chiede di continuare la sua incarnazione anche oggi per l’uomo d’oggi. Questa è la forma della politica.
Poi c’è il mistero di Giuda. Giuda tradisce la fiducia posta in lui, passa sopra ad ogni scrupolo, mercanteggia… verrebbe da dire “come è possibile?”, Giuda è stato con il Maestro per tre anni, ha mangiato con lui, era entusiasta di lui, ha avuto compagni di viaggio uno più generoso dell’altro… La tentazione è sempre in agguato. Accade che si metta a tacere la coscienza, che allo spirito di servizio subentri l’avidità e all’ideale la corruzione. La corruzione politica esiste, almeno come accusa; è un fenomeno doloroso. Allora noi siamo chiamati a metterci di fronte a questa realtà con spirito evangelico. Come va combattuta? Non dobbiamo aver la pretesa di una società assolutamente perfetta… è utopica, per far riferimento ad un libro scritto da San Tommaso Moro intitolato: Utopia. Però chiediamo un impegno rinnovato per contrastarla. Non ci si può esonerare dalla denuncia del male, soprattutto quando danneggia gli altri, quando ferisce la verità, quando opprime l’innocente e con arroganza calpesta i diritti altrui. Anche la neutralità, in certi casi, è complicità.
E’ sbagliato anche l’atteggiamento di chi pensa che tutti siano corrotti – non è vero, tutti conosciamo carissimi amici che si comportano con rettitudine, per i quali nutriamo stima e riconoscenza. A parte che Gesù ha detto «chi è senza peccato, scagli la prima pietra» (cfr. Gv 8,7). In quella circostanza se ne andarono tutti.
Credo sia pericolosa la forma indiscriminata di critica che genera fatalismo e rassegnazione. E’ importante, a questo proposito, usare un linguaggio attento, serio, non irresponsabile.
Infine vorrei cantare – se fossi capace – i verbi (ben sette) che descrivono minuziosamente l’atteggiamento di Gesù Servo con tutta la simbologia che vi sta dietro: si alza da tavola, depone le vesti, prende un asciugatoio (l’attrezzo che connota il servitore), se lo cinge, versa acqua (per purificare), comincia a lavare, asciuga.
Il servizio comporta dedizione fino alla dimenticanza di sé (in vista del bene). Nel servizio c’è sempre un aspetto di gratuità, intesa come atteggiamento del cuore – anche se, nel caso della politica, la persona va remunerata – e si guarda al raggiungimento della giusta causa anche se c’è da fare un passo indietro, da non far comparire la propria firma, purché vada avanti l’ideale. E poi, quando si è fatta la propria parte, si esce di scena, si ha il coraggio di dire: “missione compiuta”, “servi inutiles sumus”(cfr. Lc 17,10). Certo, chi riceve una delega, ha una responsabilità in più. Inoltre, bisogna mettere in conto, insieme al sacrificio, la possibile ingratitudine. Ma – riprendendo ciò che è stato detto all’inizio – è bello pensare al servizio come gioia, perché un servizio intelligente è sempre fatto “a corpo”, insieme.
Allora, stasera, accogliamo le parole di Gesù: «Avendo amato i suoi, li amò sino alla fine» (cfr. Gv 13, 1). L’amore chiama amore.

MESSAGGIO DEL NUNZIO APOSTOLICO Mons. Adriano Bernardini in occasione della “veglia di preghiera per e con i politici” a San Marino il 21 giugno 2014

Roma, 17 giugno 2014

Eccellenza Reverendissima, ho appreso con vivo compiacimento che Vostra Eccellenza Reverendissima ha indetto, per il prossimo 21 giugno, nel ricordo di San Tommaso Moro, una speciale Giornata di Preghiera per tutti coloro che sono impegnati a favore del bene comune. Desidero anch’io unirmi nella preghiera a questo significativo momento di incontro diocesano e accompagnarlo con il più vivo incoraggiamento. Ci sia di ispirazione, in tale evento, la Lettera Apostolica in forma di Motu Proprio “E sancti Thomae Mori”, per la proclamazione di San Tommaso Moro quale Patrono dei Governanti e dei Politici, che il Santo Pontefice Giovanni Paolo II consegnò alla Chiesa intera il 31 ottobre del grande Anno Giubilare del 2000. Così, infatti, il Papa recentemente portato – anche lui – agli onori degli altari, presentava al mondo l’esemplarità delle virtù di San Tommaso Moro: «si distinse per la costante fedeltà all’autorità e alle istituzioni legittime, proprio perché in esse, intendeva servire non il potere, ma l’ideale supremo della giustizia. La sua vita ci insegna che il governo è anzitutto esercizio di virtù. Forte di tale rigoroso impianto morale, lo Statista inglese pose la propria attività pubblica al servizio della persona, specialmente se debole o povera; gestì le controversie sociali con squisito senso d’equità; tutelò la famiglia e la difese con strenuo impegno; promosse l’educazione integrale della gioventù. Il profondo distacco dagli onori e dalle ricchezze, l’umiltà serena e gioviale, l’equilibrata conoscenza della natura umana e della vanità del successo, la sicurezza di giudizio radicata nella fede, gli dettero quella fiduciosa fortezza interiore che lo sostenne nelle avversità e di fronte alla morte. La sua santità rifulse nel martirio, ma fu preparata da un’intera vita di lavoro nella dedizione a Dio e al prossimo». Se volessimo sintetizzare il tutto in poche parole, credo che non potremmo trovare forma migliore di quanto scritto dal Santo Padre Francesco nel tweet lanciato io scorso 1° maggio, nella Giornata Internazionale del Lavoro, giorno in cui la Chiesa celebra la Festa di San Giuseppe Lavoratore: «chiedo a quanti hanno responsabilità politica di non dimenticare due cose: la dignità umana e il bene comune». Eccellenza, mentre formulo i migliori voti augurali affinché questa lodevole iniziativa possa produrre abbondanti frutti di grazia per la Chiesa e per l’intera società, colgo ben volentieri l’occasione per confermarmi, con sensi di distinto ossequio, dell’Eccellenza Vostra Reverendissima devotissimo (Adriano Bernardini) Nunzio Apostolico A Sua Eccellenza Reverendissima Mons. ANDREA TURAZZI Vescovo di San Marino-Montefeltro Piazza Giovanni Paolo II, 1 47864 PENNABILLI (RN)

Corpus Domini – Prime Comunioni

Santuario della Madonna delle Grazie di Pennabilli

22 giugno 2014

Dt 8,2-3.14-16
Sal 147
1Cor 10,16-17
Gv 6,51-58

Cari ragazzi, immaginiamo che il Signor Sindaco metta all’ingresso della città di Pennabilli un grande cartello pubblicitario con scritto “venite tutti, gratuitamente si offre pane che dà giovinezza e vita, si regala vino che dà salute”. Come è facile intuire, arriverebbero in tanti. Perché allora, quando la domenica suonano le campane che ci invitano a venire all’altare, non siamo così tanti? Oggi siamo tantissimi e facciamo molta festa a voi, ragazzi, perché oggi voi ci fate ritrovare l’entusiasmo e la fede che su quell’altare bianchissimo, rovente, che scotta dell’amore di Gesù, Lui si fa presente nel pane. Con il vostro fervore, con la vostra compostezza, con la vostra fede ci fate riscoprire la bellissima verità che Gesù si dona per noi. Vi racconto un fatto. C’era una signora che aveva un marito molto importante, che aveva fatto carriera ed era stato eletto in Parlamento. Aveva lasciato la sua casa e vi faceva ritorno prima ogni mese, poi ogni due mesi e poi sempre più di rado. La signora brontolava molto per la sua assenza, ma lui aveva tanti impegni e ormai non aveva più il tempo neppure per telefonarle. Un giorno la sua carriera politica finì. Non venne più rieletto e fece ritorno a casa. Mentre tornava si chiedeva tra sé come avrebbe reagito sua moglie. Chissà se l’avrebbe riaccolto o se l’avrebbe preso a schiaffi come avrebbe meritato – meditava tra sé. Infine arrivò davanti al suo palazzo, suonò il campanello e il portone si aprì. Salì le scale e arrivò sul suo pianerottolo. Vide la porta di casa socchiusa e sbirciò dalla fessura. Vide la tavola apparecchiata per due. Quasi stava per andarsene, pensando che la moglie, in sua assenza, si fosse trovata un altro compagno, e invece lei comparì, lo abbracciò e mentre lui cercava di sottrarsi, ritenendosi indegno, lei gli confessò che non aveva mai smesso di apparecchiare per due. Ebbene, anche Gesù non smette mai di apparecchiare, anche quando siamo incoerenti, anche quando ci dimentichiamo di lui. Quando veniamo alla Messa ricordiamo sempre che in chiesa non ascoltiamo il racconto di un evento avvenuto tanti anni fa, ma viviamo “in diretta” il racconto, ogni volta il racconto accade realmente. Il sacerdote non è più don Andrea o don Maurizio, ma è Gesù; per questo motivo il celebrante indossa vestiti particolari, per aiutare la nostra fede. Ad un certo punto della Messa, il sacerdote prende il pane e pronuncia parole che sono la dichiarazione d’amore più coinvolgente che si possa pensare: “Prendete e mangiate, questo è il mio corpo dato per voi”. Esiste una dichiarazione d’amore più grande di questa? Credo proprio di no. E sull’altare – anche se i vostri occhi non vedono – accade quello che dice il racconto. Mi viene in mente un paragone tratto dal mondo dei computer. Quando state scrivendo al computer e volete passare ad un altro file, potete mettere da parte il file su cui stavate scrivendo riducendolo “ad icona”: il file viene sintetizzato in una piccola immagine alla base dello schermo. Poi, se premete sull’icona, il file si riapre istantaneamente e completamente. Quando il sacerdote pronuncia le parole della consacrazione, è come premere sull’icona: si realizza, si apre, accade il racconto e noi diventiamo contemporanei di Gesù durante l’Ultima Cena, quando prese il pane, lo spezzò e lo diede agli amici. Quel gesto stava a significare che era proprio il suo corpo sulla croce che veniva dato per noi, perché Egli stava dando la sua vita per noi. Voi potreste obiettare che si continua a vedere solo del pane e del vino sull’altare…cos’è che è cambiato? Immaginiamo di passeggiare per le vie di Pennabilli e di osservare i giardini. Si vedono delle rose stupende. Se ne recidiamo una e ne facciamo dono, la rosa rimane sempre la stessa, ma ha cambiato il suo significato, è cambiato il suo fine. Se vostro papà la dona alla vostra mamma, quella rosa dice l’amore. Non è più soltanto una rosa. Quella rosa, in mezzo a tante altre, recisa, offerta, sta a significare amore. Così pure, in questi giorni, ci stiamo organizzando per la partita della Nazionale. Se andiamo in merceria e compriamo un pezzo di stoffa bianca, un pezzo di stoffa rossa e una verde, e poi li attacchiamo insieme, che cosa rappresentano? L’Italia. Qui c’è molto di più, perché in quel pane spezzato abita Gesù. Vi auguro allora che possiate fare un bel colloquio con Gesù e che anche noi adulti, aiutati da voi, possiamo vivere un incontro bellissimo con il Signore Gesù. Faremo un grande silenzio, perché può succedere che Lui, con parole dolcissime, vi faccia capire tutto il suo amore.

Corpus Domini

San Marino, 19 giugno 2014
Omelia del Vescovo S.E. Mons. Andrea Turazzi

Mi sono commosso durante il recente incontro del Presidente dell’Italia con le autorità, i cittadini e le istituzioni della Repubblica di San Marino.
E’ accaduto durante il brindisi durante il quale il Presidente ha pronunciato queste parole: “Nel ricambiare i voti augurali che mi sono stati rivolti desidero esprimere la mia viva soddisfazione per essere qui con voi oggi”. Poi proseguiva: “La vista che spazia ampia da questa splendida vetrata induce a guardare con speranza al futuro, ad un orizzonte più ampio di cooperazione”.
Effettivamente lo spettacolo che si apriva davanti al Presidente e agli ospiti dalla grande Sala (al piano superiore) quella mattina era splendido: nubi, squarci di sole, pennellate di azzurro, suggestivi orizzonti sul Montefeltro.
Il pensiero è corso immediatamente ad un midrash sul Salmo 8 («O Signore Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra…»), uno tra i più belli del Salterio. Il midrash racconta la domanda del discepolo e la risposta del maestro: “Perché il poeta nel proclamare la magnificenza della creazione elenca creature notturne come la luna e le stelle e non nomina il sole?”. “Perché Davide – risponde il maestro – compose questo salmo di notte, allorché fu risvegliato dal suono leggero dell’arpa, accarezzata dalla brezza notturna che penetrava dalla finestra. Fu allora che Davide si affacciò e fu ispirato dalla meraviglia della notte d’ Oriente”. A questo punto sorprende la conclusione, del tutto inattesa: “Quando compri una casa o prendi una casa in affitto, prendila con finestre grandi”.
Fuori di metafora: la finestra grande allude alla naturale apertura (predisposizione) del nostro essere verso l’Infinito, verso l’Assoluto. Un’attitudine che, a volte, si esprime in una pacata adesione, altre volte nell’inquietudine del cuore che sembra non trovare pace.
Cari fratelli e sorelle, oggi siamo di fronte al più grande degli orizzonti, siamo di fronte al mistero di “un Dio di pane”. Pane e vino nel quale il Signore Gesù, risorto, si dona; si cela e si manifesta ad un tempo.
Ha scelto la forma più sconcertante e più eloquente per assicurarci la sua presenza. Sconcertante per la piccolezza del segno (un frammento di pane e poche gocce di vino), eloquente per l’universalità del suo significato (cibo e bevanda).
Oggi siamo richiamati a rinnovare insieme, come popolo, l’atto di fede e di omaggio all’Eucaristia, presenza vera, reale, sostanziale del Risorto che, nell’ammirabile conversione della sostanza del pane e del vino nella sostanza del suo corpo, sangue, anima e divinità viene immolato e si offre sull’altare per mano dei sacerdoti. Sublime la missione di noi sacerdoti!
Cari fratelli e sorelle, quale è il significato di questa celebrazione nel giorno del Corpus Domini? Anzitutto, rispondere alla nostra prima e fondamentale vocazione, aprendoci con l’obbedienza della fede all’invito del Signore.
Aggiungo: rimettere in discussione la nostra autosufficienza e presunzione che ci appiattiscono sui nostri piccoli orizzonti. Talvolta, vengo colto anch’io da un brivido di fronte al paradosso della fede: la sproporzione fra il nostro orgoglio e l’umiltà di un Dio che si fa “di pane”.
Non è ammissibile accondiscendere a pensieri di fuga e di rinuncia, alla mediocrità o al disimpegno di fronte ad un Dio che si fa così prossimo e così vicino (indimenticabile il ricordo del tabernacolo nella mia Chiesa tra i calcinacci dopo il terremoto di due anni fa nell’Emilia).
Il sacramento dell’Eucaristia ci abitua e ci educa a risalire, oltre il visibile, all’Invisibile; ci educa a fissare lo sguardo sulla sostanza delle cose e degli eventi (non alla superficie), a resistere alle mode, sfidando questa diffusa antropologia a ribasso; ci educa pure a cercare in ogni circostanza il significato profondo e la finalità ultima, cioè a praticare il giudizio.
Ecco, l’altare e la piazza; altare e piazza diversi ma attraversati e collegati da una stessa parola: “Prendete e mangiate, prendete e bevete è il mio corpo, il mio sangue dato per voi. Fate questo in memoria di me”. C’è una dichiarazione d’amore più coinvolgente di questa? In quella preposizione “per” è racchiuso il senso dell’esistenza.
Dall’altare sprigiona e si alimenta lo stile di vita caratterizzato dal dono di sé, da giocare e da spendere nella complessità del nostro tempo e dei nostri rapporti.
In conclusione: “Volete andarvene anche voi? – “Signore da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna” (Gv 6, 67-68).

 

Festa di Sant’Antonio da Padova Monastero di Sant’Antonio in Pennabilli,

13 giugno 2014

1Re 19,9.11-16
Sal 26
Mt 5,27-32

Chi non desidera la sapienza e che altro è, se non il gusto, il sapore che rende “salata” ogni azione, ogni parola, ogni rapporto? Se uno trova questo “sapore” che condisce le sue giornate è davvero fortunato. Scettri, troni, ricchezze, gemme di valore inestimabile, oro, salute, bellezza, lucentezza… non sono paragonabili al suo valore, sono tutte cose che non riempiono il cuore. Il cuore, il nostro cuore, vuole molto di più! E’ di questo che oggi ci si dovrebbe preoccupare.
Fuori di metafora: c’è una sapienza che dà senso al nostro vivere; sempre, anche quando prendiamo coscienza della nostra fragilità. Anzi tutto potrebbe venirci a mancare, compreso ciò che sembra dare solidità. Solo se c’è questa sapienza restiamo veramente saldi, ben piantati sulla roccia. «Tutto è vanità», ci insegna il Qoelet; «all’infuori che amare e servire il Signore», ci ripetono i grandi maestri della spiritualità cristiana. Infatti, questa sapienza non è altro che il Verbo di Dio a noi comunicato: «Nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa, mentre la notte era a metà del suo corso, il tuo Verbo è sceso dal trono regale» (Sap 18, 14-15). Allora questa sapienza ha un nome: Gesù! Capisco sant’Antonio che insegnava a “chiedere Dio a Dio”.

Qui, stando in preghiera con voi, nostre sorelle, ci sovviene la testimonianza di Santa Teresa di Lisieux. Non reggeva all’esuberanza dei desideri del suo cuore. Avrebbe voluto essere tutto nella Chiesa, vivere i carismi e i doni di cui San Paolo scriveva nella Lettera ai Corinti: profezia, apostolato, ministero… Fu felice quando trovò la sua vocazione: essere “cuore” dentro la Chiesa. Antonio aveva trovato lo Zenit, il punto d’arrivo del suo cammino. Aveva centrato la sua vocazione: era così libero da sé che Francesco acconsentì alla sua vita accademica; e il suo cuore fu così pieno di Dio da poter attraversare indenne le piazze e le contrade del suo tempo, non meno turbolento del nostro. Antonio ricordava quanto scrive Sant’Isidoro di Siviglia: “L’aquila, dopo aver deposto tre uova nel nido, ne butta fuori una per covarne solo due. Così noi non possiamo alimentare l’amore di Dio, del prossimo e di noi stessi. Il cristiano butta via l’amor proprio”.

Sant’Antonio è caro al popolo perché taumaturgo. Ma perché è taumaturgo? Perché Dio operava insieme a lui e «confermava la Parola con i prodigi che l’accompagnavano» (cfr. Mc 16, 20).
Antonio fu soprattutto missionario. Prima in Marocco (con un viaggio avventuroso) e poi in Europa e nelle nostre terre. Credete fosse più facile la missione in quei tempi? Antonio vive dal 1195 al 1231, tempi duri e, per certi versi, oscuri per la Chiesa e per la società. Come sta un missionario autentico nel proprio tempo e nel proprio contesto? Come “abita” la crisi? Con la coscienza che è mandato e preceduto: «Voi farete cose più grandi di me» (cfr. Gv 1, 50); con l’ardore che gli viene dalla frequentazione costante del giardino nascosto (cura della vita interiore, anima dell’apostolato); con la serenità di chi pone solo in Dio la sua confidenza: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Fil 4, 13).