Omelia XXI Domenica del Tempo ordinario – Saluto alle Suore Dorotee

Omelia di S.E.Mons. Andrea Turazzi

Parrocchia di S.Agata Feltria – Saluto alle Suore di Santa Dorotea, 24 agosto 2014

“Se non ardi, non accendi”: così amava ripetere il beato Luca Passi alle sue suore. E qui a S.Agata – care sorelle – di fuochi ne avete accesi tanti. Avete riscaldato cuori, avete illuminato intelligenze, avete consumato energie. Sarebbe suggestivo sviluppare la metafora della combustione per descrivere la vostra vita, una vita consacrata all’amore. Sublime vocazione!
Pensiamo con indicibile gratitudine alle suore succedutesi in questa mirabile staffetta dal 1861, quando il fondatore, il beato Luca Passi, acquistò qui a S.Agata la casa che ora stiamo per chiudere.
Alla madre provinciale va il ringraziamento della Parrocchia e della Diocesi.
Grazie a Suor Renata, Suor Anna, Suor Ernesta, Suor Blandina a cui viene chiesto di soffrire più acutamente per il distacco; ma state certe: la fiamma che avete alimentato con il vostro servizio nel campo della catechesi e dell’apostolato famigliare, nel servizio alla comunità parrocchiale, nell’accoglienza ai gruppi, specialmente quelli organizzati dalla pastorale giovanile, non si spegnerà. Questa fiamma sarà alimentata in primis dalla vostra preghiera e dall’offerta quotidiana di voi stesse: noi vi apparteniamo, come voi appartenete per sempre a noi. Questa fiamma sarà alimentata dall’impegno solenne, che prendiamo davanti al Signore e a voi, di ripresa nella vita cristiana, di dedizione ancor più generosa all’educazione della gioventù, di partecipazione alla vita della nostra e vostra parrocchia. Lo faremo anche attraverso l’Opera di Santa Dorotea, presente qui a S. Agata, che coltiva il carisma del vostro fondatore. Ci proponiamo poi di metterci in ascolto (è un invito speciale rivolto alle ragazze e ai ragazzi insieme ai giovani) per non lasciar cadere l’invito accorato di Gesù: “Sono venuto a portare fuoco sulla terra, come vorrei che fosse già acceso” (cfr. Lc 12,49).
Oggi il Vangelo ci interpella in modo particolare. Gesù rilancia un sondaggio d’opinione: “La gente chi dice che sia il Figlio dell’Uomo?” e poi, più sotto, incalzando: “Ma voi, chi dite che io sia?”. Non valgono le risposte imparaticce, non valgono neppure le definizioni che, fortunatamente, ci hanno dato catechisti, genitori, nonni. Dunque: Gesù liberatore? Salvatore? Amico? O Dio? Cosa significa chiamare Gesù “Dio”? Con questo attributo vogliamo dire che Lui è il Signore della nostra vita, che siamo suoi e gli apparteniamo. Per questo abbiamo pregato che ci conceda “di amare ciò che comanda, e desiderare ciò che promette” e “che i nostri cuori siano fissi in Lui, dove è la vera gioia”.
Ma la domanda si fa ancor più intrigante: “Ma per te, chi sono io?”. Allora tocchiamo con mano come la fede è cosa personale. Nessuno può rispondere al posto nostro. É necessario affrontare la questione passando da una fede ricevuta a una fede personalizzata. Esige una risposta d’amore, non solo dottrinale. Ci sono momenti della vita in cui questa risposta è provocata dalla difficoltà o dai passaggi ripidi che ci impone; allora la risposta si fa diretta: “Tu sei il mio Dio, il mio tutto”.
La risposta di Pietro: “Tu sei il Messia, il Figlio del Dio vivente” fu come un sasso lanciato nel mezzo di un laghetto tranquillo. Da Abramo a Giovanni Battista si attendeva la realizzazione di una promessa. Tutti aspettavano: chi sarà? Dov’è colui che porterà salvezza? Ebbene, a Cesarea di Filippo, Pietro ha posto un atto fondatore riconoscendo in Gesù il Signore. Da quel momento si dispiega il grande mistero della Chiesa: l’onda creata dal sasso in successivi cerchi lambisce le rive dell’umanità. Così la Chiesa annuncia a tutti che Gesù è il compimento di ogni attesa.
La fede di ciascuno di noi è personale ed è ecclesiale: “Io credo, noi crediamo”!

+ vescovo Andrea

XX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
“Camminata del risveglio sulle orme dei nostri padri”.
Eremo di Carpegna, 17 agosto 2014

Is 56, 1.6-7
Sal 66
Rm 11, 13-15.29-32
Mt 15, 21-28

(da registrazione)
Una madre implora la guarigione per la sua bambina. Ma Gesù ci raggela con la sua reazione, lui così dolce e umile di cuore, sempre delicato e sensibile di fronte alla sofferenza dei piccoli, ha un atteggiamento di freddezza verso questa mamma; dà l’impressione di allontanarla. Tuttavia lei non si arrende davanti al silenzio di Gesù.
Ci sono tante interpretazioni di questi versetti – ve le risparmio – vi dico quello che è il frutto della mia meditazione. La donna straniera chiama Gesù come avrebbe fatto il più osservante degli Ebrei: lo chiama «Signore», «Figlio di Davide»; con queste parole lo designa come il Messia che deve venire. E’ correttissima, ma Gesù vuol far crescere in lei un’altra dimensione, vuole che non si fermi alla formula, per quanto esatta. Le parla con espressioni simili a quelle che aveva usato con la donna più cara della sua vita, Maria sua madre. Gesù si rivolge alla donna cananea come si rivolse a Maria quando, alle nozze di Cana, replicò a lei che domandava un prodigio «Che ho da fare con te o donna? Non è ancora giunta la mia ora» (cfr Gv 2,4). Come Maria di Nazaret anche la donna cananea riesce con la sua insistenza a spostare le lancette dell’ora di Gesù. Come ha fatto? Con la fede, con la sua umiltà e con l’unico tesoro che questa donna possiede: la sua bambina. Per quanto sprovveduta, quella donna sa che il Dio di Israele è un Dio di bontà e si accontenterebbe delle briciole. Gesù cede e le dice: «Donna davvero grande è la tua fede»; si complimenta con lei. E quand’è che Gesù ammira la fede di una persona, quand’è che ammira ciascuno di noi? Quando gridiamo verso di lui con audacia, con insistenza, quando ci facciamo umili, piccoli come bambini, allora lui ascolta, guarda, si lascia toccare, risponde… E noi, che crediamo di credere, abbiamo un po’ della fede di quella donna cananea? Preghiamo, sì; ma non otteniamo, perché? Forse Dio fa con noi come con quella donna, vuole purificare la nostra fede, formarci all’umiltà e soprattutto alla confidenza, vuole che guardiamo attorno a noi i fratelli e le sorelle che sono il nostro tesoro che portiamo nella preghiera.
Ricordate quando Dio incontrò Caino e gli disse «Dov’è tuo fratello?» (cfr Gn 4,9). Ricordate la sua risposta: «Son forse il custode di mio fratello?» (cfr Gn 4,9). Era la risposta peggiore che potesse dare. Allora noi vogliamo, in questa Eucaristia, andare incontro a Gesù tenendo per mano strette strette tutte le persone che Gesù ci ha affidato a cominciare da quel grappolo di vita così bello che è la nostra famiglia. É importante che ci mettiamo in rete, che cantiamo la bellezza della famiglia. Nella famiglia sono unite insieme tutte le differenze: l’uomo e la donna, il piccolo e il grande, il giovane e il vecchio, il fratello che ha studiato e quello che ha solo la quinta elementare, quello che va in chiesa e quello che non ci va, quello che è “di destra” e quello che è “di sinistra”… nella famiglia tutto è accolto. Essa è il luogo della custodia di tutte le differenze. Questa è solo una delle cose che rende bellissima la famiglia e noi lo vogliamo proclamare in faccia al mondo. Con il Signore bastano parole semplici…
Una persona che andava a scuola di preghiera, alla domanda “come si fa a pregare?” si sentiva dire dal maestro: “A pregare si impara pregando”. Ogni giorno, l’allievo tornava sconsolato dal maestro e lui ripeteva sempre la stessa cosa, finché un giorno l’allievo non tornava più, si era attardato sotto un albero a pregare. Alla sera, al suo ritorno, il maestro gli chiese se avesse imparato a pregare e come. L’allievo rispose che diceva così al Signore: “A, b, c, d…” – tutto l’alfabeto – aspettando che fosse Lui, il Signore, a comporre le parole. Al Signore bastano parole semplici, ma che vengano dal fondo di noi stessi, perché non sempre le labbra sono collegate al fondo di noi stessi. A volte anche i ragionamenti non pescano del tutto nella parte vitale del nostro cuore. La preghiera è un grido che sale dal profondo, la preghiera è … materna!
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DISCORSO DEL VESCOVO PRIMA DELLA SANTA MESSA
Oggi siamo venuti quassù, al santuario della Madonna del Faggio, a pregare per le nostre famiglie, siamo venuti per chiedere il dono di tante vocazioni sacerdotali, religiose, missionarie, diaconali, ma siamo venuti anche a chiedere che si viva la vita di famiglia come vocazione.
Insieme a queste intenzioni e a tutte quelle che abbiamo covato nel cuore durante il cammino, vogliamo fare una grande preghiera per i nostri fratelli perseguitati in Nigeria, in Siria e soprattutto, in questi ultimi mesi, nel nord dell’Iraq.
Ci uniamo a tutti quelli che chiedono rispetto e tolleranza, non solo ai cattolici, ma a tutte le minoranze che non vengono considerate nei loro sentimenti e nel loro credo. Sarebbe bello che i cristiani che vivono in quelle regioni, non fossero costretti a venir via; anzi – mi verrebbe da dire – perché non andiamo là anche noi? E’ facile dirlo per me che sono qui, ma è veramente importante andarci per tener viva la presenza cristiana, per costruire il dialogo sul posto ed inoltre perché le minoranze cristiane sono una grande risorsa per il bene comune di quelle terre. Allora io propongo ad ognuno di noi di adottare un cristiano, perché possa continuare la sua missione, magari spostandosi di villaggio in villaggio. Vorrei che mettessimo da parte qualcosa del nostro bilancio familiare per sostenere quelle persone. In seguito, con l’aiuto della Caritas, potremo essere più precisi su come svolgere questa operazione nel modo migliore e più sicuro.
Poi mi viene da domandare – non a voi che ho visto numerosi stamattina, riuniti a pregare nelle piazze, prima di partire, a “pregare per pregare bene” – ma a me: “Tu, don Andrea, sei un vero cristiano? Cosa sei disposto a dare a Gesù? Per lui cosa sei pronto a fare?”. É una domanda che ho nel cuore e che depongo ai piedi di Maria perché mi incoraggi, perché, se c’è bisogno, smascheri le mie meschinità e me le renda note e poi perché aiuti me e tutti a diventare santi.
Concludo con il racconto di un fatterello molto significativo. Un ragazzino di terza media era stato interrogato in matematica ed era alla lavagna. Era il mese di maggio. Gli era venuto da starnutire e voleva tirar fuori il fazzolettino, invece gli è uscita dalla tasca la corona del rosario. Potete immaginare il coro pettegolo delle ragazzine e dei suoi amici che lo deridevano… Vedete, la persecuzione è anche qui; una persecuzione sorda, criptica, nascosta ma tremenda, in fabbrica, a scuola, ovunque. Il ragazzino coraggiosamente ha risposto: “Cosa c’è di male se dico il rosario?”. Quel ragazzino è stato un missionario.

Solennità dell’Assunzione di Maria

Santuario Madonna delle Grazie di Pennabilli, 15 agosto 2014

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

La Chiesa guarda Maria, assunta al Cielo in anima e corpo, come icona del suo futuro. Nell’Assunzione è anticipato il traguardo definitivo dell’esistenza umana, esistenza corporea, non angelica! Molti cristiani si fermano alla considerazione dell’immortalità dell’anima (convinzione comune alle grandi religioni e data per certa anche dalla filosofia classica occidentale) e non osano spingersi nella prospettiva dischiusa dalla Parola di Dio, anche se ogni domenica nella professione di fede proclamano: Credo nella risurrezione della carne.

Come Maria, anche noi risorgeremo col nostro corpo. Infatti i dogmi che riguardano la Madonna, ben più che un privilegio esclusivo, sono indicazioni esistenziali valide per ogni uomo e ogni donna.

Vidi una donna vestita di sole… Il segno della donna nel cielo evoca l’intera umanità, la Chiesa di Dio, ciascuno di noi. Saremo restituiti ad un corpo che mostrerà la bellezza dell’anima redenta, per il dono di una nuova creazione. Nell’Assunzione viene glorificato il corpo, troppo presto screditato come sorgente di peccato e tristemente opaco: e pensare che il Figlio di Dio l’ha voluto per amare da uomo in carne e ossa e fare del corpo lo strumento della redenzione, via di comunicazione. Certo, il corpo può essere asservito al peccato… e allora sono guai! L’anima è santa scrive un commentatore – ma il Creatore non spreca le sue meraviglie: anche il nostro corpo è santo e avrà, trasfigurato, lo stesso destino dell’anima. Perché l’uomo è uno. Nel giorno dell’Assunta abbiamo contempliamo dettagliatamente la bellezza nella corporeità di Maria.

I piedi di Maria: li sentiamo camminare verso Elisabetta, la cugina alle prese con una maternità ai tempi supplementari; piedi ancor più veloci nell’inseguire Gesù come prima discepola e poi ben piantati sotto la Croce.

Il grembo di Maria: dentro le sue viscere si è annidato il Verbo. Grembo che ci fa pensare alla nostra avventura di cuccioli in attesa di “nascere al Cielo” per vedere finalmente il volto di Colui che ci porta in sé senza stancarsi.

Il seno di Maria: spesso è raffigurato nell’atto dolcissimo di nutrire Gesù. Il Signore dell’universo si è aggrappato a lei e da lei e di lei si nutre. Il pudore non è minacciato: risplende, al contrario, la femminilità intesa come dono di sé.

Le mani e le braccia di Maria: raffigurate talvolta unite nella preghiera, altre volte nell’ indicare la Via (Gesù che tiene sulle ginocchia), e ancor più belle consumate per il quotidiano lavoro nella casa.

E il cuore di Maria? Lo vediamo e lo sentiamo pulsare attraverso le sue mani e le sue braccia; cuore che diviene intraprendenza, servizio, vitalità.

Il volto di Maria: le labbra, gli occhi, e le rughe sulla fronte… “De Maria numquam satis”!

XIX Domenica del Tempo Ordinario

Parrocchia di S. Pietro della Pieve in Ponte Messa

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Il Vangelo riporta due preghiere di Pietro pronunciate a qualche minuto l’una dall’altra. Ma fra la prima e la seconda c’è un abisso. Pietro chiede di andare a Gesù camminando sull’acqua: «Signore, se sei tu, comandami di venire a te sulle acque». Pietro qui assomiglia ai bambini che imparano a camminare: vedono mamma e papà davanti a loro che allargano le braccia, allora si lanciano nella confidenza nonostante la paura e l’esitazione iniziale. Così Pietro verso Gesù. Il suo slancio è sincero. Fa, ad un tempo, l’esperienza della fede e della fragilità. Siamo al centro del racconto. Ma è nella fragilità che formula la preghiera più bella, più vera e più necessaria: «Signore, salvami!». Con la prima preghiera – «Signore, se sei tu, comandami di venire a te sulle acque» – chiede, in fondo, una cosa spettacolare. La seconda è il semplice grido di uomo che riconosce di non bastare a se stesso: affonda! La mano di Gesù afferra quella di Pietro e ambedue salgono sulla barca che d’ora in poi navigherà su onde di quiete. A confronto col miracolo a cui il Vangelo ci ha fatto assistere domenica scorsa – il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci – questo sembra inutile, fine a se stesso. Sulle rive del lago Gesù aveva sfamato migliaia di persone, qui sulla barca, nell’oscurità, un prodigio per cose di cuore (il rapporto di un discepolo col suo maestro)… Prendiamoci il tempo per gustare interiormente questa pagina di Vangelo. Dichiaro tutta la mia ammirazione per questo miracolo “inutile”: mi accompagna nella dinamica del cammino di fede. Dalla paura alla fiducia. Dal dubbio alla fede. Dalla perplessità alla dossologia (piena confessione di fede). Rinnovo anche l’espressione della mia simpatia a Pietro, il pescatore, “uomo d’acqua e poi di roccia”. L’invito di Gesù rivolto a Pietro, alla Chiesa e a me – Vieni! Cammina dietro a me sull’acqua… – sembra una provocazione, la stessa che Gesù ha lanciato prima della moltiplicazione dei pani: «Date loro voi stessi da mangiare» (Mt 14,16). Non sapremmo e potremmo fare né l’una né l’altra cosa. Da soli è impossibile. Con lui si può!

Invito del Vescovo a partecipare alle Camminate del Risveglio

Pennabilli, 28 luglio 2014
Carissimi,
tra le iniziative più belle che ho trovato venendo a San Marino e nel Montefeltro come vostro pastore c’è sicuramente
l’ascensione verso l’Eremo di Carpegna, dove si venera la Madonna del Faggio. Una proposta molto bella e significativa, perché esprime l’amore che il nostro popolo nutre per Maria.
Andiamo tutti, andiamo in tanti, per dire con lei il Magnificat e per fare una grande esperienza di unità come accadde quando, agli
albori della Chiesa, Maria radunò attorno a sé i discepoli.
Secondo un antico apologo arabo esistono tre tipi di viaggiatori. C’è chi procede con i piedi, perché è necessario camminare accettando la fatica di salire, imparando ad aspettarsi l’un l’altro, a non fare una gara a chi arriva prima e a non essere elemento di freno per il gruppo. Ma in questo modo il viaggio può essere solo un transito. C’è chi avanza per le strade con gli occhi avidi della bellezza della Carpegna, rischiando di perdere di vista la meta. Infine, c’è chi viaggia con il cuore, un cuore che vuol essere obbediente al Signore come fu il cuore di Maria. E costui – conclude l’apologo – è il vero pellegrino.
Vorremmo, in questo pellegrinaggio, chiedere alla Madonna una grazia grande per la nostra Chiesa: il dono di tante vocazioni
sacerdotali e religiose, ma non solo: chiediamo che ogni scelta di vita sia vissuta come vocazione, come risposta ad una chiamata.
Ho in cuore un’altra preoccupazione che condivido con tutti voi:
è la persecuzione dei cristiani nel mondo. Mai come in questi anni sono state virulente le persecuzioni, addirittura di più che al tempo dei primi cristiani. Andiamo allora a pregare per i martiri di oggi e anche per dire la nostra fedeltà al Signore. E’ Lui il tesoro nascosto, la perla preziosa per cui lasciare tutto.
Vi aspetto!
Il programma dettagliato sarà comunicato al più presto. Ci daremo appuntamento alla grande croce e insieme percorreremo gli
ultimi metri che ci separano dal Santuario; celebreremo l’Eucaristia e poi avremo modo di fare festa insieme nei prati. I sacerdoti ovviamente non potranno partecipare, essendo domenica mattina, ma conto che in qualche modo possano raggiungerci; saremmo felicissimi di abbracciarli lassù. Li invito a benedire i pellegrini al momento della partenza dalle singole parrocchie.
Vi benedico
+ Andrea Turazzi

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

S.E. Mons. Andrea Turazzi

Is 55,1-3
Sal 144
Rm 8,35.37-39
Mt 14,13-21

Appena qualche domenica fa il Vangelo raccontava di Gesù che parlava da una barca, sull’acqua, mentre la folla stava sulla terra ferma. Del fatto ho proposto una lettura simbolica: la gente preferisce stare coi piedi ben piantati nelle proprie sicurezze piuttosto che affidarsi alla fede! In questa pagina di Vangelo invece ci vien detto di Gesù che scende dalla barca, sulla terra ferma, per incontrare la fame e il bisogno della folla: concretezza della vera prossimità. Ci risuona forte l’invito di papa Francesco “ad uscire fuori” verso le periferie. Di per sé non ci chiede di immaginare chissà quali scenari. Andare alle periferie è prima di tutto un moto del cuore al quale occorre educarsi, per “vivere l’altro”. L’altro da capire, ascoltare, amare, servire, è chi mi vive accanto, nella mia stessa casa, nel mio paese o nella mia città, chi sta lontano, ma che i media mi rendono vicino e partecipe della sua sorte. Andare alla periferia significa – prima di tutto – de-centramento da sé. C’è anche l’invito ad allargare lo sguardo ed a prendere coscienza dei problemi della società. Se c’è una preferenza, per chi va alla scuola di Gesù, sarà quella di andare verso il fratello o la sorella che è nella prova. Ed ai giovani presenti dico: ascoltate ciò che il Signore vi propone nel profondo del cuore: «prestami le tue mani, i tuoi piedi, la tua intelligenza, il tuo cuore per essere una mia presenza». Moltiplica il pane chi lo spezza e lo condivide: Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa… Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente (Sal 144).

Gli apostoli chiedono a Gesù di congedare la folla, perché si dia da fare e vada a comprarsi il pane (suppongono che la folla non andrà spontaneamente). Gesù non la manda via, ma insiste: voi stessi date loro da mangiare. Bello il preoccuparsi dei discepoli. Più bella ancora la provocazione di Gesù: dare senza calcolo, mettere in circolazione i cinque pani e i due pesci. Due mentalità a confronto: quella di Gesù e quella degli apostoli e… la nostra. “A noi, che preghiamo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», il Signore risponde: «Voi date il vostro pane». «Dacci», noi invochiamo. «Donate», ribatte lui” (E. Ronchi). In questi giorni continuiamo ad assistere ad ondate di sbarchi di persone in fuga provenienti da paesi africani ed asiatici. Il problema è complesso ed ha tanti risvolti, ma ognuna di quelle persone è sorella e fratello. Mi piace ricordare come a Macerata Feltria la popolazione ha saputo vivere l’arrivo di quaranta migranti e come la nostra Caritas diocesana ne ha ospitato un gruppo nella casa di accoglienza a Secchiano.

Il prodigio che l’evangelista ci ha tramandato ha dei tratti e dei particolari che rinviano al Pane trasformato e che trasforma: l’Eucaristia. A chi non piacerebbe essere stato tra i cinquemila in quella sera, sulla riva del lago? Lo siamo ogni domenica, quando nella nostra parrocchia, o in una chiesetta di montagna o di mare, ci presentiamo al Signore con le nostre fragilità e i nostri mali, con la nostra fame e i nostri desideri: ceste piene di vuoto, unico credito che possiamo esibire. E Gesù viene in mezzo a noi. O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. E il testo della prima lettura continua con la denuncia della nostra poca accortezza: Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Allora possiamo ripetere come Paolo: Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza, e fare così, ogni domenica, la seducente esperienza di essere con Gesù, come i cinquemila, sperimentando la stessa gioia come quella provata dai discepoli di Emmaus. A stupire non è il numero dei presenti, ma quella prossimità di Gesù. Il Pane moltiplicato dell’Eucaristia è spesso prigioniero dei nostri tabernacoli dorati. Il Signore dice: Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Perché non dare all’adorazione eucaristica spazio e tempo? Perché non rileggere e reinterpretare la nostra vita in chiave eucaristica? Allora anche le mani si apriranno.

XVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

 

Is 55,1-3

Sal 144

Rm 8,35.37-39

Mt 14,13-21

 

Appena qualche domenica fa il Vangelo raccontava di Gesù che parlava da una barca, sull’acqua, mentre la folla stava sulla terra ferma. Del fatto ho proposto una lettura simbolica: la gente preferisce stare coi piedi ben piantati nelle proprie sicurezze piuttosto che affidarsi alla fede! In questa pagina di Vangelo invece ci vien detto di Gesù che scende dalla barca, sulla terra ferma, per incontrare la fame e il bisogno della folla: concretezza della vera prossimità. Ci risuona forte l’invito di papa Francesco “ad uscire fuori” verso le periferie. Di per sé non ci chiede di immaginare chissà quali scenari. Andare alle periferie è prima di tutto un moto del cuore al quale occorre educarsi, per “vivere l’altro”. L’altro da capire, ascoltare, amare, servire, è chi mi vive accanto, nella mia stessa casa, nel mio paese o nella mia città, chi sta lontano, ma che i media mi rendono vicino e partecipe della sua sorte. Andare alla periferia significa – prima di tutto – de-centramento da sé. C’è anche l’invito ad allargare lo sguardo ed a prendere coscienza dei problemi della società. Se c’è una preferenza, per chi va alla scuola di Gesù, sarà quella di andare verso il fratello o la sorella che è nella prova. Ed ai giovani presenti dico: ascoltate ciò che il Signore vi propone nel profondo del cuore: «prestami le tue mani, i tuoi piedi, la tua intelligenza, il tuo cuore per essere una mia presenza». Moltiplica il pane chi lo spezza e lo condivide: Gli occhi di tutti a te sono rivolti in attesa… Tu apri la tua mano e sazi il desiderio di ogni vivente (Sal 144).

Gli apostoli chiedono a Gesù di congedare la folla, perché si dia da fare e vada a comprarsi il pane (suppongono che la folla non andrà spontaneamente). Gesù non la manda via, ma insiste: voi stessi date loro da mangiare. Bello il preoccuparsi dei discepoli. Più bella ancora la provocazione di Gesù: dare senza calcolo, mettere in circolazione i cinque pani e i due pesci. Due mentalità a confronto: quella di Gesù e quella degli apostoli e… la nostra. “A noi, che preghiamo: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano», il Signore risponde: «Voi date il vostro pane». «Dacci», noi invochiamo. «Donate», ribatte lui” (E. Ronchi). In questi giorni continuiamo ad assistere ad ondate di sbarchi di persone in fuga provenienti da paesi africani ed asiatici. Il problema è complesso ed ha tanti risvolti, ma ognuna di quelle persone è sorella e fratello. Mi piace ricordare come a Macerata Feltria la popolazione ha saputo vivere l’arrivo di quaranta migranti e come la nostra Caritas diocesana ne ha ospitato un gruppo nella casa di accoglienza a Secchiano.

Il prodigio che l’evangelista ci ha tramandato ha dei tratti e dei particolari che rinviano al Pane trasformato e che trasforma: l’Eucaristia. A chi non piacerebbe essere stato tra i cinquemila in quella sera, sulla riva del lago? Lo siamo ogni domenica, quando nella nostra parrocchia, o in una chiesetta di montagna o di mare, ci presentiamo al Signore con le nostre fragilità e i nostri mali, con la nostra fame e i nostri desideri: ceste piene di vuoto, unico credito che possiamo esibire. E Gesù viene in mezzo a noi. O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte. E il testo della prima lettura continua con la denuncia della nostra poca accortezza: Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia? Allora possiamo ripetere come Paolo: Di nulla mi vanterò se non della mia debolezza, e fare così, ogni domenica, la seducente esperienza di essere con Gesù, come i cinquemila, sperimentando la stessa gioia come quella provata dai discepoli di Emmaus. A stupire non è il numero dei presenti, ma quella prossimità di Gesù. Il Pane moltiplicato dell’Eucaristia è spesso prigioniero dei nostri tabernacoli dorati. Il Signore dice: Non si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Perché non dare all’adorazione eucaristica spazio e tempo? Perché non rileggere e reinterpretare la nostra vita in chiave eucaristica? Allora anche le mani si apriranno.

Festa di San Leone

S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2014

 

Mt 7, 21-27
Festeggiamo San Leo, scalpellino e missionario, insieme a San Marino architetto di una società costruita sul Vangelo. E la pagina di Vangelo che abbiamo ascoltato ci ripropone la parabola dei due architetti: uno costruisce la casa sulla roccia, l’altro sulla sabbia. Piogge, bufere, esondazioni non sono risparmiate né all’una, né all’altra casa. Ciò che fa la differenza – fuori di metafora – è se sono fondate sulla Parola di Gesù.
Penso alle nostre famiglie: case da costruire solidamente. E Gesù ha parole importanti sulla famiglia. Le conosciamo. Le accogliamo. Scommettiamo su di esse.
Gesù è entrato povero nel mondo e povero ha voluto rimanere fino a dire che non aveva una pietra dove posare il capo e una tana in cui rifugiarsi (cfr. Lc 9, 58). Ma ha voluto una famiglia! A questa non ha rinunciato.
La tradizione del nostro popolo ha sempre onorato la famiglia. Si dice che la famiglia oggi è in crisi. In crisi è la società; e, perché in crisi, condiziona, scoraggia, destruttura quella che è il suo primo elemento fondante.
Non abbiamo paura ad affrontare l’argomento, a prendere in considerazione le idee che mettono in discussione certezze assodate e le tendenze che sconvolgono equilibri che sembravano raggiunti una volta per tutte.
Non siamo paladini del “si è sempre pensato così” o del “si è sempre fatto così”. Non ci sottraiamo alla riflessione sulla famiglia: riflessione pacata, aperta al nuovo, condotta in tutta franchezza. Cogliamo questa opportunità. Mettiamo in campo – prima ancora della nostra fede – una visione di famiglia che si basa su un umanesimo integrale, sulla ragione e su quello che riteniamo il meglio per la nostra società. Non è detto che il meglio sia il più facile. Stolto sarebbe chi, per conquistare una montagna, pensasse di abbassarla anziché trovare sentieri.
Sulla scia dei Padri fondatori abbiamo sentieri praticabili. Mettiamo in rete testimonianze sulla bellezza della vita in famiglia, sulla ricchezza che apporta alla società, sul di più per la crescita dei bimbi, sull’aiuto indispensabile agli anziani e ai disabili, sulla pienezza di vita e di amore degli sposi.
La bellezza della famiglia salverà il mondo! Un progetto non solo bello… ma realizzabile!
Così intesa la famiglia non è solo una inevitabile istituzione o una consuetudine, ma è un’avventura aperta al dono di sé, al futuro di umanità più matura.
Le difficoltà che le famiglie incontrano (compresi i fallimenti) non smentiscono il progetto. Semmai, rappresentano una sfida che impegna tutti a trovare nuovi stili, a preparare all’amore e a pensare adeguate politiche famigliari. Non intendiamo mancare di rispetto a nessuno quando riconosciamo “famiglia” solo quella fondata sull’amore fra uomo e donna. Le persone che si uniscono diversamente da questa troveranno eventualmente altri riconoscimenti e altre tutele. Vivere è rispondere: effettivamente alla vita siamo stati chiamati. E siamo stati chiamati ad essere uomo e ad essere donna, impegnati a rispondere nella libertà a questa prima e originaria vocazione.
Il futuro dell’umanità dipende dal futuro della famiglia e il destino della famiglia è nelle nostre mani. Non sentite la vertigine di questa responsabilità?
Non siamo contro nessuno, né ci interessa lo scontro, vogliamo solo partecipare alla comune ricerca, offrire un servizio obiettivo e proporre itinerari educativi all’amore basati sulla dignità della persona. Perché il mondo sarà di chi lo ama di più!
«Cadde la pioggia, strariparono i fiumi, soffiarono i venti e si abbatterono su quella casa, ma essa non cadde, perché era fondata sulla roccia» (Mt 7, 26).

Permettete che dica una parola anche sulla “casa”, la famiglia che noi sacerdoti e religiosi abitiamo e vogliamo abitare con gioia: il nostro presbiterio. Il Signore che abbiamo scelto come il tutto della nostra vita è il fondamento roccioso della nostra casa. Ma ci aiuta pure quel sentimento bello e prezioso, conosciuto e coltivato da Gesù: l’amicizia. L’amicizia è una simpatia reciproca e una intesa profonda fra persone a volte molto diverse, ma non è basata sull’attrazione uomo-donna sesso come è l’amore coniugale. E’ unione di anime, non di corpi. In questo senso gli antichi dicevano che l’amicizia è “un’anima sola che vive in due corpi” (Aristotele).
L’amicizia può costituire un vincolo più forte della stessa parentela. E’ essenziale per l’amicizia che essa sia fondata su una comune ricerca del bene e dell’onesto. Quella tra persone che si uniscono per fare il male, non è amicizia ma complicità.
L’amicizia è diversa anche dall’amore del prossimo; questo deve abbracciare tutti, anche chi non riama, anche il nemico, mentre l’amicizia esige la reciprocità, la corrispondenza.
La Bibbia è piena di elogi dell’amicizia. «Un amico fedele è sostegno potente; chi lo trova ha trovato un tesoro» (Sir 6, 14). Ma anche la storia della santità cristiana conosce esempi di amicizie famose.
Certo, con Gesù la realtà dell’amicizia compie un salto di qualità, perciò Gesù ha potuto dire: «Non vi chiamo più servi, ma amici, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone» (Gv 15,15). Fondata su questo, la nostra amicizia è solida e non teme il soffiare dei venti, ossia le inevitabili cadute, il cadere delle piogge che minacciano di sgretolare gli ideali che tutti abbiamo scelto, lo straripare dei fiumi che sono le prove della vita e del ministero (andiamo a rileggere il n. 43 della Novo Millennio Ineunte sulla spiritualità di comunione). Amici inseparabili per l’amicizia all’Amico comune: Gesù!

La casa della famiglia, la casa del nostro presbiterio: un’unica casa, la casa più grande della Chiesa, fatta di pietre vive, basata sulla Pietra angolare che è Cristo, che ha per legge la legge della carità, per fine il Regno di Dio (cfr. LG 9). Anche alla Chiesa non saranno risparmiati soffio di venti, cadere di piogge, esondazione di fiumi. Ma «le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa» (Mt 16, 17). Anzi, «sarà veduta scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. […] Non ha bisogno della luce del sole, né della luce della luna: la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’Agnello. Le nazioni cammineranno alla sua luce e i re della terra le porteranno il loro splendore» (cfr. Ap 21). Questa la nostra fede; questa la nostra speranza; da qui la nostra carità!

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Piandimeleto, 27 luglio 2014

 

XVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

 

1Re 3,5.7-12

Sal 118

Rm 8,28-30

Mt 13,44-52

 

Tra i fatti di cronaca di questa settimana – l’inasprimento della guerra israelo-palestinese, l’esplosione di un altro aereo in volo, la sorprendente navigazione dell’ingombrante relitto della Costa Concordia, le schermaglie politiche in Parlamento per le riforme – ha rilievo la notizia di Meriam, la madre sudanese che, condannata a morte per apostasia da un tribunale islamico e costretta a partorire in carcere (incatenata) nell’attesa dell’esecuzione, ora è finalmente libera. Abbiamo conosciuto la sua fede semplice e forte. Una fede che l’ha sorretta durante il processo e la detenzione in piena gravidanza. Una fede alla quale non ha rinunciato neanche sotto l’antico e feroce aut aut: “Convertiti o muori”. Una fede che la fa sorella di sangue di tanti, troppi, perseguitati e, in particolare, di donne che nessuno penserebbe come “eroine”, ma che sono capaci, proprio come lei e come la cattolica pakistana Asia Bibi da più di cinque anni in prigione per la sua fede, di non cedere a minacce e a lusinghe, restando fedeli a se stesse e a Gesù Cristo.

Un esempio per tutti noi. Ma anche un appello a non restare inermi di fronte alle persecuzioni: mai come adesso così violente. Dovremo pensare ad una mobilitazione, cominciando dalla preghiera.

Il Vangelo che oggi viene letto in ogni comunità risponde in pieno alle domande che ci facciamo sul Regno di Dio. Tre brevi parabole. Gesù non le spiega; preferisce, questa volta, la provocazione alla didattica. I nazaretani, ad esempio, gli risposero picche. E noi? Come ci poniamo di fronte all’annuncio del Regno? E’ sufficiente la preghiera: «Venga il tuo Regno»? Gesù aveva esordito così: “A che cosa paragoneremo il Regno di Dio? Ad un tesoro nascosto? Ad un mercante di perle? Ad una rete piena di pesci?”. “Sì” – risponde. Ma, se pretendiamo una definizione, restiamo delusi. Gesù, parlando in parabole, propone un enigma da decifrare: il Regno è un tesoro che mette in cammino, un segreto di cui ci sfugge la chiave, un giudizio tra cose buone e cose cattive. Per questo bisogna darsi da fare come fa chi ha scoperto un tesoro, o come fa il cercatore di perle. Esplora il campo delle Scritture, il terreno della solidarietà e dell’amicizia. Non dobbiamo andare troppo lontano: perle e tesori, benché nascosti, sono già presenti nella nostra esperienza di fede (Parola e Sacramenti), nella nostra vocazione (famiglia, lavoro, responsabilità) e nella vita di chi ci vive accanto. Il tesoro, la perla, la rete piena di pesci dicono la grandezza assoluta del Regno, un valore che relativizza ogni altro valore. Chi riconosce questo è disposto a tutto: cede tutte le altre perle. Nella parabola del tesoro viene sottolineata l’astuzia richiesta al cercatore. Apparentemente il bracciante della parabola è ingenuo (vende tutto per comprare quel campo) e – immaginiamo – avrà dovuto mettersi al riparo dal sarcasmo dei compaesani per quello strano investimento. Il discepolo non deve lasciarsi sviare dall’ironia di coloro che si credono furbi: il Regno di Dio, sì, è un vero affare! Il mercante di perle lancia una sfida: per “trovare” mettiti in un lungo e faticoso sforzo di ricerca, in un metodico itinerario di conversione. Se con la parabola della zizzania si proponeva una paziente attesa, con quella della rete piena di pesci si esige di rompere con gli indugi e di decidersi per Gesù!

Come fanno i martiri di oggi.

Giornata sacerdotale al Pellegrinaggio dell’ Ustal – Unitalsi Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Santuario della Santa Casa di Loreto, 24 luglio 2014

(da registrazione)

Davanti ai nostri occhi abbiamo la Santa Casa di Nazareth: mistero di prossimità e nascondimento che ha visto l’incarnazione del Figlio di Dio.
Nella sua vita terrena il Signore Gesù ha rinunciato a tutto, ma non ad avere una famiglia. In famiglia ha imparato ad amare e ad aver cura dei rapporti. Il Signore fa vedere che la nostra vita di tutti i giorni è vita di Dio, redenta, significativa. E’ una vita in cui anche un bicchier d’acqua offerto per amore non perde la sua ricompensa. Nella casa di Nazareth si vivono le virtù soprannaturali: la fede, la speranza, la carità. Si potrebbe vedere come ognuna di queste virtù viene interpretata da coloro che la abitano: Giuseppe, Maria e Gesù. Ma si praticano anche le virtù morali. Anche le virtù morali sono, in qualche modo, dono di Dio, perché, anche se prendono forma con l’esercizio del nostro impegno, si possono vivere meglio con l’aiuto della grazia. Allora, più tardi, quando potrete accarezzare le pareti della casa di Nazareth, vi propongo di lasciarvi andare alla contemplazione, ad immaginare come Maria si aggirava tra quelle pareti impegnata nei lavori di casa, come Giuseppe vi lavorava, con la presenza di Gesù in mezzo a loro.
Nella casa di Nazareth si vive la franchezza. Ricordate quando Giuseppe va sulle tracce del fanciullo Gesù, dodicenne, e gli dice: «Figlio, perché ci hai fatto questo?». Anche nella loro famiglia c’è il momento del rimprovero, il momento della verità. E Gesù replica al padre in modo sorprendente. In essa si vive la purezza, perché c’è il rispetto delle relazioni. Nella casa di Nazareth c’è anche l’obbedienza; Giuseppe è il capofamiglia, Maria è la sua sposa e Gesù, che è il figlio di Dio, è sottomesso a Giuseppe e a Maria. In realtà questa triade di persone si potrebbe capovolgere; in cima ci sarebbe Gesù e poi Giuseppe e Maria, ma Gesù accetta con amore e per amore questo capovolgimento. Un giorno i cristiani diranno: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Cristo Gesù, il quale pur essendo di natura divina spogliò se stesso facendosi obbediente». Nella casa di Nazareth si vive la povertà, la povertà concreta e la povertà spirituale, quella dei poveri di Jahvè, di coloro che tutto si aspettano da Dio. Mi viene da pensare, cari amici sacerdoti, alle nostre canoniche. Sono luoghi aperti, accoglienti, luoghi nei quali c’è armonia? Noi ci siamo riuniti questa mattina nel segno della croce. Non potremmo parlare delle relazioni che si svolgono nella casa di Nazareth senza contemplare il mistero fondamentale della nostra fede, il mistero della Trinità, perché, in fondo, nella casa di Nazareth si vivono rapporti trinitari. Adoriamo un solo Dio in tre persone. Un dogma che ci assicura che Dio non è in se stesso solitudine, ma movimento d’amore verso il “tu”, circolarità d’amore in cui ognuna delle tre divine persone è per l’altra, vive l’essere per. Il dogma della Trinità sta a dirci che l’essenziale in Dio è comunione, è relazione. Da questo noi capiamo l’importanza e la bellezza delle relazioni. Gesù nella sua vita pubblica ci apparirà come un cultore delle relazioni, in particolare dell’amicizia. E questo è molto importante soprattutto per noi sacerdoti, perché con la scelta del celibato, non abbiamo rinunciato all’amore, alla casa. Gesù si prende tutto il tempo necessario per far visita agli amici, frequenta le loro case, si ferma a cena, stabilisce un rapporto personale, “a tu per tu”, da cuore a cuore; spesso porta fuori dalla confusione i suoi interlocutori proprio per poter stabilire un rapporto più profondo. Per Gesù nessuno è anonimo e senza volto. Un giorno Gesù laverà i piedi ai discepoli, a Giuda si rivolgerà chiamandolo amico, pregherà per chi lo uccide, piangerà per l’amico sepolto da giorni, gioirà per il nardo profumato dell’amica, si chinerà su chi soffre; Gesù non cercherà servitori, ma andrà in cerca di amici e durante l’ultima cena potrà dire «non vi chiamo più servi, ma amici». Nell’orto del Getsemani, in preda all’agonia, cercherà sostegno dagli amici, si farà mendicante di amicizia; non solo la offre, la domanda. Noi siamo nell’era delle comunicazioni, ma ci sono anche tante barriere nel nostro tempo: culturali, etniche, religiose, politiche; si vivono pregiudizi e chiusure, ma il nostro DNA rivela che siamo fatti per la relazione, per amare così come ama Dio. Amare tutti, senza alcuna aggettivazione, simpatici o antipatici, giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani. E’ sorprendente come Gesù dica, durante l’ultima cena, «come io ho amato voi – e noi ci aspetteremo grammaticalmente «voi amate me», e invece: «così amatevi gli uni gli altri». E’ da questo che sapranno che siete miei discepoli». Certo, l’amore esige un superamento di sé per fare spazio all’altro, proprio come accade nel rapporto tra le tre divine persone, dove una si perde nell’altra. Non sono tre dei, non sono tre essenze. Se noi chiedessimo al Padre “chi sei?”, lui direbbe “io non sono”. Se chiedessimo al Figlio, e poi allo Spirito Santo “e tu chi sei?”, direbbero “io non sono; mi ritrovo nell’altro”. Una sola essenza, una sola natura in tre persone. Occorre andare di fronte all’altro e fare silenzio, un silenzio profondo di ascolto per mettersi nei panni dell’altro. Il Signore ci chiede questa ascesi della relazione.
La chiave per vivere la comunione è la croce. Il Vangelo ci ha condotti nella via della croce. E’ “l’ora”. Questa dizione, “ora”, non ha niente a che fare con l’orologio, ma ha un significato altamente teologico. In quell’ora Gesù introduce ancora una volta la tensione alla relazione. Ai piedi della croce – il momento solenne della redenzione del mondo, il momento in cui nasce la Chiesa, in cui Gesù effonde il suo Spirito – egli stabilisce un campo di profonde, autentiche, umane relazioni. Gesù, nel momento in cui offre se stesso al Padre, guarda dalla croce e vede sua madre, tre discepole e il discepolo amato, Giovanni. Un campo di intense relazioni. Certo, non ci si può fermare al sentimento, men che meno al sentimentalismo, ma la vita spirituale è una vita vera, dove talvolta ti batte il cuore, ti scende una lacrima, dove senti il buio, la lontananza del Signore (che poi non è lontano, semmai instaura con te un gioco d’amore). La vita spirituale è intensa vita affettiva.
Ebbene, Gesù dalla croce guarda sua madre e gli dice «ti affido Giovanni, il discepolo più piccolo», e a Giovanni dice «ecco tua madre» e lui «la prende nella sua casa». Possiamo sentire rivolte a noi quelle parole. Allora prendiamo Maria nella nostra casa, perché abbiamo tutti bisogno di una madre che si prenda cura di noi e lei ha bisogno di noi. Noi sacerdoti abbiamo bisogno ancor di più di imparare da lei, perché, anche se non fu “sacerdote”, ella compì un gesto sacerdotale: mise al mondo Gesù. Tra poco, noi insieme, metteremo al mondo Gesù nell’Eucaristia.
Maria, vieni nella nostra casa!