Omelia alle esequie di p. Adriano Somma

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Valdragone, 31 luglio 2015

Somma p. Maria Adriano dei Servi di Maria a Valdragone
Nato a Arta Terme (Udine) il 15 gennaio 1931
Ordinato sacerdote a Saluzzo (Cuneo) il 29 giugno 1956
Superiore del Convento Santa Maria dei Servi (Valdragone) dal 2005
Servizio pastorale domenicale a San Giovanni sotto le Penne

Is 25, 6-9
Sal 22
Gv 14, 1-6

«Vado a prepararvi un posto».

Permettete che apra questa meditazione con un racconto autobiografico.
Negli anni del Seminario, a ciascuno di noi studenti, veniva affidato un posto: un posto in cappella, in refettorio, a scuola, in fila, nello studio, ecc.
Gli educatori, di tanto in tanto dettavano “posti” nuovi (il cambio del posto era sempre un avvenimento).
L’unica eccezione era ammessa il sabato sera quando, nel teatro del Seminario, si assisteva alla proiezione di un film. Qui non c’erano “posti obbligati”. Erano liberi. Ricordo la gioia quando uno dei miei compagni “mi teneva il posto”. Mi capitava di sentire: “È occupato per Turazzi” (ci si chiamava, per lo più, per cognome). È un lontano ricordo, ma ne faccio uso per dire l’effetto che provo nel leggere le parole forti di Gesù: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti… vado a prepararvi un posto». C’è un posto che Gesù riserva per me; per ciascuno. C’è il posto che Gesù ha riservato a padre Adriano. Il “posto” di cui parla Gesù non è un luogo come noi intendiamo in senso spaziale. Noi veniamo collocati – per così dire – nella “cubatura” dell’amore ricco di misericordia del Padre. Un luogo di cui Paolo scrive nella Lettera agli Efesini e di cui vorrebbe dire «la lunghezza, l’altezza e la profondità…» (cfr. Ef 3,18).
Nel colloquio intimo della preghiera e nelle situazioni più svariate della vita, come di fronte a questa bara, lasciamoci toccare dalle parole di Gesù: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me».
Parole necessarie, per colmare le nostre solitudini… ma non è vero che siamo soli, perfino i capelli del nostro capo sono contati (cfr. Mt 10,30). «Io sono ancora con te» (cfr. Sal 138,18) – dice il Signore, e come ci assicura nel Salmo: «Se dovessi camminare per una valle oscura, tu sei con me» (cfr. Sal 22).
Parole utili, per curare le nostre fragilità; mi distolgono dall’inconcludente ripiegamento su di me, mi aiutano ad andare oltre le mie piaghe.
Parole belle, per il tempo della nostra Pasqua, del nostro passaggio: il giorno sconosciuto, ma non lontano, della nostre morte.
Gesù ha indirizzato queste parole ai discepoli per prepararli al distacco da lui. Sono parole pronunciate per ciascuno di noi, lette chissà quante volte da p. Adriano, come da noi sacerdoti per ogni commiato.
Permettete una sottolineatura, un dettaglio di straordinaria tenerezza e misericordia: Gesù sale al Padre, ma non prenota stanze all’Inferno, perché non sa immaginarsi senza di me, senza di noi…
Ognuno riascoltando quelle parole può dire: Gesù è andato a preparare un posto per me; mi aspetta nella sua casa; mi vuole con lui. Non gli basta l’esercito di angeli che sono nel cielo, l’assemblea candida dei martiri e delle vergini. Non gli basta! Sentite le parole che pronuncia il Signore per ciascuna delle sue creature: «Se dovrai attraversare le acque, sarò con te… se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai […], perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo» (cfr. Is 43,2.4).
Non dubitiamo certo della possibilità reale dell’Inferno, ma anche la Chiesa nel suo millenario cammino di verità non ha mai canonizzato la discesa di qualcuno all’inferno, mentre mi chiede di credere che migliaia di santi e beati popolano il Cielo.
È una casa vera quella nella quale siamo attesi, luogo di intense relazioni, non un regno di ombre. Una casa bella, non meno di quella dove è tornato il figlio prodigo, tra buona musica e danze (cfr. Lc 15,24-25). La casa nella quale il Signore stesso prepara «un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati […]. Eliminerà la morte per sempre. Il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto» (cfr. Is 25, 6.8).
Ho aperto una conoscenza confidenziale con padre Adriano, in modo piuttosto singolare. Ero venuto qui al convento per chiedergli perdono: avevo dimenticato di citare la famiglia dei “Servi di Maria” nell’elenco delle comunità di vita consacrata presenti in diocesi. Fu molto sorpreso e poi benevolo, per nulla indispettito. Incoraggiato dal suo modo di relazionarsi aperto e ironico, sono tornato più volte, anche per rinnovare l’invito a partecipare agli appuntamenti diocesani. Non è mai venuto… ma mi offriva il convento come luogo per i nostri incontri presbiterali. La confidenza mi ha incoraggiato a stringere un patto con lui, ormai morente. Questo il patto: il primo di noi due che morirà porterà il saluto dell’altro alla Madonna. Penso che padre Adriano abbia portato il mio e il nostro saluto alla Madre di Dio!

Omelia XVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

GESU’ SI PRENDE CURA DI NOI, COMPLETAMENTE

Santuario Madonna del Faggio (Eremo di Carpegna), 26 luglio 2015
2Re 4,42-44
Sal 144
Ef 4,1-6
Gv 6,1-15

Permettetemi di iniziare il commento al Vangelo con un racconto. In una città del Brasile un ragazzo andava di chiesa in chiesa partecipando a tutte le messe e, ad ognuna, faceva la comunione. Il missionario gli dice: “Tu vuoi molto bene a Gesù”. “No – risponde – ho soltanto fame”. Nella sua povertà aveva trovato uno stratagemma: mangiare più ostie possibili, piccolo soccorso alla sua fame. Al Signore non credo dispiacesse l’intraprendenza del ragazzo. Certo, non si deve confondere il pane ordinario col Pane eucaristico, il cibo corporale col cibo spirituale. Gesù nel racconto della moltiplicazione invece si scandalizza della fame di tanta gente… Mette in moto la sua potenza creatrice per saziare quelle pance vuote.
E’ venuto per esseri fatti di carne e di sangue, non per angeli. Egli viene a salvare uomini e donne in tutte le dimensioni della loro esistenza: c’è dunque una fame del corpo, una fame del cuore, una fame dello spirito. Gesù si propone come colui che sfama interamente: l’una e l’altra e l’altra ancora.
Il racconto giovanneo della distribuzione dei pani (possiamo anche chiamarlo così) è, prima di tutto, – a differenza dei racconti sinottici – una pagina di rivelazione: insieme alla compassione di Gesù, e molto di più, vien proclamata la sua identità (per questo non sono dettagli secondari quelli riferiti da Giovanni: il salire di Gesù sulla montagna, la prossimità della festa di Pasqua, la molta erba di quel luogo, il rendimento di grazie, il distribuire di persona…).
Davanti a Gesù c’è l’uomo, la creatura che ha bisogno: bisogno di Dio e di assoluto, di cure e di pane. Alla perplessità degli apostoli, Gesù non reagisce congedando la folla (nei sinottici il suggerimento è esplicito: Mandali via…). Gesù non ha mai mandato via nessuno. Replica con l’invito al più piccolo dei presenti a condividere i cinque pani e i due pesci portati da casa, nessuno può essere semplice spettatore. Quel ragazzo è ognuno di noi, invitato a ritrovare la giovinezza che è in lui.
Ad ogni Eucaristia il Signore ci cerca e ci chiama: «Beati gli invitati alla cena del Signore…». Mentre ci dà il suo Corpo e il suo Sangue vuole anche farci attenti al corpo e al sangue dei fratelli. Infatti il corpo è offerto, il sangue è versato: la legge dell’esistenza è il dono di sé. A noi, ora, la responsabilità di “moltiplicare pani”, di condividere i nostri cinque pani e i due pesci…

Omelia Solennità del Corpus Domini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Castello di Montemaggio, 7 giugno 2015

 

Carissimi,
chissà perché solo a sentir parlare di messa proviamo un senso di noia. Capisco i ragazzi; ma noi adulti…
Dobbiamo ammettere che talvolta il modo di celebrare, il tono delle omelie, le ripetizioni, la pressione delle preoccupazioni personali posso­no condizionare negativamente. Ma al fondo del­la nostra difficoltà forse sta un’idea sbagliata della messa. Si pensa alla messa come ad un pesante contenitore di preghiere, lungo un’ora (quando va bene!). Un obbligo da assolvere in compagnia di sconosciuti, in un ambiente torrido d’estate e geli­do d’inverno. Un contenitore di preghiere com­plesse, estranee al linguaggio corrente, accompa­gnate da una gestualità lontana e ieratica. Preghiere che altri ci mettono sulle labbra (noi avrem­mo in cuore ben altro da dire al Signore) e a cui dobbiamo rispondere con formule stilizzate: “e con il tuo spirito”, “amen”, “Deo gratias”.
No! la messa non è un contenitore di pre­ghiere.
Se vogliamo “entrarci” consideriamola un avvenimento.
Durante la messa succede qualcosa.
Andiamo subito al centro del­l’avvenimento. La messa si apre con i “riti d’inizio”, servono alla pre­parazione dei partecipanti con umile riconosci­mento della comune condizione di peccatori.
Per prima incontriamo la liturgia della Parola, così viene chiamata la lettura ed il commento ai brani biblici, immancabili in ogni celebrazione. La messa ha – per così dire – una duplice mensa: quella in cui si spezza il pane della Parola e quella in cui si spezza il pane eucaristico (cfr. Sacrosanctum Concilium).
La messa ha una sua logica, un suo sviluppo ed una sua dinamica. Ho conosciuto persone che andavano a “prendere messa” (come dicono loro impropriamente) nel Duomo dove le messe si susseguono una dopo l’altra. Ne prendono metà dalla celebrazione precedente e proseguono con la successiva, come fa chi va al cinema a partire dal secondo tempo. Ma nella messa non siamo spettatori. Partecipiamo. Preoccupiamoci delle “cose da fare”. Incominciamo col mettere sull’altare il nostro vis­suto, le nostre giornate, la cesta colma delle fatiche e delle gioie: il pane ed il vino che il sacerdote sta per offrire ne sono il simbolo. Perché quest’operazione non sia generica diamo un nome preciso a quello che offriamo. Questo è il momento dell’offertorio.
Dopo il canto dell’ “Osanna a Colui che vie­ne” (o “Santo”) siamo coinvolti in un racconto che da duemila anni i cristiani ripetono con assolu­ta fedeltà. È incredibile come, nell’era degli spot, della tele-comunicazione, il racconto non abbia perso la sua forza. Ce ne accorgiamo (lo sentiamo e lo vediamo) guardandoci attorno: un’assemblea s’ingi­nocchia, si raccoglie in un profondo silenzio (non lo guasta neppure lo strillo improvviso di un bimbo!); il sacerdote si china e sussurra: “La notte in cui Gesù fu tradito, prese il pane, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli e disse: pren­dete e mangiate questo è il mio corpo dato per voi…”. Il racconto prosegue. Il pane ed il vino vengono presentati all’assemblea. Anche un amico non cristiano sospetterebbe che è accaduto qualcosa di grande. Il cristiano ha la fortuna di sapere che Gesù si è fatto presente nel dono di quel pane spezzato. È il momento della consacrazione.
Un miracolo? Di più. In quel gesto è ripresen­tata, resa attuale e sintetizzata tutta la vicenda di Gesù Figlio di Dio incarnato, che condivide la nostra vita e ci fa dono della sua (solo un sacra­mento può realizzare efficacemente questo miste­ro e renderci contemporanei ad esso).
Il racconto suscita, ogni volta, stupore. Coinvolge: ecco, veniamo rapiti in un movimento ascensionale che ci trasporta nel seno del Padre. Siamo collocati nel “sì” che Gesù ha detto al Padre. Non è il momento di abbassare gli occhi sulle nostre infedeltà e sui nostri peccati. Fissiamo l’ostia e il calice che il celebrante innalza sull’altare più che può. Consideriamo con quanta forza lo Spirito Santo – “Amore effuso nei cuori” (cfr. Rm 5,5), così i primi cristia­ni chiamavano la terza Divina Persona) – ci fon­da con Gesù e ci sospinga come fa il vento che gonfia una vela. Dobbiamo solo dire – anzi, cantare – “amen!”. La nostra adesione intercetta e si unisce a quella di un popolo intero: “Per Cristo, con Cristo e in Cristo, a te Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e glo­ria per tutti i secoli dei secoli”.
Il fiato che esce dai nostri polmoni e si fa can­to è risonanza dello Spirito. E siamo voce di ogni creatura. Questo è un momento centrale della messa, a volte scivola via e ci sfugge: è il momento della dossologia.
Ho visto in una chiesa un pregevole bassorilievo in marmo bianco. Vi è scolpito un pellicano che si squarcia il petto per nutrire di sé i suoi piccoli.
Fin dall’antichità il pellicano è simbolo euca­ristico. Un inno medievale (autore Tommaso d’Acquino) canta così: “Pie pellicane, Jesu Domine”. Gesù ci nutre di sé; disponibile per saziare la nostra fame. Fame di che cosa se non di lui, pane vivo disceso dal cielo (cfr. Gv 6,51)?
Siamo al momento tanto atteso e desiderato della comunione. Ci si preparare pensando e considerando a chi si va a ricevere (a questo serve anche l’ora di digiuno richiesta prima della comunione) ed essendo in comunione autentica con il Signore (nella sua grazia). Dovremmo stimare tanto la Comunione da detestare il peccato e le sue false promesse. Conosciamo la fatica di sbarazzarsi del peccato. Ci hanno insegnato, tuttavia, che non è il peccato a tenerci lontano da Gesù, ma il non volerci riconciliare con lui. Il perdono di Gesù ogni volta sor­prende, turba, disarma, converte, conquista, abbraccia, fa crescere…
A Dio importa molto anche di chi, in que­sto momento della vita, forse, non può accostarsi al sacramento, ma, intanto, può fare comunione con la parola di Gesù e con lui nel fratello. E questo non è davvero poco.
Ci pare poco?
 

Omelia e Processione per il Corpus Domini a San Marino

Basilica di San Marino, 4 giugno 2015

Omelia

Domenica scorsa una ragazza “ha preso il velo”, cioè si è consacrata al Signore nel monastero delle Adoratrici, Adoratrici del SS. Sacramento perennemente esposto nella loro chiesa. Ho partecipato al rito con una profonda commozione. Ho preso la parola concludendo più o meno così: “Suor Annunziata con la dedicazione della sua vita all’Eucaristia testimonia come sia grande questo sacramento. Per esso vale la pena spendere tutta una vita. L’Eucaristia è il bene più prezioso che abbiamo e per il quale non basta una vita intera per capirlo, adorarlo, amarlo…”.
Suor Annunziata è una provocazione per noi: siamo chiamati a fare dell’Eucaristia il centro della nostra vita, la fonte e il culmine della vita delle nostre comunità, l’abisso senza fondo della corrispondenza amorosa tra noi e il Signore.
Sull’altare, in quel pane e in quel vino, Gesù non è presente in un qualche modo, ma come corpo spezzato e sangue versato. Quando leviamo i nostri occhi verso l’ostia contempliamo il corpo di un uomo “spezzato e versato”, che cioè si dona per gli amici e che non risparmia nulla per sé.
E poiché l’Eucaristia ci fa un solo corpo con Gesù, quando diciamo le parole: “Questo è il mio corpo dato per voi… Questo è il mio sangue versato per tutti…” le diciamo di Cristo, ma le diciamo anche di noi stessi.
L’Eucaristia è pericolosa, perché ci rimette in discussione: il Corpo di Cristo contesta il nostro modo gretto di vivere, le attenzioni meticolose per il nostro corpo, il nostro istinto al risparmio della fatica, la nostra abitudine a spenderci col bilancino.
L’Eucaristia è un rischio, perché ci fa promettere di vivere un’esistenza donata: “Mangiatemi pure, consumatemi, usatemi. Il mio Corpo – dice il discepolo come il suo maestro Gesù – non è mio, è per voi. Le mie energie, il mio tempo, è a vostra disposizione”.
Con la Comunione riceviamo il Signore, la sua mentalità e la sua forza per vivere come lui. In lui il nuovo umanesimo!

Monizione per la processione

Perché una città interrompe la sua routine – come fa San Marino – per celebrare il Corpus Domini? Perché è un’antica tradizione? Ancora oggi suscita curiosità e viene osservata dai turisti come folclore. Questo ci indispettisce, ma saremmo dispiaciuti se la città rifiutasse questo segno esterno. Noi diciamo: non una fede senza festa.
Confrontando col passato, oggi la città ci appare piuttosto spopolata. Essa è il luogo del lavoro, dello stress, della fatica e nel “dì di festa” c’è chi esce per qualche ora di vacanza.
La nostra città di San Marino conosce però anche l’abbandono – soprattutto nel centro storico – dei tanti che cercano altrove lavoro e sistemazione. Tuttavia la città saluta la festa del Corpus Domini anche come occasione di una pausa a metà settimana, quando l’estate fa sentire le prime vampe di calore. Ci viene da osservare: ma è festa senza fede?
C’è un popolo che esce festante per le vie della città. Porta con solennità un Pane. Per la fede in Colui che in quel pane è presente canta la sua gioia al “Dio con noi”, come Davide che dice: “Davanti a Jahvè io danzo”!
Qualcuno potrebbe paragonare la processione al cammino delle tribù di Israele attorno alle mura di Gerico: fu per conquistare quella città.
In verità, questo popolo che esce con il Santissimo Sacramento dell’Eucaristia è mosso da una sincera e profonda “cortesia”: vuole col suo passaggio benedire la città, le sue istituzioni, le sue attività. Portare il Corpo di Cristo tra le case è un “dire bene” della vita, della famiglia, del lavoro, della scuola, della relazione, ecc.
Non è di questo popolo la strategia della fuga dalla città e tanto meno la strategia dell’aggressione. Semmai, la sua strategia è quella della presenza per collaborare, costruire, migliorare, ricominciare, se è necessario.
È festa della Visitazione: Dio visita il suo popolo.
Sì, percorriamo la città per aiutarci a cogliere tutta la dimensione pubblica e sociale della nostra fede e per aiutarci a stabilire rapporti tra la nostra fede ed i problemi dei fratelli e del mondo. Ciò esige per noi di rivedere il nostro rapporto col mondo, che oggi non può che essere missionario: di una missionarietà soave e forte insieme, soave nella bontà del dialogo, rispettosa e amante delle persone; forte nella consapevolezza dell’identità del dono a noi fatto e della coerenza necessaria per custodirlo, difenderlo e diffonderlo.
Dio ci benedica.

Solidarietà per il Nepal

I riflettori vanno via via spegnendosi sulle rovine lasciate dallo spaventoso terremoto che ha colpito il Nepal, i suoi villaggi, le sue città e la favolosa capitale Katmandu. Dopo una prima mobilitazione segnata dall’emotività, viene il momento di un intervento più mirato. Lo faremo sabato e domenica prossima 16/17 maggio con una colletta straordinaria che inoltreremo alle popolazioni terremotate attraverso la Caritas. Faccio appello alla sensibilità di tutti per una offerta generosa. “Dio ama chi dona con gioia” (2Cor 9,7).
Apprezziamo tutti coloro che si sono mossi nella solidarietà: istituzioni, organizzazioni umanitarie, semplici cittadini.
In occasioni come queste ci si fanno molte domande. È possibile prevedere le catastrofi naturali? In che modo soccorrere efficacemente le popolazioni colpite? Come ricostruire?
Il credente ha altre domande ancora: perché il Signore lascia che i suoi figli cadano nella trappola di un gigante oscuro? Perché nell’ora più impensata? Come vivere da credenti tali tragedie?
La prima risposta è la solidarietà. La seconda è il riconoscimento dell’assurdità delle divisioni fra gli uomini, tutti equamente figli della fragilità. Sì, la nostra vita sulla terra è caduca, in balia di molte eventualità, scandita da tanti “addii”. E ci sono pure i terremoti nell’anima, ugualmente devastanti. Quanto stolte sono le nostre presunzioni e ridicole le nostre meschinità.
“Non abbiamo quaggiù una stabile dimora” (Ebr 13,14). Siamo di passaggio, ma non per questo meno responsabili e impegnati. L’anima credente si acquieta e, pensando alle vittime, esclama: “Sono tutti vivi”! E prega: “Solo tu, Signore, non passi”. Mai leggere la disgrazia come punizione divina, semmai come un’occasione di discernimento: guardarsi dentro e proporsi l’essenziale. È un appello alla conversione.
Aiutiamo, preghiamo, stiamo uniti.
 
+ Andrea Turazzi, vescovo

Omelia IV Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 26 aprile 2015
 
At 4,8-12
Sal 117
1Gv 3,1-2
Gv 10,11-18

La Chiesa è tutta inondata di gioia e di luce: splendore del tempo pasquale! Le nostre assemblee ripetono “Alleluia!” a non finire.
La liturgia ci ha consegnato simboli ricchi di allusioni: il cero pasquale (Gesù risorto che apre un nuovo esodo), la colomba che stende le sue ali su di noi (la risurrezione è potenza di Spirito Santo che sconfigge la morte), il pellicano che sfama e disseta di sé i suoi piccoli (Gesù che ci fa vivere della sua stessa vita attraverso i sacramenti).
Siamo accompagnati per un cammino di fede attraverso tappe suggestive: la tomba vuota (Gesù non è qui!), la locanda di Emmaus dove viene benedetto e spezzato un pane (presenza di Gesù risorto nell’Eucaristia), il Cenacolo dove Gesù si fa toccare, rimette i peccati, dona lo Spirito e invia i discepoli nel mondo.
Di domenica in domenica andiamo sempre più in profondità nella comprensione del mistero pasquale. Questa domenica – la quarta – segna una svolta: dalle apparizioni del Risorto alla sua presenza nella Chiesa.
Non possiamo dirci cristiani senza appartenenza alla Chiesa. L’equivoco nasce talvolta quando si pensa e si parla della Chiesa unicamente con criteri sociologici. In realtà la Chiesa è il corpo stesso di Gesù: un corpo mistico, ma reale, del quale Gesù è il capo e noi le membra, stretti insieme da una profonda comunione, inaugurata nel battesimo. La legge di questo corpo consiste nel vivere l’uno dell’altro e l’uno per l’altro. Per insegnarci questa legge Gesù si è servito della metafora del pastore, assai eloquente per i suoi contemporanei. Gesù è pastore e ciascuno di noi è, in certo modo, pastore per qualcuno. E’ il titolo più disarmante e disarmato che ci sia. Il testo greco aggiunge per Gesù l’aggettivo “bello”, il “bel pastore” (solitamente noi diciamo buon pastore). Preferisco attenermi alla traduzione letterale. Con che cosa affascina il bel pastore? Con un verbo ripetuto cinque volte nello stesso brano: io offro la mia vita; la mia vita per la tua! Questo è il comando – aggiunge Gesù – che ho ricevuto dal Padre mio, il comando che fa bella la mia vita! Vuoi che anche la tua sia bella? Sai cosa devi fare: continua a donarti e a spenderti. Ricorda il progetto di vita che ha entusiasmato l’apostolo Paolo: Mi sono fatto tutto a tutti, per guadagnare ad ogni costo qualcuno (1Cor 9,22). E’ il tema Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni di quest’anno: “E’ bello con te”, aggiungerei: «E’ bello… per te»!
Questa la bella notizia (Vangelo), questo l’asso nella manica per la nuova evangelizzazione. Il mondo sarà di chi lo ama di più: e chi l’ha amato e l’ama più di Gesù? Vorrei sentissimo, forte e calorosa, la premura di Gesù buon pastore verso tutti. E, a nostra volta, prenderci a cuore gli uni gli altri, disposti ad offrire la vita: genitori e figli, fratelli e amici, consacrati e laici. Questo è il senso dei giorni speciali che stiamo vivendo.

Veglia di preghiera per le Vocazioni

Santuario B. Vergine delle Grazie di Pennabilli, 25 aprile 2015

Celebriamo una “Giornata” ma è tutto il tempo, tutta una vita, tutta una comunità, tutta la Chiesa che proclama e vive lo splendore della chiamata; la chiamata è una esperienza fondamentale che sta all’inizio di tutto: la chiamata all’esistenza, la chiamata alla comunione, alla relazione ed al servizio, chiamata ad essere insieme sacramento per il mondo (cfr. LG 1).
Si celebra una “Giornata” per essere più consapevoli ogni giorno e sempre. Una “Giornata” per focalizzare un aspetto della vocazione, un contenuto o una sua articolazione, tanto è ampio il significato della parola vocazione e forte la sua esperienza.
È una “Giornata” che si ripropone ogni anno (così dal 1964 per volontà di Paolo VI) alla IV Domenica di Pasqua, quando tutta la Chiesa, sposa del Signore, ha gli occhi puntati sul “Pastore bello” e ne gode.
La sposa-Chiesa sente che il Pastore è vivo ed è presente, che si prende cura di lei, la nutre, la guida, la difende… Il Pastore continua a farsi presente attraverso pastori e suggerendo a tutti, secondo modalità diverse, di prendersi cura di qualcuno: «Farsi tutto a tutti, per guadagnare ad ogni costo qualcuno» (1Cor 9,22). Ecco un aspetto della vocazione, precisamente alla vocazione come responsabilità, cioè risposta all’esistenza, agli altri, a Dio. Vivere è rispondere!
Chi non risponde non vive o vive senza orizzonte. La logica della vita ha un nome: vocazione. Questo è il progetto fondamentale che Dio ha posto nel cuore di ogni uomo.
La difficoltà ad intendere oggi la vita come vocazione oggi sta nel fatto che siamo portati a ritenerci unici artefici e gestori del nostro destino e quindi “senza vocazione” e, individualisticamente ci viene da pensare che non “dobbiamo” nulla a nessuno, se non a chi decidiamo noi volta per volta.
Ma la vita è dono e va accolta nel disegno di amore di Dio (cfr. CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, 23).

Qual è il primo impegno per la promozione delle vocazioni?
La preghiera. La preghiera è il cardine della pastorale vocazionale ed è una pastorale che, per sua natura, è trasversale a tutti gli ambiti. Di fronte al gregge senza pastore e alla messe abbondante, Gesù invita alla preghiera.
La preghiera fatta con fede ottiene.
La preghiera educa e fa bene anzitutto all’orante che, in coerenza con la sua invocazione, dice la sua disponibilità, si mette in ricerca, o rinnova la risposta: “Signore, cosa vuoi che io faccia? Come servirti?”.
La preghiera per le vocazioni formulata da Gesù in Mt 9, 35-38 mette in un atteggiamento di fede contro ogni forma di avvilimento o rassegnazione. «La messe è abbondante…, pregate il padrone della messe perché mandi operai». Parole che sorprendono “perché tutti sappiamo che occorre prima arare, seminare, coltivare, per poter poi, a tempo debito, mietere una messe abbondante. Gesù afferma invece che «la messe è abbondante». Ma chi ha lavorato perché il risultato fosse tale? La risposta è una sola: Dio” (Papa Francesco, Messaggio GMPV, 11-05-2014).
Spesso, guardando la realtà con le sue sfide si viene presi da negatività e depressione.  Di fronte al testo evangelico “la messe è abbondante, gli operai sono pochi”, l’attenzione è subito catturata dalla seconda parte della frase, trascurando la prima. Si è dominati, così, da sentimenti di preoccupazione, di tristezza e sconforto. Orientiamo il nostro sguardo invece sull’abbondanza della messe, cioè sul “lavoro” che fa Dio, per aiutarci a cogliere le meraviglie che Dio opera, a coltivare speranza, a vedere bellezza.

Siamo al tema che è stato suggerito per questa Giornata Mondiale delle Vocazioni: “È bello con te!”; la vocazione come scoperta ed esperienza di bellezza.
Una definizione di bellezza? La bellezza è lo splendore del vero: la verità di un Dio che amandomi mi desidera, desiderandomi mi vuole, volendomi mi chiama. La verità della mia piccola vita con il suo destino, la responsabilità e il servizio. La verità dell’altro che ha bisogno anche di me per aprirsi e sbocciare, come io ho bisogno di lui.
“È bello con te!”. Sono parole che posso immaginare pronunciate da Dio nei miei confronti, oppure pronunciate da me nei confronti di Dio. E reciprocamente l’uno nei confronti dell’altro.
C’è una pagina che vorrei evocare. L’ha scritta un innamorato, Sant’Agostino.
“Tardi ti ho amato, bellezza così antica e così nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me, e io fuori. E là ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Tu eri con me, ma io non ero con te. Mi tenevano lontano da te quelle creature che non esisterebbero se non esistessero in te. Mi hai chiamato, e il tuo grido ha squarciato la mia sordità. Hai mandato un baleno, e il tuo splendore ha dissipato la mia cecità. Hai effuso il tuo profumo; l’ho aspirato e ora anelo a te. Ti ho gustato, e ora ho fame e sete di te. Mi hai toccato, e ora ardo dal desiderio della tua pace” (S. Agostino, Confessioni, 10.27.38).
Per grazia di Dio non è mai troppo tardi per ritrovare lo slancio di questa scoperta. A noi il compito di riscoprire e far riscoprire il lato bello di Dio, della vita con lui.
“È bello per noi essere qui!”, fu l’incontenibile incanto di Pietro sul monte della trasfigurazione.
Questa sera celebriamo la bellezza di sentirci voluti, desiderati, amati e chiamati.
Come Maria: «Il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva e tutte le generazioni mi chiameranno beata» (Lc 1,48).

Permettete che saluti e ringrazi gli operatori della Pastorale Vocazionale, in particolare il Centro Diocesano Vocazioni. Ritengo opportuno definire l’attività ed il servizio del CDV come presenza di provocazione e di accompagnamento.
Tale indicazione esige, però, una precisazione. La vocazione, dono di Dio, sboccia dove c’è vita e vita cristiana: la vita nasce dalla vita. Pertanto, nessuna attività può supplire il necessario humus da cui sbocciano le vocazioni; insostituibile allora la testimonianza gioiosa dei chiamati e una significativa e bella vita parrocchiale e di comunità. Decisiva la cura pastorale dei parroci e dei direttori spirituali.
La provocazione è il servizio che il CDV rende alle comunità per tenere vivo l’annuncio vocazionale e consiste nell’incontro, anche se – per forza di cose – non potrà essere frequentissimo, con ragazzi, giovani e adulti: tutti hanno il diritto di sentire la proposta vocazionale.
L’accompagnamento è il servizio che il CDV si propone di offrire a quanti desiderano applicare un tempo del loro cammino di fede al discernimento vocazionale ed alla coltivazione degli eventuali germi di vocazione. Poi toccherà a luoghi specializzati curare ulteriormente il discernimento e la successiva preparazione.
Il CDV tiene viva la “tensione” vocazionale attraverso la collaborazione di animatori. Ogni parrocchia dovrebbe esprimere qualche persona che tiene presente questo servizio: sostiene la preghiera personale e comunitaria per le vocazioni (adorazione eucaristica per le vocazioni, “monastero invisibile”), segnala le iniziative del CDV, prepara la Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni e “l’avvento vocazionale”, si tiene informato sulla vita del seminario diocesano e delle famiglie religiose in diocesi. Il CDV avrà cura della formazione permanente degli animatori e li convoca alcune volte nel corso dell’anno pastorale. In diocesi c’è già una realtà di questo tipo da sostenere e rivitalizzare: l’OVE (Opera Vocazioni Ecclesiastiche).

Un appuntamento speciale per i giovani: la GMG diocesana del 16 maggio. Avremo la gioia di avere con noi anche i giovani che si preparano al ministero sacerdotale o alla consacrazione religiosa, e con loro quanti hanno appena fatto questo passo importante nella loro vita.

Omelia Domenica in Albis – Ordinazione diaconale di Pier Luigi Bondioni

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Cattedrale di Pennabilli, 12 aprile 2015
 

At 4,32-35
Sal 117
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31

Abbiamo iniziato con una preghiera sublime che interpreta una molteplicità di sentimenti. Una preghiera che abbiamo innalzata “al Dio di eterna misericordia” accompagnata dai nostri canti (oggi è la Domenica della Divina Misericordia).
“Signore, ravviva la fede”, perché diventiamo consapevoli di come tu sei all’opera nella nostra vita.
“Accresci la grazia”, cioè l’esperienza della tua prossimità in ogni circostanza della nostra esistenza, avvolgendola di sacralità.
“Donaci di comprendere”:
l’inestimabile ricchezza del Battesimo, perché non resti confinato nel ricordo dell’infanzia e le sue acque gorgoglino costantemente le Parole che il Padre ha pronunciato su di noi: “Tu sei mio figlio, l’amato, sorgente della mia gioia (oggi è la Domenica in Albis);
lo Spirito che ci rigenera, effuso nei nostri cuori dal Signore Risorto, lo stesso Spirito che aleggiava sulle acque primordiali, che ha reso divino l’uomo fatto di creta.
il Signore che ci ha redenti con un atto d’amore costato il suo sangue, sangue che ci fa popolo regale, profetico e sacerdotale, assemblea santa!
Ma questa sera non possiamo non cantare anche la grazia e la gioia dell’ordinazione diaconale di un fratello: Pier Luigi.
Ma chi è il diacono? Propriamente uno al quale il Signore fa il dono di diventare come lui, servo. È una grazia essere servo? Preciso. Non un servo stipendiato; non un servo a ore o a cottimo. Il ministero non viene conferito in vista di una carriera (qui non è ammessa altra carriera che la scalata alla santità!), né in vista di vantaggi particolari e – fuori di metafora – non per autorealizzazione (anche se il diacono sperimenta quanto è bello servire il Signore e come allarghi il cuore dedicarsi agli altri più che a sé). Il diaconato non è un contratto a tempo: “Prima mi sbrigo e prima sono libero; poi mi dedico a me stesso e ai miei hobby”. Non è una professione da svolgere, magari nel migliore dei modi, nel posto che mi piace di più (Caro Pier Luigi ricorda il testo della Imitazione di Cristo, oggetto delle nostre meditazioni: “Immaginatio locorum, multos fefellit”!). Ma allora, che cosa è il diaconato? Perché è una fortuna?
Il diaconato è una dimensione nuova che configura il candidato a Gesù Cristo servo mediante il sacramento dell’Ordine, con tutte le grazie proprie, e che rimane come segno indelebile in chi lo riceve con l’imposizione delle mani del Vescovo.
“Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali”. Il nostro Redentore fu essenzialmente servo, servo della nostra Redenzione. E tu, Pier Luigi, diventi a tua volta servo della Redenzione, metti a disposizione le tue membra perché siano a servizio della Redenzione.
Il Signore viene in mezzo a noi. È qui! Dice nuovamente “Shalom”. Alita su questa assemblea e su di te. Dice: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi». Caro Pier Luigi, il Signore manda te! Come il Padre ha mandato lui! L’ha mandato umano, piccolo, inerme, servo. Quante volte Gesù ci ha lasciato intravvedere la sua coscienza di essere servo, citando i Carmi di Isaia che tratteggiano l’identikit del servo di Jahvè, servo sofferente. Parola chiave dei Carmi è la preposizione “per”: “per voi” e “per tutti”.
L’esistenza del diacono è una pro-esistenza.

Indicazioni precise per il tuo diaconato vengono dalle letture di oggi.
La prima lettura (il celebre “quadretto” degli Atti degli Apostoli) ti ricorda che esprimerai il tuo servizio in una logica di comunione, dentro una comunità precisa (incardinazione), con le sue ricchezze e le sue povertà. Questo testo ti aiuterà nell’approfondire ancora di più la spiritualità di comunione. Troverai in questa Chiesa di San Marino-Montefeltro fraternità, amicizia e aiuto spirituale, culturale ed economico.
La seconda lettura ti infonde coraggio, ti immette nel servizio con una mentalità vincente: “La nostra fede vince il mondo”.
Sostiamo un attimo nella meditazione del testo evangelico.
Gesù appare ai discepoli barricati nel Cenacolo per la paura dei Giudei e, ancor più, prigionieri della loro viltà e dei rimorsi per la notte del tradimento.
Gesù viene delicatamente, a porte chiuse, sensibile e attento alla crisi e ai dubbi dei suoi amici. E il gruppo riparte. È una comunità creata di nuovo col soffio dello Spirito. Il gesto di Gesù ripropone, infatti, l’atto creativo.
La comunità “nuova” che ha lo Spirito di Gesù pone da subito segni che la caratterizzano. Il primo: ospita l’incredulità di uno del gruppo, l’incredulità di uno dei migliori, Tommaso, l’apostolo che propose di seguire il maestro che si era incamminato per Betania per incontrare Lazzaro; e lo fece con queste parole: «Andiamo anche noi a morire con lui» (Gv 11,16). È l’apostolo che dopo la cena osa chiedere a Gesù: «Non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?» (Gv 14,5), dando l’opportunità a Gesù di affermare: «Io sono la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Tommaso è l’ospite del Cenacolo che entra ed esce con libertà.
Però Tommaso non crede. Il gruppo, da parte sua, non lo esclude e non lo emargina. E Tommaso rimane. La comunità cristiana è sempre luogo della fede. Quando la fede di un fratello è debole o addirittura spenta, attorno a lui si mobilita: “Resta – dice – non te ne andare. Altri ti porteranno”. La comunità rifondata da Gesù è una comunità accogliente! Il diacono – si dice – è ministro della soglia. Ricorda: l’accoglienza è la prima e fondamentale forma di missione.
Otto giorni dopo, Gesù è di nuovo nel Cenacolo. Entra e non si ferma coi dieci che credono, ma va verso Tommaso: «Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano».
Il Vangelo non ci dice se Tommaso ha toccato le mani e il costato trafitto di Gesù. A Tommaso è bastato sentirsi incoraggiato e non giudicato; è bastato vedere negli occhi colui che si è concesso ai suoi dubbi prima che alle sue mani. E a noi, insieme a Tommaso, viene da esclamare: “Sei proprio tu, Gesù. Inconfondibile nel tuo modo di proporti e nel tuo stile. Non ci sbagliamo su di te”! Così Tommaso passa dall’incredulità all’estasi: «Mio Signore e mio Dio!». E noi con lui!

Omelia per professione religiosa di Suor Francesca Serreli

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santuario della Beata Vergine delle Grazie di Pennabilli, 11 Aprile 2015
 
At 4,32-35
Sal 117
1Gv 5,1-6
Gv 20,19-31
 
È per cantare il “per sempre” dell’amore del Signore che ci troviamo insieme qui, questa sera, avvolti ancora dal fulgore della Pasqua. E per quale altro motivo Francesca celebra insieme a noi la sua professione religiosa, se non per l’attrazione fatale di un “per sempre” sussurrato nel suo cuore da chi promette di esserle sposo? Uno sposo come nessun altro!
Un progetto chimerico quello di Francesca di sposare il Signore? Ma è il Signore, veramente risorto e vivo, palpitante e disponibile, che ha preso l’iniziativa!
Un progetto ambizioso? Francesca conta sulla fedeltà dello sposo che l’ha sedotta e che non tradisce.
Un progetto di fuga dalla realtà? Al contrario, Francesca vuole andare in profondità dove affondano le radici dell’umano: verità, bellezza, bontà.
Un progetto da navigatrice solitaria? No, Francesca non si avventura sola. Si incammina sostenuta da sapienti guide, in compagnia di una vera e nuova famiglia, incoraggiata da tutta una Chiesa (la nostra!) che, a sua volta, riprende fiato e si mette in gioco per la forza di quel “per sempre” testimoniato da Francesca.
È significativo che celebriamo la professione religiosa ai Primi Vespri della Domenica di Tommaso (Domenica in Albis, oggi – ci piace sottolineare – e della Divina Misericordia). Un incontro – quello con Tommaso – che aspettiamo ogni volta con meraviglia e curiosità, che ritorna nella sequenza dei Vangeli festivi nella Seconda Domenica di Pasqua.
Tommaso è incredulo: c’è bisogno della mano forte di Gesù, perché il suo dito penetri nella profonda fessura sul petto squarciato. A Tommaso è chiesto di sperimentarne la realtà, il calore, l’umidità e di vincere il naturale ribrezzo per una piaga aperta, sia pure la più santa.
Ma non sono in sofferenza anche gli altri dieci apostoli?
Gli eventi succedutisi nella tremenda settimana della Passione hanno scioccato i discepoli, al punto da prendere la risoluzione di chiudersi a doppia mandata nel Cenacolo. Per paura, non per devozione! Comprensibile paura: avevano riposto fiducia in Gesù. Eccolo, il loro maestro, ucciso come il peggiore degli impostori. Non avevano motivi sufficienti per dubitare? Sulla tomba i loro cuori avevano già scritto la parola “fine”. Ma poi arriveranno ad arrendersi al Risorto.
Ciò che li schioda dai loro dubbi non sono tanto le prove; le prove non bastano mai. Ciò che fa superare il dubbio è l’esperienza dell’incontro con Gesù. L’incontro, più che “verificarlo”, lo “vivi”. Ti coinvolge. L’incontro appartiene all’esperienza: sono coinvolti pensieri, sentimenti, sguardi, passi concreti, parole, silenzi… Quando Gesù – otto giorni dopo – invita Tommaso a non essere incredulo, non pretende l’assenza completa del travaglio. Gli chiede solo di lasciarsi andare, di sciogliere gli ormeggi, di “abbandonarsi”.
A volte – permettete la confidenza – sussurro a me stesso: allorché ho creduto, mi è forse mancato qualcosa? Nulla! E voi, che ne dite?
Mi rivolgo a voi giovani presenti, a voi che avete di fronte le grandi scelte della vita: che cosa vi trattiene dal pronunciare il vostro “sì” al Signore che dolcemente vi invita?
Il restare senza amore? “Senza amore non si può vivere”. Avete ragione, ma qui c’è l’Amore stesso che si concede, con la promessa di una comunità dove si sperimenta d’essere «un cuor solo ed un’anima sola, dove nessuno considera suo quello che gli appartiene, ma tutto è comune» (cfr. At 4,32). Chi è con Dio vince il mondo; e questa è la vittoria che vince il mondo: la nostra fede.
A Francesca viene consegnato il velo, segno di consacrazione e di esclusiva appartenenza al Signore; il Signore non ammette altri pretendenti.
Il significato del velo è evidente. Santa Gertrude si preparava a riceverlo con queste parole: “O mio diletto, fammi riposare all’ombra della tua carità… lì riceverò dalle tue mani il velo della purezza…”. Sublime vocazione. La consacrata nella verginità vuole essere tutta di Cristo, si sottrae allo sguardo di altri possibili pretendenti e amanti. Vive nel chiostro – sulla rupe – per essere sempre sotto lo sguardo del suo sposo e piacere a lui solo. Il velo è una specie di clausura nella clausura. Non ha nulla di opprimente. È molto amato dalle nostre sorelle e devotamente portato. Lo baciano quando l’indossano e quando lo tolgono.
Il velo è anche il segno del pudore che la protegge per il suo sposo: «Quanto sei bella, amata mia, quanto sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, dietro il tuo velo… Giardino chiuso tu sei, sorella mia, mia sposa, sorgente chiusa, fontana sigillata» (Cant 4,1.12): ammirazione e commosso stupore dello sposo davanti alla promessa sposa tutta raccolta e rivestita di umile e delicato riserbo.
Alla sensibilità del nostro tempo non è facile comprendere questa consuetudine monastica. Il velo appare piuttosto come segno della sottomissione. Ma la monaca vive in modo sublime un mistero nuziale e materno sul piano soprannaturale. Il velo indica la generosità e l’intensità con cui fa dono di se stessa a Dio per tutti, rimanendo nascosta – sì – per essere di tutti. È come se il Cielo si curvasse su di lei per avvolgerla nell’intimità del cuore di Cristo. A somiglianza della Vergine e Madre di Dio vive le parole dell’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra» (Lc 1,35).
Il velo è testimonianza (martirio), perché segno di una vita interamente donata, ma anche segno regale perché la Vergine è sposa del Re, da lui coronata, avvolta nel suo manto.
Nella tradizione Maria è sempre raffigurata col velo, spesso un velo che scende lungo tutta la sua persona e avvolge il Figlio e tutti noi suoi figli.
Suor Francesca portaci nella tua preghiera.

Omelia S. Messa in suffragio delle vittime della strage del 1944

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Fragheto, 11 aprile 2015
 
Mc 16, 9-15
 

Secondo molti esegeti la pericope del Vangelo che abbiamo appena ascoltata con i 5 versetti seguenti sarebbe un riassunto che chiude il Vangelo di Marco. Senza questa finale aggiunta redazionalmente, il Vangelo si chiuderebbe al versetto 8 che suona così: «Ed esse (le donne), uscite, fuggirono via dal sepolcro perché erano piene di timore e di spavento. E non dissero niente a nessuno, perché avevano paura». Modo un po’ strano di chiudere! Chi avrebbe l’ardire di proclamare una buona novella così?
Che contraddizione! Ma è attraverso queste contraddizioni del testo biblico che ci è dato toccare con mano il vissuto dei primi discepoli. L’esperienza di Dio si trasmette attraverso il mezzo umano del nostro linguaggio: questo ci fa coraggio. Quante volte, anche noi, facciamo fatica a testimoniare la nostra fede, a proclamare i nostri valori… Ma il comando di Gesù è chiaro: «Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura».
Gesù non insiste sul fatto che dubitano. Parte direttamente con la controffensiva e li manda a proclamare la Buona Novella. Resta vero – come già annotato – che questo finale di Marco è un riassunto redazionale ultracondensato che salta a piè pari cose importanti. Ma è assai istruttivo: suggerisce di non indugiare troppo sui dubbi e che il modo migliore per uscirne è “passare all’azione”. L’azione viene in soccorso al dubbio.
Permettete un’applicazione a quanto stiamo vivendo e commemorando qui a Fragheto: la strage di 71 anni fa. Guai dimenticare. Ma è necessario anche buttarsi nel presente per rilanciare valori positivi. Passare all’azione. Il Vangelo, come i valori che vogliamo trasmettere, sono esigenti. Ci chiedono di essere coerenti.
Passo all’azione. Cerco notizie sulla strage di Fragheto. Trovo una testimonianza che mi risulta essere un inedito scritto nel registro dei battesimi di questa parrocchia dal parroco di allora, don Adolfo Bernardi.
Ve lo leggo: “Il 7 aprile 1944 (Venerdì Santo) la parrocchia di Fragheto ebbe il suo calvario. Durante la notte precedente, un reparto di partigiani, avuto sentore di un rastrellamento della zona da parte di truppe tedesche e neo-fasciste che avevano già bloccate le principali arterie di comunicazione, si era spostato dalle Balze a Fragheto, allo scopo di meglio occultarsi o difendersi. Il loro numero si sarà aggirato dai duecento ai trecento. Stettero tutta la notte e la mattina nascosti nelle case e mandarono pattuglie a perlustrare la zona. Verso le 10 del mattino, una pattuglia riferì di aver avvistato una sessantina di armati tedeschi o fascisti nella zona della chiesa “Madonna del Piano”. I comandanti, dopo breve consultazione fra loro, decisero di attaccarli e partirono immediatamente e si trincerarono lungo la cresta di Valbona fra Calanco e Fragheto, fino a Monte Castello. Cominciò subito la sparatoria, e i tedeschi, in numero di circa un migliaio, reagirono vivamente dalla Zonga e da Calanco. I partigiani esaurirono presto le munizioni, e si ritirarono, nascondendosi nei boschi. I tedeschi avanzarono su Fragheto e compirono feroce rappresaglia sulla borgata, uccidendo tutti i civili che vi trovarono (30) e bruciando le case. Anche l’archivio parrocchiale andò tutto distrutto. Il sottoscritto Parroco fu catturato a Calanco e portato a Meldola, e rilasciato solo dopo 15 giorni, colla severa proibizione di tornare a Fragheto. Potè tornarvi solo in Settembre (1944), quando si ritirarono le truppe tedesche verso nord. Nel frattempo prestò servizio religioso a Fragheto il fratello del Parroco, d. Gaetano Bernardi che era allora parroco di Montefotogno, mentre il sottoscritto sostituiva lui prestando servizio a Montefotogno e a Tausano. In quel periodo a Fragheto vi furono due nascite, e cioè Longhi Rosanna di Domenico (Alipio) e Mastini Maffalda (Zonga) nata il 10 aprile 1944 e battezzata alle Capanne di Verghereto, e Gabrielli Ulda battezzata a Fragheto, di cui si riporta l’atto di Battesimo in fondo a questa pagina, ed è il primo atto di questo nuovo registro. Fragheto, 2 ottobre 1944”.
È la testimonianza di un prete cattolico. In nome suo e in nome della comunità cristiana sento che è tempo di “passare all’azione” e al perdono. Perdonare non significa chiudere gli occhi di fronte al male quasi non esistesse o dare il “colpo di spugna”. Perdonare è passare all’azione! Andare avanti. Praticare ascesi per migliorare noi stessi, per migliorare la società. Dio ci aiuti.