Omelia per la Solenne Apertura della Porta Santa

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 13 dicembre 2015

Sof 3,14-18
Fil 4,4-7
Lc 3,10-18
Ci siamo messi anche noi in coda come i frequentatori del Battista per varcare la Porta Santa della nostra Cattedrale. Ci troviamo, misticamente, sulle rive del fiume Giordano che, dai tempi di Giovanni ad oggi, non finisce di lambire la nostra indifferenza. Giovanni grida: il Messia è alle porte, cambiate vita! Sì, il Signore è alle porte della nostra vita indaffarata, tiranneggiata da false esigenze, dal modo di pensare mondano e da egoismi più o meno velati. In che condizioni ci trova il Messia? Un giorno Gesù rimprovererà gli indifferenti, imperturbabili sia all’annuncio di un severo giudizio, sia di fronte all’offerta di misericordia (indifferenza, indolenza ed accidia sono il nostro problema). Eppure l’appello è esplicito ed urgente: A chi paragonerò questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto» (Mt 11,16-17). Se restiamo insensibili alla voce austera di Giovanni, come potremo accogliere Colui che soavemente sta alla porta e bussa? (Ap 3,20).
Il Vangelo ci racconta di gente che si è lasciata sorprendere dalla testimonianza del Battista e che è scesa al fiume per chiedere come rendere concreta la conversione nella realtà dell’esistenza quotidiana: Che cosa dobbiamo fare? (È una lezione per noi!).
La domanda è posta dalle folle, da doganieri, da soldati mercenari. Un campionario assai vario di umanità. Luca, che spesso nel suo Vangelo presenta Gesù amico dei pubblicani e dei peccatori, ha particolare simpatia verso queste categorie di persone, le più disprezzate e le più bisognose di misericordia: le folle considerate ignoranti e fluttuanti; i doganieri ritenuti peccatori per eccellenza perché il loro mestiere li porta a compromessi con le forze romane di occupazione; i mercenari perché al soldo del tiranno di turno. Ma davanti a Dio nessuna situazione umana è pregiudizialmente esclusa (cfr. le catechesi di papa Francesco). Anzi, proprio costoro, a differenza di quanti presumono di essere “puri”, trovano misericordia e incoraggiamento. Il Battista indica per loro alcune risoluzioni: generosità fraterna, specie verso i poveri; rettitudine nel proprio ruolo professionale; mitezza, sincerità, moderazione.
Avete notato: non invita alla fuga nel deserto, né a vivere, come lui, da anacoreti, né a cambiare mestiere, né ad un’osservanza bigotta dei precetti. La conversione è qualcosa che si attua all’interno delle proprie situazioni umane e sociali. Dunque non chiede di salvarsi dalla storia (storia che possiamo ben immaginare), ma nella storia (siamo nella logica del lievito, non in quella della pasta alternativa).
La stessa domanda delle folle, dei doganieri e dei soldati la poniamo anche noi che abbiamo appena varcato la Porta Santa: «Che cosa devo fare, in questo anno giubilare?». Papa Francesco non dice che questo momento è buono, opportuno, ma che la Chiesa “ha bisogno di questo anno di misericordia” (Udienza del mercoledì, 9 dicembre 2015). E noi? E la nostra Chiesa ha bisogno di misericordia? Ha bisogno di essere illuminata circa la gravità del peccato, prendendone coscienza. Ha da farsi perdonare le disunità. Ha bisogno del perdono perché noi, suoi membri, talvolta viviamo la fede come folclore, esteriorità, tradizione senza profondo coinvolgimento del cuore (sede delle decisioni). Dalla Cattedrale alle chiese giubilari, dalle parrocchie a tutti i luoghi di preghiera vedo una “reazione a catena” di rinnovamento, vedo porte e finestre spalancate all’onda fresca e vivificante della misericordia. Misericordia accolta e poi offerta. Ma la “reazione a catena” non può che partire da me! Ognuno pensi così.
Permettete ancora una parola. La rivolgo ai miei fratelli sacerdoti. Mi succede spesso di pensare a loro viaggiando per il Montefeltro: saranno in buona salute? Avranno qualche consolazione? La casa canonica sarà ben riscaldata? Cari sacerdoti, non so se i parrocchiani vi esprimono la loro gratitudine, se vi mostrano affetto, se hanno verso di voi espressioni di riconoscenza per quello che siete e per quello che fate. So che vi siete messi a servizio per il Signore, in risposta alla vostra vocazione; non per altro. Tuttavia io vi dico il mio grazie, la mia gratitudine e la mia ammirazione. Voi siete i dispensatori della misericordia e del perdono di Dio. Quante volte, nel passato come nel presente, ho goduto per la Provvidenza di un prete che ha assolto i miei peccati e mi ha fatto sentire l’abbraccio della misericordia e la gioia del perdono. Nella Bolla di indizione del Giubileo – al paragrafo 17 – papa Francesco parla di voi. Rileggete quelle parole, vi aiuteranno ad essere «un vero segno della misericordia del Padre».
Nella domenica “Gaudete”, tutta intonata alla gioia, voglio proclamare davanti alla comunità diocesana come il vostro sia ministero di gioia per noi e per tutti (cfr. 2Cor 1,24). E come sia gioia per il Signore che fa festa in cielo per un solo peccatore che si converte (cfr. Lc 15,7)!

Omelia per la III Domenica di Avvento

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 13 dicembre 2015

Sof 3,14-18
Fil4,4-7
Lc 3,10-18
La liturgia ci propone giorni di attesa, giorni segnati dall’invito alla gioia. È solo augurio? Contentino per il nostro cuore assetato? Sono giorni d’auguri e di canti natalizi… tanti applausi e buoni sentimenti. Grandi alberi di Natale nelle piazze… La gioia del Natale è solo atmosfera?
Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti. Il Signore è vicino! (Fil 4, 4-5). Si può precettare la gioia? Non è forse un sentimento spontaneo? Oggi, in tempo di crisi, i motivi di gioia scarseggiano, ma non mancano del tutto, anche se appaiono fragili come giocattoli che si rompono subito o come profumi che svaporano in fretta. Gioisca chi può! I motivi di tristezza sembrano prevalere. La tentazione ricorrente è di lasciarsi cadere le braccia, un gesto istintivo che tradisce un pensiero nascosto, ma che si fa palese: non c’è speranza, non ne vale la pena… Basta aprire il giornale: la persistente minaccia alla pace, l’angoscia del terrorismo in agguato, i risultati piuttosto modesti, secondo alcuni, deludenti della conferenza di Parigi sul clima e, in casa nostra, la crisi di importanti istituti bancari che mette in crisi i piccoli risparmiatori.
La disperazione fu la tentazione che mise alla prova gli ebrei in cammino verso la terra promessa. Accadde quando l’acqua e il pane vennero a mancare: Il Signore è con noi, – protestavano – sì o no? Nella Parola di Dio non mancano gli avvertimenti e persino le minacce per provocare la conversione, ma più frequenti sono gli inviti alla gioia. Al di là della parola stessa, che ricorre 225 volte nell’Antico Testamento e 72 nel Nuovo, la gioia attraversa come in filigrana tutta la Scrittura. Il motivo della gioia è il Signore, la sua prossimità, la sua alleanza, il suo amore sponsale… Per questo si canta: Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio (Is 61,10). Hai messo più gioia nel mio cuore di quando abbondano vino e frumento (Sal 4,8). Esulto di gioia all’ombra delle tue ali (Sal 63,68). Nel Nuovo Testamento la gioia si manifesta incontenibile. Tutta la vicenda di Gesù è Vangelo: buona notizia! La religione cristiana è la religione della gioia e ogni persona che segue Cristo ne è messaggero. Qualche settimana fa un giovane professore di filosofia mi parlava del rapporto scienza–fede e, incalzato dalle mie domande, mi confidava il rapporto che, all’interno dell’università, ha con i colleghi non credenti: «C’è chi fa onestamente la sua ricerca, non crede e resta serio. Io – concludeva l’amico professore – al termine della mia ricerca dico: Dio esiste. E sorrido»! La gioia è il dono che il Cristianesimo fa al mondo.

Omelia Veglia per la vita nascente

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
2 dicembre 2015

Is 49, 1-6.13-16
Lc 1,39-55

Si affollano i pensieri mentre già si accendono le prime luci del Natale e intasano la mente e la penna. Quante cose vorrei scrivere e dire… e con quanto calore! Cose dell’anima naturalmente, come la vertigine davanti a un Dio che si fa cucciolo di uomo e la considerazione dei carissimi destinatari di questi miei pensieri, specialmente delle mamme in dolce attesa.
La pista più sicura è tracciata dalla Parola di Dio (e da dove, se non da qui, prendere l’avvio?). Questa sera la Parola di Dio racconta la vocazione del profeta Isaia chiamato, plasmato e inviato fin dal seno materno…  e, come ogni bambino, disegnato in modo indelebile sul palmo delle mani del suo Creatore. Ci potrebbe essere chi lascia cadere nell’oblio il frutto del grembo, ma non certo il Signore: «Io, invece, – assicura –  non ti dimenticherò mai».
Il Vangelo narra l’incontro fra due donne in attesa d’essere madri: Maria ed Elisabetta. Due santuari; due grembi carichi di terra, di cielo e di futuro. Come il grembo di ogni mamma.
«Benedetto il frutto del tuo grembo», cioè, «benefico agli uomini sia il frutto del tuo ventre», esclama Elisabetta a Maria. È il saluto per ogni donna che sta per diventare mamma. Gesù è un frutto unico, eppure tutti i nati da donna sono, come lui, benedizione. Per questo festeggiamo i bimbi che vengono al mondo, le loro mamme e i loro papà.
Il Vangelo dice che Giovanni, concepito da Elisabetta, danza nel grembo materno pieno della gioia di vivere, per una vita che gli dà, sin d’ora, d’incontrare il Signore. È stato chiamato dal nulla all’essere, ad una pienezza di essere.
Torno al racconto evangelico, anzi alla corsa veloce con la quale Maria va, attraverso i monti di Giudea, ad incontrare la cugina Elisabetta: «In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda». Il tema della sollecitudine e della corsa ricorre più volte nella Scrittura. I pastori andarono in fretta a Betlemme «e trovarono Maria, Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (Lc 2,16). Così i primi discepoli, chiamati da Gesù, «subito presero a seguirlo» (Mt 4,20). A Zaccheo il Signore grida: «Scendi subito» (Lc 19,5). «In gran fretta» Pietro e Giovanni corrono al sepolcro il mattino di Pasqua, quasi una gara (cfr Gv 20,4). Per essere discepoli è necessaria la sollecitudine. Viene chiesto di correre. Il salmo ci fa cantare: «Corro per la via dei tuoi comandamenti, perché hai dilatato il mio cuore» (Sal 119, 32). Non è certo per la fretta imposta dai ritmi di questo mondo sempre più stressanti. La fretta evangelica non ha altro agente che l’amore. È l’amore che tiene desti ed è essenzialmente movimento. L’amore attira con forza e soavità e, parimenti, lancia in avanti!
Il nostro riunirci, questa sera, ha il carattere della gioia e dello slancio: gridiamo al mondo il vangelo della vita. Giusto vent’anni fa, Giovanni Paolo II consegnava a noi e a tutti gli uomini di buona volontà, una delle sue più belle encicliche, l’Evangelium vitae. All’inizio di questa veglia abbiamo chiesto la grazia della conversione dei cuori, riconoscendo i peccati contro la vita nascente. La chiudiamo facendo nostro il canto del Magnificat, il canto sbocciato sulle labbra della fanciulla di Nazaret, che loda il Signore per le grandi cose che ha fatto in lei, con uno sguardo sulla vita e sulla storia che sorprende, perché assolutamente aperto e per nulla intimista.
Ci proponiamo di parlare bene della vita e, soprattutto, di proclamare «fortiter et suaviter» la prima delle pagine del Vangelo: la Natività!

 

Messaggio ai Capitani Reggenti partecipanti alla Conferenza sul clima Cop21

Pennabilli, 28 novembre 2015

Eccellenze carissime,
mentre siete in viaggio verso Parigi per partecipare alla conferenza sui cambiamenti climatici, vi accompagno con la mia considerazione e la mia preghiera.
Credo di interpretare i sentimenti dei tanti sammarinesi che incontro quotidianamente: portate a Parigi anzitutto la nostra solidarietà; la prova subita da quella città amica ci ha profondamente toccato. La pace è l’unica via di futuro per tutti. Personalmente ho pregato così: «Signore, disarmali. Signore, disarmaci. Troppo difficile per noi la pace!».

Nello svolgere il vostro compito istituzionale, avete in cuore la nostra Repubblica: il monte Titano, sorprendente terrazzo sull’Adriatico, le rocce a picco sormontate dalle torri-sentinelle, le valli attorno verdissime coi borghi che scendono come le case di un presepe, i lembi di terra contesi fra impianti industriali e coltivazioni, contesa che testimonia la laboriosità della nostra gente… In verità andate alla Conferenza di Parigi perché sentite la responsabilità verso la “casa comune”, come papa Francesco chiama il pianeta, al di sopra dei nostri interessi. La cura dell’ambiente è molto più che piantare alberi, riciclare gli scarti, ridurre l’uso di condizionatori o le emissioni di idrocarburi: essa prevede l’impegno di preservare l’armonia globale con il creato e coi suoi abitanti e, soprattutto, ribadire quell’antropologia adeguata tema fondamentale dell’Enciclica di papa Francesco, Laudato si’.

È la prima volta nella storia che la distruzione ad opera dell’uomo assume i connotati di un “bio-cidio” (consentitemi il neologismo). Coi grandi della terra prendete decisioni concrete a favore di tutta la creazione e accogliete l’urgenza di giustizia tra generazioni (Come lasceremo il pianeta ai nostri figli?). La scomparsa della biodiversità, il riscaldamento globale e la povertà persistente sono questioni che si collocano ben al di là delle sovranità nazionali (sono i poveri a pagare il prezzo più alto del debito ecologico). L’Enciclica di papa Francesco, Laudato si’, e il discorso tenuto a Nairobi la scorsa settimana, possano essere per tutti un apporto robusto per la Conferenza di Parigi.
Assicuro da parte mia tutto l’impegno per sensibilizzare la comunità cristiana alla cura del creato, per promuovere stili di vita più sostenibili e per incoraggiare le persone ad adeguare le loro abitudini al bene dell’umanità e dell’ambiente.

Col più cordiale augurio di buon lavoro,
+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Messaggio per il 60° dell’Istituto di Sicurezza Sociale

Partecipo con cordiale considerazione al 60° compleanno dell’Istituto di Sicurezza Sociale. Saluto e ringrazio quanti prestano servizio con professionalità e dedizione alla “cultura della salus”. Come diceva qualche giorno fa papa Francesco, questi sono gli elementi costitutivi della stessa: accoglienza, compassione, comprensione, perdono. Una cultura intesa dunque in senso integrale, che si propone di arginare la “cultura dello scarto”.
La salute di cui si occupa l’ISS, è parte integrante ed integrale del bene comune. La sua promozione e difesa è un servizio irrinunciabile che ha dato molti frutti in San Marino. Tra le tante problematiche affrontate dall’ISS non posso dimenticare l’attenzione agli anziani, in questo contesto di crescita dell’individualismo, col pericolo della loro solitudine e abbandono. L’attenzione al “fine vita” chiede una seria e appassionata corresponsabilità senza accettare scorciatoie inumane.
Attenzione anche ai giovani: qui si apre il grave problema della loro educazione, per cui la “sicurezza sociale” si può e deve esprimere come vigilanza, custodia e responsabilità.
La famiglia poi richiede politiche di sostegno, di sostegno alla vita, a tutti i suoi livelli, evitando scelte le cui conseguenze possono avere lunga durata.
Il principio regolativo di una società democratica, oltre alla solidarietà, si chiama “sussidiarietà”. Impegno dell’ISS, auspichiamo, sia il valorizzare e sostenere tutte le risorse presenti sul territorio. A San Marino la gratuità, l’impegno di sostegno al bisogno, qui e in molte parti del mondo, costituisce la nostra gloria, da mantenere sempre viva.
Concludo facendo risuonare, in questo momento e in questa sede a cui fanno riferimento tante componenti della nostra società sammarinese, le speranze suscitate dall’imminente apertura dell’Anno Santo della Misericordia. Ci sono cittadini che fanno del volontariato una scelta personale di vita e di prossimità alle persone in difficoltà. Lo fanno da credenti e, nello stesso tempo, da cittadini, incontrando tanti altri volontari in spirito di collaborazione e di rispettose attenzioni alle leggi della Repubblica.
Grazie.

+ Andrea Turazzi

Messaggio per la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

Ringrazio del cortese invito, rivoltomi dall’Eccellentissima Reggenza, a questa manifestazione contro la violenza sulle donne. Mi faccio presente attraverso il responsabile dell’Ufficio diocesano per la Pastorale Sociale e del Lavoro, il Dott. Gian Luigi Giorgetti, e attraverso un breve messaggio di saluto e di adesione.
Nella Giornata Internazionale che richiama l’attenzione sulla violenza subita dalle donne, papa Francesco ha voluto aprire le porte della sua residenza “Santa Marta” ad alcune vittime di abusi. Lo ha fatto poco prima di partire per l’Africa, alle ore 7,15 del 25 novembre scorso, ricevendo undici donne con sei bambini, provenienti da una Casa Rifugio delle vittime della violenza domestica e della tratta della prostituzione.
Viviamo in una società che tende a destrutturare la specificità dei ruoli maschili e femminili a partire dalla famiglia e a ridurre la sessualità ad una concezione consumistica. I rapporti uomo-donna vengono allora facilmente impostati come rapporti di potere.
Che fare?
Condannare la violenza sempre; contrastare i fenomeni delittuosi con nuova professionalità; e, soprattutto, educazione e prevenzione. L’educazione comporta il recupero, in tutto il suo valore, della dimensione relazionale tra uomo e donna, per non lasciare sole le donne, dimensione che deve essere costruita sulla specificità dell’essere uomo e donna. Spesso la donna, nella sua femminilità, vive in una condizione di “periferia dell’esistenza”, come ama dire papa Francesco. Allora comprendere e rispettare la donna è un problema di giustizia.
È vero una giornata non basta, ma intanto serve come momento di alleanza e indicazione per una direzione da prendere tutti insieme.
Possiamo fare nostro questo aforisma attribuito a William Shakespeare: “Per tutte le violenze consumate su di lei, per tutte le umiliazioni che ha subito, per il suo corpo che avete sfruttato, per la sua intelligenza che avete calpestato, per l’ignoranza in cui l’avete lasciata, per la libertà che le avete negato, per la bocca che le avete tappato, per le ali che le avete tarpato, per tutto questo: in piedi, Signori, davanti a una Donna!”.
Grazie.

+ Andrea Turazzi

Omelia della XXX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Fiorentino (RSM), 25 Ottobre 2015
Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

Da Gerico Gesù sta per partire per Gerusalemme. E’ la città che un tempo Giosuè prese facendo suonare le trombe e lanciando il grido di battaglia. A Gerico, fuori porta, seduto fra gli altri questuanti, c’è il cieco Bartimeo. Ha sentito parlare del giovane profeta e taumaturgo, perciò vuole incontrarlo, perché considera quella la sua ultima occasione per essere guarito. Ma a Gerico c’è sempre un “muro”, in questo caso i discepoli che, come guardie del corpo, circondano Gesù e la folla dei pellegrini che avanza vociante e a spintoni. Ed anche il “muro” della sua condizione: non può vederlo, è confinato ai margini della strada a mendicare, e non possiede che un logoro mantello che gli serve per coprirsi la notte e per raccogliere gli spiccioli. Bartimeo non ha che un arma, alzare la voce. E allora, come Giosuè, dà fiato alle trombe e lancia un urlo: Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! La folla lo ignora, i discepoli lo sgridano – tutti vogliono che la miseria resti nascosta, non si mostri, non disturbi la vista e i sonni di chi sta bene – ma lui continua ad invocare e il suo grido raggiunge il cuore di Cristo. Ecco la vera preghiera. E’ un grido: Signore salvami! Guariscimi dalla cecità che mi impedisce di incontrarti e di trovare la strada del bene e della vita! Non è importante che la preghiera sia formalmente perfetta – Bartimeo lancia un urlo rauco e scomposto… – ma che scaturisca dalla fede in Cristo. Allora tante “mura di Gerico” crolleranno.
Gesù si ferma e lo chiama. Bartimeo, stupito e confuso esita, tanto che lo devono spingere: Coraggio! Alzati, ti chiama! Esita perché Gesù gli sta chiedendo di abbandonare la sua postazione strategica e lasciare lì la sua coperta. Ma poi si decide: balza in piedi e, gettato via il mantello, si presenta a Gesù. Solo allora può essere guarito. Anzi, non avendo più nulla, dice il vangelo: prese a seguirlo; diventa suo discepolo. Certamente la preghiera fatta con fede penetra nel cuore di Cristo. Ma ci richiede un atto di coraggio: abbandonare la nostra cuccia di indolenza e seguire Cristo liberi e leggeri.

Omelia della XXIX Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Fratte, 18 ottobre 2015

Is 53,10-11
Sal 32
Ebr 4,14-16
Mc 10, 35-45

«Non come voglio io, ma come vuoi tu »! Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e Giovanni: Che cosa volete che io faccia per voi? I due apostoli fratelli ci fanno sorridere per il loro candore: Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra. Nella Bibbia la Gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La Gloria si è manifestata nello splendore del Sinai, nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi dicono che i cieli cantano la Gloria di Dio. La Gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i suoi nemici. Giovanni un giorno – dopo la lezione impartitagli dal Maestro – scriverà che la Gloria di Dio ha preso forma nell’umanità di Gesù, sacramento dell’incontro con Dio. Mistero, presenza, prossimità…I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; pensano la Gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiara: Chi vuole essere il primo tra voi sarà il servo di tutti. Nonostante la gelosia scatenata nel gruppo, i due fratelli ci riescono simpatici. Con fierezza giurano d’essere pronti a tutto. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella preghiera! Non aveva detto Gesù «Chiedete e otterrete»? Ma pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che vuole lui. Come insegna la preghiera del Padre Nostro: Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra. Così ha pregato Gesù nel Getzemani: Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma ciò che vuoi tu.
E’ una lezione importante anche per noi che facciamo della Volontà di Dio il motivo guida del nostro cammino di fede. Gesù parla ancora di un calice, immagine attorno cui si svilupperà la sua implorazione nella tremenda notte del Getzemani. Allude al calice della passione, amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
La Gloria di Gesù è il dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide; una vita “donata” nell’interpretazione data da Gesù. Il calice di Gesù è nostro programma di vita: Eucaristia, ne beviamo ogni volta che moriamo a noi stessi, risurrezione perché chi ama passa da morte a vita (cfr 1Gv 3,14).

Omelia XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Sartiano, 11 Ottobre 2015
 

Sap 7,7-11
Sal 89
Eb 4,12-13
Mc 10,17-30
 

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago…
Quest’ immagine sorprende ogni volta. Circolava già al tempo di Gesù, poi trascritta nel Talmud con un dettaglio diverso: l’animale alle prese con la cruna dell’ago era un elefante; un detto per affermare una quasi impossibilità. E’ un’espressione di una grande radicalità che non dobbiamo in nessun modo annacquare: davvero la ricchezza può essere un ostacolo decisivo sulla strada del regno di Dio. Ma è un ostacolo anche l’ansia per la ricchezza che non c’è. A volte diviene pessima consigliera, fino a suggerire ciò che è male. Quasi sempre fa sprofondare nella paura o nella sfiducia o nell’invidia.
Ma tutto è possibile a Dio: è la bella notizia contenuta in questa pagina. E possibile perfino – incredibile! – il cambiamento dei nostri cuori di pietra in cuori di carne. Non consiste in questo l’essere salvati? Cioè, diventare capaci di vivere liberi, in pace con Dio e con gli altri; capaci di utilizzare le ricchezze (che di per sé non sono cattive) come mezzo per il bene e non come unico scopo dell’esistenza; capaci di vincere le tentazioni che portano fuori dalla strada tracciata da Gesù.
Che cosa mi manca? È la domanda del giovane ricco che si presenta a Gesù come uno che invece pensa di avere tutto. E’ un giovane virtuoso, ed è sincero nella sua domanda: Che cosa mi manca? Chi di noi si sente di chiedere a se stesso, con schiettezza, «che cosa mi manca»? A quel giovane mancava una cosa, una sola: la libertà. E’ un rappresentante di quanti sono posseduti da quanto possiedono.
Gesù gli dice: Va’ vendi tutto quello che hai, dallo ai poveri e seguimi… A queste parole, annota il vangelo, se ne andò triste, perché aveva molti beni. Pietro e gli altri discepoli erano probabilmente meno ricchi di quel giovane, ma sicuramente più liberi: Ecco, abbiamo lasciato tutto per seguirti… Una proposta: teniamoci cara la domanda «che cosa mi manca?». E poi aiutarci a fare quanto propone Gesù!

Omelia XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Chiesa dei Cappuccini (RSM), 4 ottobre 2015

Tengo sul comò un’unica fotografia. Mi è particolarmente cara. Talvolta mi sorprendo a contemplarla in silenzio. Raffigura mamma e papà, ancora piuttosto giovani, con noi cinque fratelli. Io sono il più piccolo, seduto sulle ginocchia di Armando. Istintivamente sento unica, solida e affettuosa la nostra famiglia, come se esistesse da sempre (fatico ad immaginare mamma e papà nella loro famiglia d’origine) e sento me, inimmaginabile fuori da quello spazio. Eppure la mia famiglia ha avuto un’origine, ha conosciuto l’incertezza dei primi passi, ha scricchiolato sotto i colpi delle prove che non sono mancate. Mi sono fatto raccontare tante volte da mamma e papà il loro primo incontro, la prima dichiarazione d’amore, il giorno delle nozze… Il vangelo di questa domenica, riletto insieme alla meravigliosa pagina della Genesi che l’accompagna, illumina la storia della mia e di ogni famiglia. Tutto parte da una parola di Dio: Non è bene che l’uomo sia solo. Il male originale, dunque, il primo che appare sulla terra prima ancora del peccato, è la solitudine. Perché non c’è nessuno che basti a se stesso, nessuno che possa essere felice da solo. Neppure il paradiso è sufficiente e basta! Per questo Dio dice: farò un aiuto… E questo aiuto è Eva per Adamo, data nel sonno perché è un dono, tratta dal fianco perché pari nella dignità e ineffabilmente attraente. Insieme sono chiamati ad un amore per sempre. All’inizio, prima della durezza del cuore, era così. Poi, con la durezza del cuore, sono venuti i distinguo, le concessioni legali, i ripudi legittimati… Ma Gesù fa agli sposi il dono del matrimonio, sacramento di salvezza. L’amore umano viene consacrato da Gesù e riconsegnato con un valore aggiunto per essere segno dell’amore tenero, fedele, indissolubile di Dio. All’inizio è detto che i due sono una carne sola, perché l’amore porta ad assumere la vita dell’altro come propria. L’amore non è solo perdersi per l’altro, ma è anche pienezza, fino a dilatarsi e a vivere come propri la vita, i sogni, la creatività dell’altro: fedeltà e fecondità che non tarpano le ali e non permettono di appassire, al contrario della rosa recisa e troppo serrata in grembo!