Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Dogana, 10 febbraio 2016
Gen 12, 1-3
2Tm 4,6-8
Sal 50
Gv 14,1-6
Leggo la vicenda umana e spirituale di padre Egel alla luce dell’esperienza vocazionale di Abramo. «Parti dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. Ti benedirò… e diventerai una benedizione» (Gen 12, 1-2).
Dunque c’è:
– una partenza,
– un paese in cui abitare,
– una benedizione.
Don Egel è partito da un paese lontano da noi (l’Argentina), è arrivato in una terra lontana da lui (l’Italia e la Repubblica di San Marino). La sua vita, come quella di Abramo, è stata un lungo viaggio: un altro emisfero, un’altra cultura, un’altra lingua; distacchi non metaforici e incontri altrettanto reali…
Entriamo nel cuore di chi parte per un lungo viaggio: che cosa prova?
«Beato chi decide nel suo cuore il santo viaggio» (Sal 84,6). E che altro è il viaggio se non il preludio di un incontro e di tanti incontri? Il viaggio è metafora della vita. Meditiamo sul viaggio compiuto da padre Egel – un prete raffinato, affidabile, colto – e sul nostro quotidiano cammino.
Mi aiuta un apologo orientale. C’è chi procede con i piedi: i suoi passi si impolverano su strade assolate e si attardano, talvolta, in oasi e locande. Costoro sono i mercanti, i cui percorsi sono governati da fini precisi e il cui viaggio è sempre e solo un transito.
C’è chi avanza per le strade con gli occhi: avido di scoprire e di sapere, di fermarsi ad ammirare le creazioni di quelle civiltà o l’orizzonte luminoso di un panorama. Costoro sono i sapienti. Infine, c’è chi viaggia col cuore: egli non s’accontenta di camminare, visitare, sapere, ma vuole vivere con gli uomini e le donne delle regioni attraversate, vuole ascoltarli e parlar loro e “mettere in luce la perla segreta di Dio” che dappertutto è riposta. E costui è il pellegrino.
Non bastano il desiderio delle cose e i progetti da realizzare, occorre scegliere di partire. Non basta una mèta per camminare, occorre concretamente saper aprire le vele.
C’è un altro rischio che può vanificare il viaggio: muoversi chiusi in una sorta di bolla di sapone o campana di vetro. Accade quando si cede alla tentazione di assicurarsi un guscio, una valigia capace di contenere il mondo che si lascia. Quando ci si mette in viaggio si deve mettere in conto l’incontro con ciò che è “diverso”: ambienti, culture, persone.
L’incontro sarà pieno se chi cammina con noi non resterà solo un ingombrante compagno di viaggio, ma un amico, uno di cui si impara a conoscere il mondo interiore.
Quando si viaggia e si cammina si va avanti. Il viaggio è procedere, proseguire, andare verso una tappa ulteriore. Si scopre pian piano, però, che il viaggio, in verità, è una… discesa. O meglio, l’andare avanti trascina in profondità perché, in realtà, la strada e la mèta del nostro viaggiare sono interiori.
Il paese nuovo incontrato da padre Egel è stato la Repubblica di San Marino, la diocesi sammarinese-feretrana, la parrocchia di Borgo prima, la parrocchia di Falciano poi; infine, la collaborazione con parrocchie, gruppi e quella rete di cuori che ha saputo tessere e coltivare.
L’ho conosciuto in una casa famiglia della Papa Giovanni: amato e ascoltato. Ho ricevuto spesso i suoi messaggi di adesione alle proposte diocesane, pur non potendo parteciparvi per le difficoltà di salute che sono andate crescendo. Avrei voluto frequentarlo più spesso in questi ultimi mesi di ripetuti ricoveri in ospedale e, definitivamente, al “Casale La Fiorina”. Gli incontri con lui sono stati sempre caratterizzati da una profonda comunione. La comunione del vescovo col suo presbitero e del presbitero col suo vescovo è essenziale; va ben oltre la cortesia, la stessa disciplina, l’intesa pastorale, pur necessaria. È una comunione generativa. Per questa comunione gli ho chiesto di offrire la sua vita per la nostra Chiesa e per i suoi preti in particolare. Ci siamo dichiarati, ad ogni incontro, la disponibilità a far sì che Gesù fosse presente tra noi per la carità reciproca: «Dove due o più sono uniti nel mio nome – assicura Gesù – io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Nell’ultimo incontro – la scorsa settimana – gli ho chiesto: “Il primo di noi che incontra la Madonna le porterà un saluto speciale per l’altro”. Mi ha detto: “Sì”. Ho aggiunto: “Potrei essere io il primo a partire per il Cielo”. Ha inarcato le sopracciglia è ha sorriso…
Ho accennato al mio rapporto con lui, ma tanti potrebbero raccontare… Perché padre Egel ha abitato veramente questa terra e questa diocesi. “Abitare, voce del Verbo”. Ringrazio chi l’ha accompagnato, chi gli è stato vicino, chi l’ha assistito all’ospedale e al “Casale La Fiorina”.
Ci sono dieci verbi al futuro nel racconto di Abramo: «Parti verso il paese che ti indicherò. Farò di te un grande popolo. Ti benedirò. Renderò grande il tuo nome. Diventerai una benedizione. Benedirò coloro che ti benediranno. Maledirò coloro che ti malediranno. In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra».
Il futuro di padre Egel diventato presente è la dimora definitiva, anzi, il «posto» preparato per lui, terra promessa. «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto» (cfr. Gv 14,2). Meta raggiunta. Promessa compiuta. Fedeltà di Dio, nella fede di chi ha terminato il viaggio ed ora riposa nella luce.
L’esistenza di un prete è una benedizione: egli benedice in nome di Dio, è ministro della grazia sacramentale di Cristo, proclama la Parola, riunisce e guida la comunità, è un segno nella società, anche nella nostra secolarizzata. «Lasciate un paese senza prete – diceva il curato d’Ars – e vedrete in quali condizioni lo ritroverete».
La ragione più profonda del prete-benedizione sta nel mistero della sua vocazione, precisamente nell’essere una esistenza offerta. La sua vita è chiamata ad essere conforme al sacrificio che celebra sull’altare. Ci sovviene, allora, un’altra pagina della vicenda di Abramo. Dio gli chiede il sacrificio del figlio. Abramo intraprende il viaggio più drammatico della sua vita. «Prese la legna dell’olocausto e la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco e il coltello, poi proseguirono tutti e due insieme» (Gen 22, 6). Isacco, che reca la legna per il proprio sacrificio, è figura di Cristo che porta la sua croce. Tuttavia, portare la legna dell’olocausto è ufficio del sacerdote. Così egli diventa vittima e sacerdote. Dice Isacco ad Abramo: «Padre mio!» (Gen 22,7). Questa voce del figlio, in un momento simile, è la voce della tentazione. La voce di Isacco sconvolge il cuore del padre. Abramo risponde con una voce che tradisce l’affetto paterno: «Che vuoi, figlio?».
E lui: «Ecco qui il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto?». Abramo risponde: «Dio provvederà l’agnello per l’olocausto, figlio mio» (Gen 22, 7-8). Commuove la risposta di Abramo, così delicata, prudente e profetica.
L’agnello immolato è Cristo. Il sacerdote, consacrato per l’imposizione delle mani, diviene partecipe del sacerdozio di Cristo. Le sue membra diventano le membra della redenzione: con l’offerta del quotidiano servizio alla propria gente, con la corrispondenza al dono del celibato, con il fedele rimanere aggrappato alla croce di Cristo, con la sublimazione della sofferenza.
Siamo partiti dal viaggio misurato con i chilometri, siamo arrivati a considerare il viaggio dell’anima che sale con Gesù sul monte «per la vita del mondo» (Gv 6,51).
Preghiamo. Accetta, o Signore, l’offerta della sofferenza e della vita di padre Egel. Uniscila al tuo sacrificio. Signore, concedi a noi sacerdoti di continuare a spenderci e a donarci senza riserva per la nostra gente. Fa’ che la nostra vita insieme a quella del nostro popolo diventi una liturgia per la tua gloria. Così sia.