Messaggio per il Ferragosto

Messaggio per il Ferragosto

Diamo un cortese benvenuto a tutti coloro che in questi giorni di Ferragosto sostano o fanno visita a San Marino e al Montefeltro.
La nostra terra e i nostri borghi vi accolgono non solo con un’ospitalità ben attrezzata, ma con la più grande cordialità.
In una natura esuberante e verdissima e sui monti dell’entroterra sarà possibile fermarsi in luoghi di intensa spiritualità: pievi e chiostri che profumano ancora di Cielo. La visita, ci auguriamo, può trasformarsi in preghiera. Siamo tutti assetati di interiorità.
Il 15 agosto, nel cuore dell’estate, brilla la festa di Maria Assunta in Cielo che, per i credenti, è corale manifestazione di affetto filiale alla Madonna, la madre di Gesù. Ma in lei, assunta in Cielo in anima e corpo, viene esaltata la nostra corporeità. Non siamo angeli, siamo esseri umani, unità di corpo e anima. Il corpo che siamo è anche una responsabilità. Il corpo, preparato da una lunga gestazione, continua ad aver bisogno di protezione e vigilanza. È fragile ed esposto a tanti condizionamenti. Va curato nella bellezza, custodito nella salute, valorizzato in tutte le sue espressioni perché il suo linguaggio sia puro, mai ambiguo e sempre nuovo. Bello nella giovinezza, nell’età matura e ancora nella vecchiaia, perché la bellezza viene da dentro.
Per questo il nostro pensiero va a chi si prende cura della nostra salute, a chi in questi giorni resta al suo posto di lavoro per l’utilità comune. Soprattutto il nostro ricordo è per chi non può andare in vacanza e per chi percepisce la parola stessa come una importuna ironia perché disoccupato e senza lavoro.
A tutti auguriamo serenità e la proposta di scambiarci gesti di pace e di amicizia.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia XVI Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Marta e Maria, le due sorelle di Betania, rappresentano l’itinerario di ogni credente che passa dall’affanno per ciò che deve fare per il Signore, allo stupore per ciò che Dio fa per lui o, se vogliamo, dal Dio come dovere al Dio come desiderio.
In questo grazioso quadretto che l’evangelista Luca ci descrive, Gesù ci appare come un cultore dell’amicizia; non cerca servitori, ma amici. Durante l’ultima cena dirà: Non vi chiamo più servi ma amici… Maria l’ha capito e, benché seduta, si è messa in cammino. Si tratta di un cammino interiore; ecco le tappe: dal faccia a faccia, al tu per tu, fino al cuore a cuore.
L’amicizia domanda vicinanza; Gesù reclama attenzioni, gratitudine e … baci. L’ha detto chiaramente a Simone, suo ospite, quando, al banchetto a cui ha invitato il Maestro, irrompe la peccatrice: Tu non mi hai dato il bacio, questa donna non smette di baciarmi i piedi. Al lebbroso guarito che torna a ringraziare, Gesù dice: Non sono dieci quelli che ho sanato; dove sono gli altri nove? Nella tremenda notte del Getzemani protesterà: Dunque non siete capaci di stare svegli e di regalarmi un’ora di compagnia?
Dunque, si potrebbe dire, più importante del «fare per Gesù» è lo «stare con Lui»; anzi, lasciarsi guardare, lasciarsi amare.
Maria, l’amica, l’ascolta stupefatta. “Sa incantarsi – scrive un commentatore – come fosse la prima volta. Tutti conosciamo il miracolo della prima volta. Poi ci si abitua… L’eternità invece è non abituarsi, è il miracolo della prima volta che si ripete sempre” (E. Ronchi).
A Marta, l’ancella, Gesù dice: Marta, Marta tu ti affanni per troppe cose. Gesù non contraddice il servizio, ma l’affanno; non il desiderio, ma la dispersione dei desideri. La sola cosa urgente è non vivere senza mistero, non vivere senza relazioni amorose.
Marta e Maria non si oppongono, i loro atteggiamenti sono complementari. Qualcuno legge l’episodio contrapponendo le due figure e i due modi di vivere il discepolato: azione, contemplazione. Non è questo l’intento di Luca. Infatti che cosa fa Maria quando si alza? E che cosa fa Marta quando si siede? Marta non può fare a meno di Maria, perché il servizio zampilla da una sorgente, l’unica che fa grande il cuore. Maria non può fare a meno di Marta, perché non c’è amore di Dio che non si traduca in gesti concreti. L’amica e l’ancella sono due modi d’amare, entrambi necessari. Coessenziali.
Beati quelli che ascoltano la Parola, beati quelli che la mettono in pratica!

Omelia VI Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Petrella Guidi (Chiesa del Castello), 1 maggio 2016

At 15,1-2.22-29
Sal 66
Ap 21,10-14.22-23
Gv 14,23-29

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola».

Oggi ci viene data l’opportunità di meditare alcune frasi dai discorsi di addio, i discorsi che Gesù tiene agli apostoli durante l’ultima cena. Si tratta di parole dolcissime, tutte intonate ad un sentimento di amore. Amore che Gesù reclama dagli amici; amore che egli offre. Sono parole consolanti anche per noi che oggi le leggiamo come fosse la prima volta.
In quasi tutto il Vangelo ritorna l’invito a dimorare con Gesù maestro, amico, signore. In questi giorni ho avuto modo di sviluppare la ricchezza tematica del verbo giovanneo rimanere, verbo usato con frequenza soprattutto dall’evangelista Giovanni e che sta come parola chiave. Ad esempio nel racconto della chiamata dei primi due apostoli, Andrea e Giovanni, si dice di loro che, assecondando l’invito del maestro (Venite e vedrete) rimasero con lui tutto quel giorno, inizio di infiniti altri giorni. Ho identificato in quel verbo la fondamentale proposta di Gesù che sceglie e chiama i Dodici perché rimangano con lui e poi per inviarli a predicare. Rimanente in me è, poi, l’invito appassionato di Gesù nei discorsi di addio. C’è dunque il rimanere di chi condivide spazi e tempi, di chi dimora fisicamente presso l’ospite. Ma non è propriamente a questo che si riferisce Gesù. Gesù, anzi, si sottrae alla Maddalena che, nel mattino di Pasqua, vorrebbe stringerlo a sé. Altro lo spessore del rimanere in lui. C’è il rimanere saldo del discepolo negli insegnamenti del Maestro: fare delle sue Parole la forma stessa della propria vita (in un crescendo di sfumature: in-formarsi, tras-formarsi, con-formarsi, uni-formarsi…). Più dello stare in uno spazio seppur sacro, più dell’abbracciare la disciplina e l’esemplarità del maestro, il rimanere di cui parla Gesù consiste in una immanenza vitale, un essere pervasi della sua stessa vita, linfa che discende da lui. Di più: non staccarsi mai da Colui che è la vite vera. L’apostolo Pietro scriverà ai primi cristiani: siete partecipi della natura divina! (cfr 2Pt 1,4).

«Noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui».

Il Vangelo ci ricolma di stupore quando, dopo averci condotto sin qui, annuncia la volontà di Dio di prendere lui stesso dimora presso di noi per rimanere in ciascuno! Prendere coscienza che si vive dell’Amore e del Respiro di Dio, è la cosa più bella, più utile e più necessaria che vi sia. Allora prende luce e pienezza di senso tutta la vita. Tutto quello che tu fai è come se il Signore agisse per mezzo tuo. Tu sei abitato dal Signore.
Ho visto luccicare gli occhi dei miei piccoli amici che si preparano alla Prima Comunione, quando hanno saputo che realmente Gesù verrà ad abitare in loro e che loro saranno il suo tabernacolo vivente. Andare in mezzo al mondo con questa convinzione sarà per loro e per tutti noi tutt’altra cosa!
Leggiamo allora il Vangelo in questa prospettiva, prima l’emozionante chiamata ad abitare presso il Signore, e poi la sorprendente notizia: lui stesso prende dimora in noi. Noi cielo di Dio!

Omelia V Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Domagnano, 23 aprile 2016
At 14,21-27
Sal 144
Ap 21,1-5
Gv 13,31-35
Molti hanno nostalgia di una comunità che sia veramente fraterna, nella quale ci si senta amati e seguiti anche nei passaggi difficili che talvolta impongono inevitabile lontananza. Ci si lamenta quando non c’è attenzione, amore, coerenza… Un amico mi confidava in questi giorni la gioia per aver trovato, finalmente, quello che cercava nel clima fraterno di una comunità evangelica protestante. Pur nel rispetto della decisione, ho manifestato il mio dispiacere, non tanto per la sua scelta, quanto per la sua delusione nei nostri confronti. E’ soltanto un sogno fare della parrocchia una comunità fraterna? Ascoltiamo il Vangelo. Ci parla di una notte sorprendente…Notte di straordinari contrasti: tradimento e amore, oscurità e luce. «Quando Giuda fu uscito dal cenacolo, Gesù disse: ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato…». Poi continua: «Vi dò un comandamento nuovo: amatevi gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri». Giuda esce di scena. E’ stato oggetto di una infinita tenerezza da parte di Gesù: immagina lo sguardo di Gesù verso Giuda mentre, in ginocchio, gli lava i piedi, mentre gli porge il primo boccone… Adesso Gesù può parlare, ancor più a ragione, dell’amore! E’ in questo contesto, infatti, che dona il comandamento nuovo. Perché “nuovo” se da sempre e dovunque uomini e donne amano? E molti amano in modo stupendo. Perché comandare l’amore? Un amore forzato che amore è? In realtà non è un comando, è di più: indica il destino di tutti. Siamo chiamati ad amare perché così fa Dio. L’amore è il nostro DNA. Amare tutti, senza alcun aggettivo qualificativo: simpatici o antipatici, giusti o ingiusti, ricchi o poveri, prossimi o lontani… Amare come Gesù ama. Ma chi potrà amare come lui, del cui amore è stata proclamata la lunghezza, l’altezza, la profondità (Ef 3,18)? Gesù lava i piedi ai discepoli, si rivolge a Giuda chiamandolo amico, prega per chi lo uccide, piange per l’amico sepolto da giorni, gioisce per il nardo profumato dell’amica, si china su chi soffre… Riprendi in mano il Vangelo e ricomponi le tessere di come ha amato Gesù, e poi ricomincia ad amare. E se non trovi amore, metti amore. Gesù non vuole essere un maestro solitario, al centro delle sue immense parole. Dagli angoli più nascosti e insospettabili suscita discepoli che osano d’essere come lui, dimentichi di sè.

 

Omelia IV Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Domenica del Buon Pastore
Gualdicciolo (RSM), 17 aprile 2016
 

At 13,14.43-52
Sal 99
Ap 7,9.14-17
Gv 10,27-30

 

Ogni anno alla quarta domenica di Pasqua si legge un brano del Vangelo nel quale Gesù si presenta come Buon Pastore. In questa domenica detta «del Buon Pastore», si fanno preghiere per le vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata. La scarsità delle vocazioni è motivo di grande preoccupazione per la Chiesa italiana e per la nostra Diocesi. In realtà il Signore non smette di chiamare. Non si è certamente dimenticato della sua Chiesa e lo Spirito suscita nuovi apostoli per il nostro tempo.
Il problema allora è un altro: sappiamo accogliere le vocazioni? Sappiamo coltivarle? Ci accorgiamo delle nuove forme vocazionali che il Signore va suscitando come il diaconato, come le testimonianze forti di frontiera? In fatto di vocazioni la Chiesa è chiamata, oggi più che in altri tempi, a dare prova di coraggiosa fantasia nel dare risposte al Signore che chiama; eccone un esempio: gli Atti degli Apostoli ci raccontano di Paolo e Barnaba che, rifiutati dai connazionali, si rivolsero ai pagani, aprendo così, nuove frontiere all’evangelizzazione. Una situazione di crisi si è trasformata in nuova chance.
Le vocazioni nella Chiesa sono “affare” di tutti. E’ sbagliato pensare sia un problema degli altri: «E’ un impegno della gerarchia» – si dice – «E’ una sfida per gli operatori pastorali specializzati». Non è evangelico pregare così: «Signore, manda operai nella tua vigna: manda altri, non me. Una comunità senza vocazioni è come una famiglia senza figli. Un sogno: che la nostra diocesi abbia vocazioni, tutte quelle che sono necessarie e che ne abbia da donare alla Chiesa tutta; che sia una comunità che prega (la preghiera è ascolto e accoglienza); una comunità che chiama (non solo in paziente attesa ma anche capace di proposte coraggiose); una comunità missionaria dove la domanda non è: «dove andare ma «che cosa posso fare là dove sono?». La Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni è un invito a riflettere sulla Speranza, un tesoro fragile e raro; il suo fuoco è sovente tenue anche nel cuore dei credenti. Abbiamo bisogno di una grande riserva di Speranza, con l’annuncio di un orizzonte luminoso verso cui insieme proiettarci.
L’immaginetta con la preghiera per le vocazioni che ci verrà consegnata e adagiata sul palmo della mano ha il valore di un mandato: «Ricordati ogni giorno di pregare perché tutti sappiamo rispondere con un generoso e pieno alla chiamata del Signore».

 

Messaggio del Vescovo per la Giornata Mondiale per le vocazioni

Che cosa vuol dire pregare per le vocazioni?

1. La preghiera per le vocazioni è una preghiera di lode. Lode perché il Signore rompe il silenzio. C’è un silenzio che avvolge il cosmo e avvolge le nostre vite inquiete, assetate di senso. Ebbene, il Signore parla con il suo silenzio e chiama. Ma, soprattutto, il Signore parla attraverso il Figlio suo, Gesù Cristo, crocifisso. Il Crocifisso è il libro aperto – che si può sfogliare – dove troviamo la parlata di Dio..

2. La preghiera per le vocazioni è una preghiera per la felicità. Ognuno di noi è voluto, desiderato, pensato, amato, creato da Dio. Considerare ciò, suscita dentro di noi un brivido di felicità. La preghiera per le vocazioni è una preghiera per la felicità, perché impariamo quanto siamo preziosi e quanto siamo servibili. Di per sé, il discorso vocazionale non è per l’autorealizzazione: è autorealizzato Gesù sulla croce? È autorealizzato padre Damiano De Veuster, apostolo dei lebbrosi a Molocai?
La preghiera per le vocazioni è una preghiera per la felicità, perché il Signore ha detto: «Non vi chiamo più servi ma amici… perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena»(Gv 15,15; Gv 15,11). Dobbiamo, allora, trovare il nostro posto a servizio.

3. La preghiera per le vocazioni è una preghiera per la Chiesa. Perché noi, uniti insieme, in tutte le componenti (sacerdoti, religiosi e religiose, famiglie, bambini, giovani e adulti), siamo testimoni che la Chiesa è un popolo di chiamati, che la Chiesa è chiamata ad essere segno e strumento dell’unione degli uomini con Dio e degli uomini fra loro: lumen gentium. La preghiera per le vocazioni è anche preghiera per la Chiesa, perché la Chiesa, al suo interno, ha bisogno di tanti servizi, ha bisogno della edificazione reciproca.

Rendiamo grazie al Signore contemplando il versetto bellissimo del cap. 3 di Giovanni, in cui Gesù rivela che Dio dona lo Spirito “senza misura”. Ciò è vero anche oggi: non è possibile, allora, che il Signore centellini le vocazioni.
Nella nostra preghiera non può mancare il battersi il petto per la nostra sordità e per il nostro scarso impegno di animazione vocazionale.
Davanti a Gesù Eucaristia prendiamo questa risoluzione, di parlare bene di vocazioni, con queste tonalità: di lode, di felicità e di ecclesialità.

+ Vescovo Andrea

Omelia III Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Uffogliano, 9 aprile 2016 – Faetano RSM, 10 aprile 2016

Un gruppo di apostoli, dopo tre anni con Gesù, è tornato alla propria casa, alle barche e alle reti. Quelli che erano del gruppo di Gesù, sono tornati sulle rive del lago a pescare. Pietro non si è riavuto completamente dal triplice rinnegamento, dal suo venerdì santo. Sta nudo sulla barca come Adamo davanti al suo peccato. Gli apostoli non riconoscono Gesù sulla riva; non è una questione di distanza o di nebbia mattutina. Semmai di lontananza del cuore “lento a credere”.
Anche a noi, come a Pietro e agli altri, succede di restare bloccati sotto il peso di un fallimento, di un errore o di penare, senza vedere risultati tangibili, per il nostro impegno ecclesiale o sociale, per il nostro impegno famigliare (può succedere, ad esempio, di vedere lo svaporare della tenerezza, il progressivo allontanarsi di un figlio, ecc.). E’ notte. La barca è vuota. Il racconto evangelico ci riferisce di Giovanni che sa vedere con gli occhi della fede il prodigio della rete piena di pesci, è lo stesso apostolo che “vide la tomba vuota e credette”. Giovanni riconosce Gesù e lo fa riconoscere agli altri: «E’ il Signore!». Allora tutto cambia. Cambia il cuore degli apostoli. La luce succede alla notte. La presenza all’assenza.
Questa settimana ci proponiamo una più intensa vita sacramentale: considerare l’importanza dei sacramenti, riceverli, creare le condizioni per una fruttuosa recezione, conservarne la grazia. E’ il modo più concreto di vivere la Pasqua. I sacramenti sono segni efficaci della presenza di Gesù risorto: nel Battesimo ci fa suoi; nella Cresima dona lo Spirito “senza misura”; nella Confessione il perdono; nell’Eucaristia se stesso come nutrimento; nel Matrimonio e nell’Ordine la chiamata al dono di sé; nella santa Unzione la guarigione. Tutto ciò che fu visibile del nostro Redentore è passato nei segni sacramentali. Nelle domeniche del tempo pasquale la parrocchia vive con gioia le tappe dell’iniziazione cristiana dei più piccoli: un cammino che riguarda tutti. Tutta la comunità è coinvolta: la generazione di nuovi cristiani è affare di tutti!

Propongo la meditazione dei versetti finali dell’apparizione del Risorto sul lago di Galilea che riportano il dialogo fra Gesù e Pietro (tra le pagine più belle del quarto vangelo). Suggerisco due piste. La prima. Gesù è risorto; ha attraversato l’oscura valle della morte che tanto inquieta ed incuriosisce. E’ risalito dagli inferi, misterioso tunnel dell’altro mondo. E’ entrato nella gloria. Ormai la sua umanità è trasfigurata nella beatitudine, ma viene nuovamente tra i suoi. E lui che fa? Potrebbe comparire tra i filosofi che amano disquisire sull’immortalità dell’anima (ha precise informazioni!). Potrebbe manifestarsi ai potenti che l’hanno condannato e prendersi la rivincita per l’onta subita… E lui che fa? Va in cerca degli amici. E li raggiunge sulle rive di un lago in tenuta da pesca. Gli sta a cuore la relazione, la relazione interpersonale. Domanda all’amico: Mi ami? La relazione resta anche oltre la morte. Sarà così anche per noi. Vorrei dirlo ancora allo sposo che in questi giorni piange la sua sposa ancora giovane. In Dio la ritroverà. Quel legame così speciale sarà ritrovato, seppure in nuova modalità. Seconda pista di meditazione. Sono andato a verificare, direttamente sul testo greco (la lingua dei Vangeli) la sequenza dei verbi adoperati nel dialogo Gesù – Pietro. Tre volte Gesù reclama amore. E si mette in ascolto del discepolo: Mi ami più di tutti? «Amare» qui è detto con un verbo forte (il verbo dell’agape), il verbo dell’amore assoluto ed è rafforzato da quel più di tutti che aggiunge una pretesa di esclusività. Pietro, consapevole del triplice tradimento, vola basso e risponde con un altro verbo che significa più amicizia che amore, un verbo meno impegnativo: Certo, Signore, ti voglio bene. Gesù per la seconda volta formula la domanda, ma tace il più di tutti. Al ti voglio bene ribadito da Pietro, Gesù si adegua alla timidezza dell’amico e per la terza volta chiede: Mi vuoi bene? Si avvicina al cuore incerto del discepolo, ne accetta il limite, abbassa le esigenze dell’amore per amore. Umiltà di Dio!
Nel vangelo di Matteo il primato è conferito a Pietro in un contesto solenne di professione di fede (cfr Mt 16,13-20), in Luca nella notte pasquale (cfr Lc 22,31-34), in Giovanni in questo momento di confidenza e di amore: “Mi ami tu?”.

Messaggio per la Commemorazione dell’eccidio di Fragheto

Fragheto, 9 aprile 2016

Fragheto: ahimè, anche il nostro territorio porta il segno di una ferita profonda. Un giorno di tanti anni fa Fragheto ha visto scorrere il rosso del sangue mentre attorno risplendeva il candore della fioritura di primavera.
Noi siamo qui a ricordare e raccontare, ancora una volta…
Un racconto doveroso perché non vada perduta la memoria delle persone innocenti che hanno subito violenza…
Un racconto necessario perché le nuove generazioni imparino dalla lezione della storia il grande bene della pace…
Un racconto utile perché nascano e si rafforzino progetti di impegno civile, perché maturino in noi tutti consapevoli giudizi sulle nostre emozioni. Noi adulti … in prima fila come testimoni, prima ancora che come maestri, di questa ascesi per costruire relazioni buone con tutti.
Non c’è nulla di più importante che amare
Alla luce di questa frase ognuno dica a se stesso: “Questa mattina guardo le mie azioni e le mie parole di ieri … Ammetto che tante di esse non sono state pienamente in linea. Allora inizio questo nuovo giorno con un atto di pentimento e con una nuova scelta: oggi voglio dare importanza solo all’amare! Amare, ossia, donarmi senza aspettare nulla in cambio:

  • ringraziare per ogni attenzione ricevuta;
  • sottolineare l’esempio e la parola del mio prossimo che mi sono state utili;
  • accennare alla gioia che ricevo dal mio prossimo e dalla sua presenza;
  • mettere in rilievo le sue doti, il suo contributo.

Fragheto e le sue ferite…
Anche Gesù risorto, mio Signore, porta le piaghe del suo Venerdì Santo.
Ma ora quelle piaghe sono un segno del suo amore e del suo perdono, sono un segno della sua vittoria! “Omnia vincit amor”. (Tutto vince l’amore)
Che il Signore risorto faccia di tutti noi uomini di pace!
Questo è il mio augurio e la mia preghiera; in realtà, anche se lontano sono presentissimo tra tutti voi e chiedo al diacono – il sig. Antimo Cecchi, responsabile della cura religiosa di questi paesi – di farsi portatore di questo mio affettuoso saluto.

+ Andrea Turazzi

Omelia II Domenica di Pasqua

Omelia S.E. Mons. Andrea Turazzi

Mercato Vecchio – 3 aprile 2016

At 5,12-16
Sal 117
Ap 1,9-11.12-13.17-19
Gv 20,19-31

Nel vangelo della seconda domenica di Pasqua (detta la domenica di Tommaso), si racconta l’apparizione di Gesù ai discepoli barricati nel Cenacolo per la paura dei giudei. Gesù viene delicatamente, anche se le porte sono chiuse, sensibile ed attento alle paure e ai dubbi dei suoi amici. Saluta: Pace a voi.
Si ricomincia con il soffio di Gesù che alita sulla comunità che riparte, è il gesto compiuto dal Creatore che da vita all’uomo. La comunità “ricreata” da Gesù è una comunità nuova che riesce perfino ad ospitare l’incredulità di uno del gruppo, uno dei migliori… Tommaso, infatti, non crede, ma non se ne va, rimane. Il gruppo non lo esclude e non lo emargina. La comunità cristiana è luogo della fede: quando la fede di un fratello è debole, attorno a lui ci si mobilita: «Resta. Non te ne andare. Altri ti porteranno, altri saranno testimoni». Otto giorni dopo Gesù è ancora li. Entra e non si ferma coi dieci che credono, ma va dritto verso Tommaso: Metti qua il tuo dito, tendi la tua mano. Di per sé il vangelo non dice che Tommaso ha toccato le mani ed il costato trafitto di Gesù. A Tommaso è bastato sentirsi incoraggiato e non giudicato; è bastato vedere negli occhi colui che si è concesso ai suoi dubbi prima che alle sue mani: «Sei proprio tu, Gesù. Inconfondibile nel tuo modo di proporti e nel tuo stile. Non mi sbaglio»!
Così Tommaso passa dall’incredulità all’estasi: Mio Signore e mio Dio! «Mio»: un aggettivo che cambia tutto, non evoca il Dio dei libri, il Dio degli altri, ma il Dio che si è intrecciato con la sua vita e i suoi dubbi. Ecco gli aggettivi di un cuore ricreato: «tu sei mio» – «io sono tuo».
Aspetto ogni volta con curiosità e meraviglia, l’incontro con l’apostolo Tommaso. Accade ogni anno, la seconda domenica di Pasqua. E’ sempre una sorpresa.
Mi piace l’interpretazione dell’episodio evangelico che ne offre il Caravaggio nel suo celebre dipinto. Tomaso è incredulo: c’è bisogno della mano forte di Gesù, perché il suo dito penetri nella profonda fessura sul petto squarciato. A Tomaso è chiesto di sperimentarne la realtà, il calore e l’umidità e di vincere il naturale ribrezzo che desta una piaga, sia pure la più santa. Ma non sono forse increduli anche gli altri dieci? Due apostoli sono raffigurati dal Caravaggio, attenti osservatori e garanti della effettiva penetrazione. Gli eventi succedutisi nella tremenda settimana della passione hanno profondamente shoccato i discepoli, al punto da prendere la risoluzione di chiudersi a doppia mandata nel Cenacolo. Per paura, non per devozione! Comprensibile paura: avevano riposto la loro fiducia in Gesù. Eccolo il loro Gesù, ucciso come il peggiore degli impostori. Non avevano dunque motivi sufficienti per dubitare? Sulla tomba i loro cuori avevano già scritto la parola «fine». Ma poi si sono arresi al Risorto. Ciò che li schioda dai loro dubbi non sono le prove (benedetta apologetica!), le prove non bastano mai. Ciò che fa superare radicalmente il dubbio è l’esperienza dell’incontro con Gesù. L’incontro appartiene all’esperienza: sono coinvolti pensieri, sentimenti, passi concreti… Quando Gesù, otto giorni dopo, invita Tomaso a non essere incredulo, non pretende l’assenza completa del dubbio. Gli chiede solo di lasciarsi andare, di sciogliere gli ormeggi. A volte sussurro a me stesso: allorché ho creduto, mi è forse mancato qualcosa? E voi, che ne dite?

Omelia Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 27 marzo 2016

At 10,34.37-43
Sal 117
Col 3,1-4
Gv 20, 1-10

1.
Si può ben immaginare, dopo la fine ingloriosa del loro Messia, con quale tristezza i discepoli abbiano celebrato la grande festa di Pasqua, la Pasqua ebraica. «Noi speravamo…», ma le cose sono andate diversamente. Si trattava di ricominciare non solo una nuova settimana, ma una nuova vita: una vita da sconfitti, da disillusi, all’oscuro di ciò che poteva accadere loro. Parliamo dei fedelissimi della prima ora, che però se la sono svignata in quel tragico venerdì.
Il buio che l’evangelista annota nella narrazione riguardante Maria di Magdala che, di buon mattino va al sepolcro, non è una semplice annotazione temporale, ma fotografa il suo cuore e quello dei discepoli. Maria va a piangere la fine delle speranze sue e del gruppo. Va a piangere sulla tomba del caro estinto. Ma ecco improvvisamente l’incredibile: la pietra è stata ribaltata e la tomba è vuota. Le emozioni traspaiono appena: il racconto giovanneo è forse il più laconico bollettino di vittoria che sia mai stato scritto.

2.
L’evangelista Giovanni è tutto intento al senso degli avvenimenti che sta narrando, dobbiamo coglierne le sfumature.
Notiamo anzitutto la progressione dei verbi che esprimono l’esperienza di quel mattino vissuta da Maria, dal Prediletto (Giovanni) e da Pietro. Nella traduzione italiana non si colgono le sfumature. Bisogna riferirsi alla lingua in cui è stato scritto il Vangelo: il greco. Maria vede (il verbo adoperato è blépo), si tratta della semplice percezione oculare di un oggetto; è un vedere ancora distante dalla fede (successivamente Maria si aprirà alla fede completa). Pietro scruta (verbo theoréo), guarda con fascino ed interesse, ma non è ancora fede anche se l’animo è ben disposto. Giovanni contempla (verbo orào): è la visione profonda della realtà, la comprensione totale e risolutiva: la visione di fede. Per questo l’evangelista aggiunge al verbo vedere (contemplare), il verbo credere, infatti nel suo Vangelo vedere e credere sono sinonimi.
Queste non sono sottigliezze per pochi esperti… semplicemente ci viene detto come il Signore risorto guida progressivamente la sua comunità alla comprensione profonda del suo mistero: da uno sguardo soltanto esterno ad uno sguardo profondo, dall’incredulità e dal dubbio alla piena adesione di fede, dalle tenebre alla luce.
Questo è anche il senso della corsa dei due apostoli al sepolcro, quasi una gara. Varie le interpretazioni su questa corsa: per alcuni rappresenta il dubbio contro l’amore; per altri la competizione giovani-adulti; per altri ancora il primato delle Chiese greche (Giovanni) su quelle palestinesi (Pietro), o, addirittura, il primato della Chiesa carismatica su quella istituzionale… È più normale pensare ad un ricordo personale dell’evangelista testimone-autore. Se Giovanni aspetta Pietro, è per il primato che già gli apostoli gli riconoscono. E se Pietro ha solo constatato, non è detto che poi non abbia, a sua volta, creduto.
Giovanni, Pietro e poi Maria di Magdala e a seguire tutto il gruppo dei discepoli crederanno pur senza vedere. Sarà quello che Gesù chiederà a Tommaso otto giorni dopo. I discepoli hanno visto tanti segni che accreditano Gesù come Messia, hanno potuto toccare con mano la verità delle Scritture. Perché mai tanta ansia di volere altri segni, altre prove, altri miracoli… Non basta la testimonianza delle Scritture? E’ il delicato rimprovero che il Vangelo rivolge ai lettori. Conosciamo le Scritture? Le amiamo? Ce ne nutriamo?

3.
Un’ultima notazione: ricorre nel brano, diverse volte, il verbo correre: Maria di Magdala corre per dire ai discepoli che è stata ribaltata la pietra davanti alla tomba; corrono Giovanni e Pietro; Giovanni però corre più forte; poi tornano immediatamente a casa per avvertire gli altri. Al crescere della fede corrisponde una crescita della testimonianza. Un tema che sarà centrale nei versetti successivi, ma qui abbiamo l’inizio, la prima scintilla! È interessante vedere come l’evangelista – e la Chiesa primitiva con lui – pone una donna come “prima testimone” del fatto fondamentale della fede cristiana. In questo dimostrano coraggio: nel contesto culturale giudaico la testimonianza di una donna non veniva considerata. Ironia giovannea: l’annuncio di Maria è solo apparentemente il trafelato resoconto di una donna impaurita, ma in realtà essa è vera e propria testimone cristiana: colui che hanno portato via (allusione alla morte in croce) ed ora risorto, è il Signore! La Chiesa non farà che continuare ininterrottamente, specialmente con la propria condotta di vita, la testimonianza di Maria di Magdala. Il coraggio della Pasqua! Quanto è necessario in questi giorni di sangue e di paura.