Omelia XXVIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cappella Vescovado, 9 ottobre 2016

Lc 17,11-19

L’evangelista Luca non dimentica di annotare che Gesù sta salendo verso Gerusalemme. Ormai sappiamo che cosa significa per Gesù quel viaggio e quante esperienze interiori vi si condensano: timore, risolutezza, accettazione della missione, sofferenza, adesione alla volontà del Padre… Proprio in questo contesto umano-divino (e quale contesto più adatto?), in prossimità di un villaggio, ai confini tra Galilea e Samaria, accade l’incontro con dieci lebbrosi. La Samaria è una nostra “vecchia conoscenza”: lì è ambientata la parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-37), in Samaria Gesù incontra la donna che va al pozzo di Giacobbe (Gv 4), in quel territorio Gesù dovrà affrontare la chiusura e l’ostilità degli abitanti (Lc 19,42), ma un giorno la Samaria accoglierà la Parola di Dio (At 8,14).
I dieci lebbrosi che avanzano sono paragonabili ad una micidiale nube tossica, una bomba ad orologeria: il contagio effettivamente è pericoloso. Le porte del villaggio sono ben chiuse. Immagino i discepoli all’erta, in atteggiamento di difesa. Gesù sembra non reclamare protezione. Vede in quegli sventurati tutti noi, tutta l’umanità piagata e sofferente. I lebbrosi stanno a distanza (lo imponeva un rigoroso precetto religioso e sanitario: la malattia è devastante, contagiosa e repellente) e, al di là della barriera, gridano la loro disperazione. Non chiedono nulla, neppure la guarigione. Soltanto chiedono a Gesù Maestro pietà. C’è anche una preghiera “a distanza” che denuncia la situazione esistenziale, e tuttavia non è così distante da non essere ascoltata dal Signore. E poi, esaudita.
Il Vangelo è pieno di guariti, un gioioso corteo che accompagna Gesù. Quei dieci lebbrosi si accorgono d’essere risanati mentre sono per via, come i due di Emmaus che finalmente riconoscono Gesù. Hanno appena intrapreso un viaggio – proibito per i lebbrosi – verso Gerusalemme per mostrarsi ai sacerdoti. L’essersi fidati di Gesù e l’essersi messi in viaggio, già di per sé, è qualcosa di straordinario. Ma accadde anche il miracolo: la lebbra sparisce. A nove di loro basta la guarigione: sono fuori di sé dalla gioia per il dono inatteso. Inebriati per gli abbracci ritrovati dimenticano il donatore che pensa di offrire loro molto di più: dare se stesso, nulla di meno! Uno dei dieci, doppiamente escluso perché lebbroso e perché bastardo (era samaritano!), segue lo slancio del cuore e torna da Gesù a cantare la sua gratitudine con voce grande. Notare i verbi che raccontano la sua avventura: interrompe il viaggio, va dove lo porta il cuore mentre gli altri nove vanno dove li porta la legge; torna sui suoi passi, l’amore ha i suoi dietrofront; canta per la strada, la strada è il suo rigo musicale; si butta ai piedi di Gesù mentre prima, come gli altri nove, stava a distanza a gridare il «Signore pietà»; dice grazie: ha ricevuto un dono senza meritarlo (chi è questo donatore che non dà in base ai meriti, ma per pura gratuità?). La dossologia (gloria di Dio) viene intonata da un samaritano, lo straniero! In lui ora brilla una luce che è solo divina, dovuta al tocco di Gesù: è ritornato uomo, è ritornato figlio. C’è stata una vera conversione ed il ringraziamento del Lebbroso va ben oltre la buona educazione: è il riconoscimento di Gesù come salvatore, espressione della fede che salva. Gesù apprezza il suo gesto, come apprezzerà i baci della peccatrice e la compagnia degli amici nell’ora della prova al Getzemani. Gesù – perché no? – vuole ed insegna la gratitudine. Per quanto riguarda colui che era lebbroso dobbiamo annotare infine come, insieme alla sua carne, sono rifioriti attorno a lui rapporti nuovi: con Dio, con gli altri, con se stesso. Nove sono i guariti, uno salvato! Era una samaritano… Perché non potrebbe succedere così anche a noi?

Messaggio al mondo della Scuola

Cari amici,
l’anno scorso nel mio messaggio paragonavo la scuola ad un alveare.
L’idea mi era venuta passando accanto ad una scuola da cui usciva un sommesso ronzio. In quell’alveare, ho pensato, si fa sicuramente del buon miele. Gli ronzano attorno, alacremente, alunni, insegnanti, addetti al buon funzionamento, genitori. Anch’io, che passo per strada, godo di questo alveare e voglio contribuire con la mia attenzione e simpatia a quello che vi succede dentro: la scuola è bella!
Lo dico dopo averci passato i miei anni giovanili, dalla materna all’università. Ne sono convinto nonostante i problemi. Non ricordo più i momenti faticosi e, qualche volta, di terrore (vedi le interrogazioni di matematica!). Perfino gli insuccessi sono stati utili. A volte penso: «Se avessi giocato un po’ meno a pallone e studiato di più…». Tuttavia, la scuola mi ha dato strumenti e curiosità per coltivare il sapere. Chi sarei senza la scuola?
Quanti incontri, quanti amici, quante scoperte! Tutte le “materie” sono importanti: tutte servono per la vita e… per l’educazione alla pace: dalle lingue alla storia, dalle scienze alla religione, dalla musica alla tecnica, etc.
“In bocca al lupo” per il nuovo anno! Parola d’ordine: fare del buon miele.
Un grande maestro diceva a proposito della “fatica” che non può mancare: «Dove c’è l’amore non si sente la fatica e anche quando c’è la fatica si ama questa fatica (Sant’Agostino di Ippona, De bono viduitatis 21, 26, V sec.; per chi studia il latino: «Ubi amatur iam non laboratur et si laboratur etiam labor amatur»).
Ai più piccoli: non fate lo sbaglio di Pinocchio che a scuola non è entrato mai per seguire falsi amici. Ai più grandi: fate tesoro dell’esperienza di un grande filosofo che diceva che «la verità è come la scintilla che s’accende tra due pietre focaie», una metafora della necessità dell’incontro con l’altro (Platone, Lettera VII, IV sec. a.C.).
Ripasso sotto le finestre della vostra scuola e faccio una preghiera per voi. Chi crede nel Signore sa quanto è preziosa. Chi è di altra convinzione sarà contento di questo pensiero cortese.
La scuola è bella!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella Messa di insediamento dei nuovi Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo Marino (RSM), 1 aprile 2016

Mt 18, 1-4

Quasi spintonandosi, gli apostoli si chiedono chi è il primo tra loro – così almeno nel racconto secondo Luca (cfr. Lc 9, 46-48). Qui invece, la domanda è posta meglio: «Chi è il primo nel Regno dei Cieli?». Chi dice “regno”, dice grandezza; ma Gesù si appresta a dire che non è questa l’unità di misura. E poi non argomenta con gli strumenti della Teologia, preferisce porre un gesto semplice, concreto, simbolico, “teatrale”: chiama un bambino e lo pone “nel mezzo”, davanti a tutti. Proviamo ad immaginare la scena. Un bambino intimidito, sorpreso, perplesso, che di colpo si trova messo davanti a tutti, forse a gente sconosciuta. Al tempo di Gesù, il bambino non era molto considerato: era una bocca in più da sfamare. Il bambino spesso è monello, non sta zitto, fa chiasso, è buono solo a piccoli servizi. Gesù dice: «Guardate, guardate bene questo bambino».
Non ci è stata riferita la reazione del bambino. Comunque, egli ha ascoltato la chiamata di Gesù, ha interrotto i suoi giochi – per un bambino sono una cosa seria – si è lasciato mettere nel mezzo, si è fidato. Amabilità di Gesù! Badate bene, non ho detto abilità di Gesù, ma amabilità. In verità, quel bambino, divenuto improvvisamente attore, ci rappresenta tutti e le parole dette in quella circostanza ci riguardano da vicino. Quel bambino, come tante altre figure anonime dei Vangeli, è tutt’altro che comparsa. È un modello e introduce nella scena un raggio di sole, una scena oscurata dalle beghe, dai litigi degli apostoli ancora in formazione (non è ancora accaduta la Pentecoste). Mi raffiguro Gesù che sorride davanti a tale scena, divertito da questo contrasto. «Chi è dunque il più grande nel Regno dei Cieli?». Domanda molto umana – direi di attualità – soprattutto nel nostro mondo caratterizzato da competizioni, concorrenze, sospetti, rivalità. Gesù mette in mezzo un bambino, cioè una fragilità, un’innocenza, una semplicità, un’umiltà. Sì, Gesù invita tutti noi a conversione, per diventare piccoli «come bambini», il che, ovviamente, non significa essere puerili e neppure esibire una fastidiosissima falsa umiltà. Si tratta, semplicemente, di spogliarci delle nostre presunzioni, delle nostre pretese di essere i migliori e di lasciar da parte i nostri giudizi sugli altri. Il bambino posto nel mezzo, al centro di quella drammatizzazione organizzata da Gesù, ci riporta la metafora della vita come palcoscenico, come teatro, metafora tanto cara a Shakespeare. Si entra in scena, si recita la propria parte, si esce di scena, più o meno drammaticamente. Il mondo, la nostra società, sono teatro e noi gli attori. La nostra Repubblica sicuramente è uno scenario e, in senso molto particolare, è spettacolare. Ciò è evidente in questa circostanza, non tanto per il folclore, ma per l’esperienza che ci fa vivere. I Capitani Reggenti si succedono investiti di un’autorità che viene data loro, perché è più grande di loro, li precede, e dovrà essere riconsegnata perché non è di loro proprietà. Sono a servizio di una maestà che non gli appartiene. E questo non è spettacolare? Inoltre, qui in Basilica e, prima e dopo nei palazzi istituzionali, si assiste al convenire di ambasciatori, rappresentanti di tante nazioni che l’antica Repubblica raduna ogni volta tessendo e rafforzando una rete di amicizie. E non è spettacolare questo? Il teatro, il palco, la scena, mettono in mostra e fanno interagire i personaggi, ognuno secondo la propria parte. Tale metafora ci responsabilizza: il popolo, i rappresentanti delle nazioni, i chiamati a governare e rappresentare la Repubblica, il Vescovo insieme al suo presbiterio, devono fare bene, tutti, la propria parte. Ed è per questo che chi è credente prega il Signore e chi è di altra convinzione si raccoglie silenzioso davanti alla propria coscienza. La metafora della vita come teatro suggerisce anche la possibilità – consentitemi – di cadere nell’ambiguità; la scena può essere calcata per mettersi in mostra, per mostrarsi non per quello che si è veramente e allora può essere l’occasione per andare a caccia di applausi, dunque finzione, col rischio – lo corriamo tutti – dell’ipocrisia. Recitiamo la parte di chi si sente a posto e magari attribuisce agli altri gli errori. Tutti abbiamo bisogno di conversione, di autenticità, di farci dono di reciproca fiducia. Tutti possiamo rimetterci alla scuola del “bambino evangelico”; è così che si entra nel Regno dei Cieli – questione centrale per un cristiano – così s’accorciano le distanze e si realizza la preghiera di Gesù: «Che avvenga in terra come in cielo» (Mt 6,10). Ce l’ottenga l’intercessione di Santa Teresa di Lisieux che oggi ricordiamo come modello dell’infanzia evangelica. Così sia.

 

Dichiarazione del Vescovo dopo la votazione in Consiglio sull’aborto

L’impegno di sensibilizzazione delle associazioni cattoliche è risuonato più volte e fortemente nell’aula del parlamento sammarinese e, sebbene alla speranza di un chiaro “no” alla introduzione “di fatto” dell’aborto nella legislazione sammarinese il parlamento abbia risposto con l’accoglimento di tre delle cinque Istanze proposte e riguardanti i casi considerati più “drammatici”, con un importante ordine del giorno approvato a maggioranza è stata anche affermata la volontà di tutela della vita fin dal suo concepimento.
Sarà importante valutare in che modo questi indirizzi, in un prossimo futuro, possano entrare in una legge dello Stato. Sono certo che i nostri legislatori non desiderano altro che il bene di tutti.
A tal fine ribadisco il mio pronunciamento sul valore della vita, dal suo primo inizio al suo naturale compimento. Mi spingono a ciò:
– le convinzioni profonde basate anzitutto su motivi di ragione che condivido con tante persone, credenti e non;
– la preoccupazione per il venir meno di valori fondamentali per la nostra civiltà;
– la scelta di scorciatoie che portano fuori dal vero bene.
La storia e l’esperienza ci insegnano che non sempre il criterio della maggioranza è criterio di verità e di bene. Nonostante ciò, la Chiesa, proprio perché riconosce e vuole tutelare la piena laicità di ogni Stato, rispetta le conclusioni prese dalle Istituzioni. Il mio auspicio è che tali Istituzioni non vengano mai meno alla coerenza con le solenni dichiarazioni della nostra Repubblica di ispirarsi a grandi valori di umanità e con l’originalità delle sue radici.
Sarà ancora più convinto e chiaro l’impegno dei cattolici per un’azione educativa capillare e a tutti i livelli per promuovere la difesa degli ultimi e dei più deboli. E chi è più fragile della creatura che una mamma porta in grembo, che è bambino ed è persona?
Insieme all’impegno educativo si continuerà a stare concretamente accanto alle donne e alle famiglie in difficoltà, per abbracciare sofferenze, per cercare soluzioni, per accompagnare solitudini, per mobilitarsi in favore della vita.
In San Marino e in tutta la Diocesi, associazioni, gruppi e famiglie lavorano con impegno e competenza in questo campo: sono promotrici di civiltà e solidarietà sociale. È bene che siano conosciute e trovino alleanze. Discrezione sì, ma non silenzio: qui la testimonianza è più che mai necessaria. Da parte mia desidero dare loro tutto il mio appoggio e assicurare il mio incoraggiamento.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia XXV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone (San Marino Città), 18 settembre 2016

Am 8,4-7
Sal 112
1Tm 2,1-8
Lc 16, 1-13

Auguri alla vostra parrocchia: compie 25 anni! Ormai è una ragazza bella, attraente, preparata, intraprendente, vivace. Che cosa vuol dirle il Signore con questa pagina di vangelo? L’aneddoto raccontato da Gesù è piuttosto bizzarro, ma attuale! Facciamo fatica a capire l’elogio che tesse per il comportamento di un fattore disonesto.

Siamo in situazione d’emergenza. La nostra sicurezza è fragile: è messa alla prova da malattie, difficoltà famigliari, rovesci finanziari, conflitti, terremoti… Bisogna trovare una tavola di salvezza alla svelta. Il fattore protagonista della parabola ha saputo fare. Di fronte ad una emergenza decisiva per la sua carriera e la sua vita ha trovato l’escamotage (la sua tavola di salvezza). Il Signore vuole i discepoli attenti, ma in maniera giusta, da figli della luce, cercando l’amicizia di Dio che ci accoglie e suggerendo come la qualità delle relazioni umane è una sicurezza ben superiore all’accumulo della ricchezza e al conto in banca.

Siamo degli amministratori. Il nocciolo della parabola sta quì. Dobbiamo considerare quello che abbiamo come “capitale di Dio”: ce lo affida non per abusarne egoisticamente, ma per un uso solidale. L’amministratore è generoso col denaro del suo padrone. E questi se ne rallegra: ha alleggerito il debito dei poveri; meglio così: prima sciupava! Come non vedere nella parabola una provocazione per i paesi ricchi che non sanno ridurre il debito ai paesi poveri.

Attenzione: il denaro è ingannatore. Gesù non è contrario alla ricchezza ma ci mette all’erta: la ricchezza spesso nasconde miserie morali e spirituali. Il danaro inganna quando fa credere che una vita sia fallita senza ricchezza, quando il denaro anziché servire, asserve. Il valore di una persona non si misura sulla base di quello che possiede. Nel nome del dio denaro si compiono azioni cattive, si creano divisioni, si passa sopra alla giustizia e alla verità. Meglio delle azioni di banca, sono gli investimenti in “buone azioni”!

Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione», sono le parole del padrone. E lo scaltro amministratore che fa? Si arrangia. Il Vangelo è totalmente estraneo al linguaggio del sottobanco e delle bustarelle. Non insegna la truffa, ma l’audacia. Lamenta che i cristiani talvolta abbiano meno immaginazione per far vivere la fede di quanta ne abbiano gli uomini d’affari per i loro traffici. La fede non dispensa dall’essere intelligenti! Possiamo partire proprio da qui per rilanciare il nostro programma annuale. «Che ne hai fatto del dono della fede? – dice il Signore – Che ne è di quello spicchio di territorio che ti ho affidato?». E potrebbe continuare: «Mi sono dato a te con la mia Parola, perfino col mio Corpo e il mio Sangue perché tu sia mia presenza, mie mani, mio cuore, mia intelligenza. Il tuo nome è «missione». Ti ho affidato la mia gente». La parrocchia ha imparato a pensare il proprio piano di lavoro, e va chiedendosi: «Che cosa ci chiedi, Signore? Quali sono le attese attorno a noi? Quali le risorse?». Paradossalmente il fattore disonesto della parabola ha qualcosa da insegnarci.
Cominciamo dalla curiosità, la curiosità di vedere ciò che il Signore farà quest’anno tra noi col soffio del suo Spirito. Siamo consapevoli di non essere un’assemblea costituente, né un’azienda, ma un popolo radunato dal Signore che è venuto a cercarci e s’è messo in mezzo a noi.
La parrocchia, alla fine, non deve prenderci troppo; siamo mandati piuttosto nei campi più svariati del nostro mondo: cultura, lavoro, famiglia, cittadinanza, ecc. Prendiamo ispirazione dall’icona delle volpi di Sansone lanciate ad incendiare le campagne dei Filistei: alle loro code Sansone legò delle torce accese (cfr Giud 15, 4-6). Gesù vuole che tutto sia clarificato, si riaccenda e si rianimi, ma incontra sovente la nostra indifferenza.
La fede è il dono più prezioso che abbiamo ricevuto, più prezioso dell’oro (cfr 1Pt 1,7). Condividerlo è un atto d’amicizia. Si tratta di testimoniare il nostro incontro con la persona viva di Gesù. Torna utile ripensare quanto accadeva ai primi cristiani: erano sorpresi dalla forza intrinseca del Vangelo e dell’annuncio (chiamato cherigma). Noi, ammettiamolo, annunciamo poco perché crediamo poco! La stessa fede che abbiamo nei sacramenti dovremmo impegnarla nel credere alla forza (exusìa) del seme che mettiamo nelle zolle dei nostri rapporti quotidiani. Ripartiamo per altri 25 anni e poi ancora: ad multos annos!

Omelia Festa del Beato Domenico Spadafora

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Montecerignone, 11 settembre 2016

Festa del beato Domenico Spadafora

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

Oggi il beato Domenico Spadafora ci riunisce per fare festa. Quale festa?
La festa per la sua memoria ancora viva dopo 500 anni (fatto ancor più sorprendente del suo corpo incorrotto). La festa per le grazie che la sua intercessione ci ottiene presso il Signore. Festa soprattutto per il messaggio che in questo anno giubilare della misericordia egli ci riconsegna. E’ un messaggio di conversione. Ci parla di braccia spalancate di un Dio che ci aspetta. E perché mai si sale al suo santuario se non per questo? So che qui viene celebrato con assiduità e frequenza il sacramento della riconciliazione. Qui si alternano gruppi di preghiera, una sorta di staffetta per l’intercessione. Si rinnovano propositi di vita cristiana. E si impara dall’esile frate domenicano la testimonianza: una testimonianza come la sua, trasparente (con la vita), contestuale (adeguata ai tempi), coraggiosa (con libertà e franchezza). Egli fu un missionario. Lasciò la carriera accademica e le cariche del suo ordine per venire nelle nostre valli per vivere il motto domenicano: Contemplata aliis tradere.
Bellissima la coincidenza che oggi ci fa incontrare il cuore del terzo Vangelo, il Vangelo di Luca. Siamo nel vangelo del Vangelo! Come i detti di Gesù che abbiamo letto la scorsa domenica, così radicali, avevano come sfondo un banchetto con gente per bene, le parabole della misericordia che ci accingiamo a meditare hanno come sfondo un banchetto con pubblicani e peccatori. Gesù questa volta ha cambiato campo: scribi e farisei sono presenti, ma a distanza, indignati per il comportamento del profeta di Nazaret. Le parabole sono tre. Le prime due sono parabole “gemelle” (si possono leggere in parallelo); protagonisti: un uomo -è un pastore- che ha perso una pecora e una donna -è una donna di casa, una massaia- che ha perso una moneta; la terza parabola racconta di un padre che perde un figlio (ma abbiamo già letto questa parabola nella Quaresima scorsa, pertanto non viene letta oggi). Tutte e tre hanno in comune alcune parole chiave: il perdere, il cercare, il gioire. Inoltre ci offrono l’immagine di Dio e il comportamento di Gesù: un tratteggio sorprendente, unico nella letteratura religiosa di tutti i tempi. Ma nelle parabole si riflette anche una preoccupazione pastorale: il problema dell’accoglienza di chi ha sbagliato. I tre racconti esprimono un pressante invito a cambiare mentalità ad entrare nelle vedute di Dio, a capire il suo agire, a condividere la sua gioia, condizione necessaria per entrare in comunione con lui ed avere il suo pensiero.
Salvare chi si perde.
Appare abbastanza illogico abbandonare un gregge intero  per andare alla ricerca di una sola pecora che si è perduta! 99 contro 1, ma questo contrasto mette in risalto l’interesse del pastore per la singola pecora: il fatto che la pecora si trovi in difficoltà basta per mobilitare la sua attenzione e le sue energie su quella sola. Il Vangelo di Tommaso (n. 107), a sua volta, riporta una parabola della pecora perduta. Ma in questo apocrifo, la pecora perduta è la più grande, la più bella, la preferita del pastore che va alla sua ricerca. L’insegnamento di Gesù è completamente frainteso: se un pastore perde una pecora del gregge, certo farà l’impossibile per ritrovarla, non perché è la migliore, ma semplicemente perché gli appartiene. Così agisce Dio. Se per Dio il peccatore ha tanto valore, non è perché possiede delle qualità particolari, ma proprio perché ha bisogno di aiuto. Gesù incarna il comportamento di Dio che per primo va in cerca di ciò che è perduto, e che rende visibile sedendo a tavola con i peccatori e i pubblicani. Il rapporto fra le novantanove pecore e la sola che è scappata accentua ancor più il prezzo che Dio dà alla salvezza di ciascun essere umano. E noi? Abbiamo la stessa preferenza nel raggiungere chi si perde o resta indietro? Quali sono le nostre priorità pastorali? Siamo disposti come la donna della parabola che ha perso la moneta a spazzare via ogni pregiudizio dal nostro cuore e davanti alla porta delle nostre comunità perché non siano chiuse come dogane, come scrive papa Francesco (cfr EG 47)? Saremmo poi farisei a nostra volta se non ci facessimo consapevoli d’avere in noi zone smarrimento e buio, bisognose di ritrovamento e di luce.
Cercare chi si perde.
Osserviamo il pastore che cammina e fatica sulle tracce della pecora perduta: quanta strada, quanti sentieri, quanta salita, quante discese… Osserviamo la donna nella sua povera casetta palestinese (con una piccola finestrella insufficiente per vederci bene) che accende la lampada, spazza accuratamente su un pavimento sconnesso, probabilmente di pietra e di terra: quanta costanza, quanta caparbietà…
Cercano finché non trovano. L’uno e l’altra non si scoraggiano, non si danno per vinti. Così il Signore: non lascia nulla di intentato. Impariamo. Non dovremmo mai interrompere un dialogo, eliminare un ponte. Camminiamo sui passi di Gesù.
Gioire per chi è stato ritrovato.
Non è vero, come talvolta si dice a proposito della teologia dei fratelli di altre religioni, che comunque l’dea di Dio è la medesima in tutte. Il cristianesimo rivendica giustamente di custodire un’immagine di Dio del tutto originale. Certo Dio è l’unico Dio, ma Gesù ce ne dà una descrizione con dei contorni esatti, sorprendenti, unici. Gesù ci mostra il volto raggiante di Dio, raggiante di felicità per aver trovato e accolto chi era perduto, per radunare attorno a sé le creature nella sua casa. La parabola della pecora perduta è narrata anche dall’evangelista Matteo che insiste più sulla ricerca, Luca invece più sulla gioia del ritrovamento (è presente il tema del compimento del regno e del banchetto escatologico). E come interpretare “i giusti che non hanno bisogno di conversione”? Se pensiamo agli avversari di Gesù è evidente il tono ironico: e chi non ha bisogno di conversione? Se l’evangelista pensa veramente ai veri “giusti” di cui ha parlato all’inizio del suo vangelo, allora vuole sottolineare come la gioia di Dio per i peccatori che tornano è davvero una gioia speciale, quella delle grandi occasioni; gioia che non ha l’opportunità di prodursi a proposito dei giusti!
L’evangelista vuole smentire il volto di Dio che talvolta ci immaginiamo, volto di un giudice implacabile. “Gioite con me”, dice. Condividiamo la sua gioia e facciamo festa per ogni ritorno: il nostro e quello dei fratelli!

Omelia XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

San Leo, 11 settembre 2016

Sante Cresime

Es 32,7-11.13-14
Sal 50
1Tm 1,12-17
Lc 15,1-32

Cari ragazzi, oggi diventate testimoni e annunciatori di un messaggio straordinario: il messaggio della misericordia. Non è vero, come talvolta si dice a proposito della teologia di altre religioni, che comunque l’dea di Dio è la medesima in tutte. Il cristianesimo rivendica giustamente di custodire un’immagine di Dio del tutto originale. Certo Dio è l’unico Dio, ma Gesù ce ne dà una descrizione con dei contorni così particolari, così sorprendenti, da essere unici. Gesù ci mostra il volto raggiante di Dio, raggiante di felicità per aver trovato e accolto chi era perduto, per radunare attorno a sé le creature nella sua casa. Sentite il vangelo che oggi viene letto in ogni parte del mondo.
Pubblicani e peccatori vanno a Gesù per ascoltarlo. E lui li accoglie. I farisei e gli scribi trovano la cosa sconveniente. In quei peccatori, probabilmente, funzionavano ancora le antenne che rendono possibile la comunicazione interpersonale: colgono il guizzo di gioia che Gesù prova nell’incontrarli. Si sentono attesi, conosciuti, amati e, non ostante tutto, stimati, ritenuti capaci di essere gioia per qualcuno. Ritrovano, così, il senso della vita. Gesù non nasconde di provare gioia e poi la manifesta accettando l’invito a tavola. Vorrebbe condividere questo sentimento con i responsabili del suo popolo. Purtroppo, dall’alto della loro aristocrazia spirituale, i responsabili di ieri (speriamo non quelli di oggi), ritengono inammissibile questo stile accogliente.
Ma non temano i ben pensanti: Gesù non transige sulla verità e sulla pratica della virtù, non accetta compromessi; invita i peccatori a ravvedersi e si rivolge loro con forza e soavità: Non peccare più! Come dire: ce la puoi fare. Coraggio: io credo in te! In tre parabole successive Gesù descrive minuzio­samente l’atteggiamento di Dio, il suo ardore nel cercare il peccatore, il suo patire e il suo gioire. Si perde una pecora, si perde una dracma, si perde un figlio: anche Dio ha le sue sconfitte. Ma l’amore vince proprio perdendosi dietro a chi è perduto. Se Dio accetta le mie sconfitte perché non dovrei perdonare agli altri e a me stesso? Ritorno all’incipit di questa pagina evangelica; testualmente: Siccome tutti i peccatori e pubblicani si avvicinavano a Gesù per ascoltarlo… Mi chiedo come mai i peccatori, i cosiddetti “lontani”, si sentivano attratti da Gesù, mentre oggi tanti sfuggono alla Chiesa e alle nostre comunità? E penso a me, al mio ministero di pastore: perché “i peccatori” mi girano alla larga? Confesso d’essere andato un po’ in crisi. E tuttavia devo riconoscere che proprio nella Chiesa, a mia volta, ho trovato il perdono e la gioia. Sono stato accolto!

 

Omelia per la Professione Perpetua di Suor Maria Vera

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Convento di San Lazzaro (Ponte Cappuccini), 4 settembre 2016
Professione perpetua di Suor Maria Vera

1.

Cara Suor Vera, viviamo con te questo momento speciale in cui la percezione del Regno si fa più travolgente, un avvenimento del quale il cuore è inebriato. Non hai avuto paura di Gesù. Al contrario. I suoi occhi, il suo cuore, il suo programma, ti hanno affascinato. Sei pronta a seguirlo fino alla follia perché l’amore non ha mezze misure.
Ci siamo anche noi con te. Ti accompagniamo. Diciamo anche noi con te il nostro sì al Signore. C’è sicuramente tra noi chi sta compiendo passi decisivi dietro al Maestro, passi che compromettono, passi in salita, passi faticosi. Il tuo sì, i nostri sì, uniti insieme nel sì della Chiesa tutta…
Come vedi l’avventura che suggelli con la professione perpetua è profondamente ecclesiale. Per vari motivi.
Ecclesiale perché la Chiesa l’accoglie, l’approva, la benedice e la fa sua. Accogliendola, in questo momento, torna a domandarla a ciascuna delle tue sorelle e a ciascuno di noi fratelli e amici, chiamati ad una radicale sequela di Gesù, con dedizione totale.
Ecclesiale perché il tipo di vita a cui sei stata chiamata è segno della Chiesa: Chiesa sposa, Chiesa Madre… Segno di una Chiesa che sa di essere povera perché non possiede altro che la Parola di Dio e il Sacramento di Cristo, che vuole andare ai poveri, condividerne la condizione, promuoverli umanamente, elevarli spiritualmente; che vuole annunziare soprattutto l’Evangelo della misericordia. Quanta vita, quante vite, quanta storia, custodisce questa casa. Se le pietre potessero parlare…
Ecclesiale, perché questo tipo di vita è strumento per la Chiesa. In te e attraverso te, nelle tue sorelle e attraverso le tue sorelle, la Chiesa può dedicarsi a quello che è più necessario: la preghiera, l’adorazione, l’intercessione. I Dodici istituirono i diaconi per il servizio alle mense per potersi dedicare – dice il libro degli Atti – alla preghiera e alla predicazione. Tu e le sorelle rappresentate al vivo questa priorità dell’essere stesso della Chiesa sposa, tutta e solo per il suo Signore e per tutto il tempo, in modo che abbia poi efficacia l’attività e fecondità il ministero della predicazione.
Ecclesiale ancora perché interpreta l’esigenza della missione della Chiesa. Ci deve essere, nella Chiesa, chi, ispirato da Dio, prega per gli altri, per quelli che non pregano, per quelli che non riescono a pregare. Ci deve essere nella Chiesa chi prega per amore, con amore, per l’amore. La preghiera salva, l’amore può tutto, la bellezza evangelizza.
Infine, ecclesiale questa vita perché gloria della Chiesa. In essa risplende il primato dell’amore e l’indissolubilità di azione e contemplazione.

2.

Seguiamo, in diretta, la lettura evangelica. C’è tanta folla attorno a Gesù, ma non si esalta per il numero, non cerca l’applauso della gente. Gesù si volta. Indirizza lo sguardo dritto negli occhi di chi gli sta di fronte. Cerca la totalità del cuore fosse anche solo da parte dei Dodici e, paradossalmente, cerca anche di meno: cerca il cuore di uno… di me, di te! Da uno che abbia, come Pietro, cuore e coraggio di ripetere: Tu solo, Signore, hai parole di vita!
Gesù detta le condizioni. Il suo linguaggio, solitamente amabile e solare, lascia di stucco: parla di urgenza, rinuncia, distacco… chiede di preferirlo a parenti e amici… Ancora: chiede di preferirlo persino alla propria vita… Infine chiede di portare la propria croce venendo dietro a lui… cioè, il massimo dell’amore. La scuola di Gesù è diversa da quelle rabbiniche del suo tempo. Alla scuola dei rabbi si andava per libera scelta per un percorso formativo; alla fine, constatato il profitto, si poteva diventare rabbi a propria volta. Non è così per i discepoli di Gesù: essi rispondono ad una chiamata profetica che li lega per sempre non solo all’insegnamento del maestro, ma alla sua persona e al suo destino. Si capisce allora l’esigenza di posporre i legami famigliari, richiesta inaudita nell’ambiente delle scuole rabbiniche. Si capisce soprattutto il vero significato dell’invito a portare la croce. L’evangelista Luca insiste sul valore permanente e quotidiano di tale realtà: il discepolo è indissolubilmente legato al destino del Crocifisso-risorto, e ciò implica comunione di morte e di vita con lui. Ognuno ha la sua croce, cioè sofferenze e prove di ogni genere; ma il contesto suggerisce una comprensione più radicale: la disponibilità a dare la vita per il Signore, fosse anche il martirio, comunque a lasciare tutto per il Tutto! Portare la croce non è sinonimo di passiva rassegnazione, appartiene alla definizione del discepolo di Gesù. Negli Atti degli apostoli viene ricordata l’esortazione di Paolo e Barnaba alle comunità appena evangelizzate: E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (At 14,22). Il senso è dato da Gesù stesso che ha aperto la via alla piena realizzazione attraverso il dono di sé. E’ la nuova scuola del discepolo.
Il discepolo di Gesù mette le esigenze dello stare con Gesù al primo posto, anche se comportano lacerazioni. Se capite male queste parole sono pericolose: fanno pensare ad un cristianesimo tetro, per sconfitti e deboli oppure da integralisti e “talebani”. Ma l’accento va posto sul verbo principale: essere discepolo (espressione che torna ben tre volte in poche righe, quasi un responsorio); il centro della frase non è sulla rinuncia, ma sulla conquista; non sul punto di partenza, ma sul traguardo. Non sui «no», ma sui «sì». Gesù non vuole tanto, vuole tutto!
La radicalità della sequela va compresa sullo sfondo della novità escatologica che Gesù sta inaugurando: il regno di Dio. A volte siamo condizionati da una lettura moralistica dei vangeli: ci fermiamo ai buoni sentimenti, alle belle parole… In verità il nocciolo della predicazione di Gesù sta nell’annuncio di un evento decisivo che sta per accadere gioioso e minaccioso a seconda di come ci si pone di fronte ad esso: coincide con la sua persona!
Tuttavia, la decisione di seguirlo non è irrazionale o emotiva. Prima – dice Gesù – siediti a ragionare, come i protagonisti delle due mini parabole conclusive. Senza riflessione, senza consapevolezza delle proprie inconsistenze, senza ascolto della Parola di Dio, senza preghiera e senza una comunità come si può anche solo immaginare una vita evangelica?

Omelia XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Monastero S. Antonio in Pennabilli, 4 settenbre 2016

1.

Anche se a distanza ho seguito con interesse l’iniziativa di questa tre giorni di studio sul dialogo interreligioso. Il mio pensiero sull’argomento vi è noto: l’avete posto su una paginetta del programma. Lo ribadisco c’è una parola che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto di testimoniare: dialogo. Sull’esempio del Signore Gesù, il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia. Rischio di ripetere cose già sentite in questi giorni. Soprattutto rischio di risultare generico…
Aprirci agli altri non impoverisce, ma rende più ricchi perché ci fa conoscere la verità dell’altro, l’importanza della sua esperienza e il retroterra di quello che dice, anche quando si nasconde dietro atteggiamenti e scelte che non condividiamo. Un vero incontro implica la chiarezza della propria identità, ma al tempo stesso la disponibilità a mettersi nei panni dell’altro per cogliere, al di là della superficie. Ciò che si agita nel suo cuore, che cosa cerca veramente. In questo modo può iniziare quel dialogo che fa avanzare nel cammino verso nuove sintesi ed arricchisce l’uno e l’altro. Questa è la sfida davanti alla quale si trovano tutti gli uomini di buona volontà.

2.

La pagina evangelica di questa domenica ci provoca fortemente.
Gesù ti propone di seguirlo, di far strada con lui, di stare in famigliarità con lui. Dice: Se vuoi. Sei di fronte ad un invito e ad una decisione importante. Quando ha risuonato in te questo dialogo? Tanto tempo fa? E’ una storia vecchia? E’ successo di recente? Ne sei ancora inebriato? Sei in attesa? Considera che sta accadendo adesso. “Fac ut vocaris”!
Seguiamo, in diretta, la lettura evangelica. C’è tanta folla attorno a Gesù, ma non si esalta per il numero, non cerca l’applauso della gente. Gesù si volta. Indirizza lo sguardo dritto negli occhi di chi gli sta di fronte. Cerca la totalità del cuore fosse anche solo da parte dei Dodici e, paradossalmente, cerca anche di meno: cerca il cuore di uno… di me, di te! Da uno che abbia, come Pietro, cuore e coraggio di ripetere: Tu solo, Signore, hai parole di vita!

3.

Gesù detta le condizioni. Il suo linguaggio, solitamente positivo, amabile e solare, lascia di stucco: parla di urgenza, rinuncia, distacco… chiede di preferirlo a parenti e amici… Ancora: chiede di preferirlo persino alla propria vita… Infine chiede di portare la propria croce venendo dietro a lui… cioè, il massimo dell’amore. La scuola di Gesù è diversa da quelle rabbiniche del suo tempo. Alla scuola dei rabbi si andava per libera scelta per un percorso formativo; alla fine, constatato il profitto, si poteva diventare rabbi a propria volta. Non è così per i discepoli di Gesù: essi rispondono ad una chiamata profetica che li lega per sempre non solo all’insegnamento del maestro, ma alla sua persona e al suo destino. Si capisce allora l’esigenza di posporre i legami famigliari, richiesta inaudita nell’ambiente delle scuole rabbiniche. Si capisce soprattutto il vero significato dell’invito a portare la croce. L’evangelista Luca insiste sul valore permanente e quotidiano di tale realtà: il discepolo è indissolubilmente legato al destino del Crocifisso-risorto, e ciò implica comunione di morte e di vita con lui. Ognuno ha la sua croce, cioè sofferenze e prove di ogni genere; ma il contesto suggerisce una comprensione più radicale: la disponibilità a dare la vita per il Signore, fosse anche il martirio, comunque a lasciare tutto per il Tutto! Portare la croce non è sinonimo di passiva rassegnazione, appartiene alla definizione del discepolo di Gesù. Negli Atti degli apostoli viene ricordata l’esortazione di Paolo e Barnaba alle comunità appena evangelizzate: E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio (At 14,22). Il senso è dato da Gesù stesso che ha aperto la via alla piena realizzazione attraverso il dono di sé. E’ la nuova scuola del discepolo.
Il discepolo di Gesù mette le esigenze dello stare con Gesù al primo posto, anche se comportano lacerazioni. Se capite male queste parole sono pericolose: fanno pensare ad un cristianesimo tetro, per sconfitti e deboli oppure da integralisti e “talebani”. Ma l’accento va posto sul verbo principale: essere discepolo (espressione che torna ben tre volte in poche righe, quasi un responsorio); il centro della frase non è sulla rinuncia, ma sulla conquista; non sul punto di partenza, ma sul traguardo. Non sui «no», ma sui «sì». Gesù non vuole tanto, vuole tutto!

4.

La radicalità della sequela va compresa sullo sfondo della novità escatologica che Gesù sta inaugurando: il regno di Dio. A volte siamo condizionati da una lettura moralistica dei vangeli: ci fermiamo ai buoni sentimenti, alle belle parole… In verità il nocciolo della predicazione di Gesù sta nell’annuncio di un evento decisivo che sta per accadere gioioso e minaccioso a seconda di come ci si pone di fronte ad esso: coincide con la sua persona!
Tuttavia, la decisione di seguirlo non è irrazionale o emotiva. Prima – dice Gesù – siediti a ragionare, come i protagonisti delle due mini parabole conclusive. Senza riflessione, senza consapevolezza delle proprie inconsistenze, senza ascolto della Parola di Dio e senza preghiera, come si può anche solo immaginare una vita evangelica?

Omelia nella Festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Basilica del Santo (RSM), 3 settembre 2016

Mt 5,13-16

È molto significativo il gesto simbolico col quale il diacono scioglie i nodi che tengono serrato il libro dei Vangeli. Ed è proprio con la forza del Vangelo che abbiamo potuto cantare insieme, alternandoci al coro, il ritornello del Salmo 86: «Le mie sorgenti sono in te, città di Dio». È la prima volta che mi rivolgo al mio popolo e ai miei presbiteri dopo il terremoto che ci ha resi tutti un po’ marchigiani, laziali e umbri. Mi rendo conto di come l’informazione sui fatti del terremoto pian piano abbandoni la prima pagina dei quotidiani, vada in seconda pagina, scivoli in terza e poi sparisca. Mentre chi è nella sofferenza e nella prova continua a lottare. Vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza. Ai nostri antenati è capitato di abitare una bellissima penisola, distesa interamente sul mare e baciata dal sole. Molti l’hanno corteggiata: spagnoli, francesi, tedeschi. C’è chi è venuto da lontano per occuparla con imprese rocambolesche (Annibale, Napoleone, etc.). Ma questa penisola è tra i siti a più alto rischio per quanto riguarda eventi sismici. Non passa che un pugno di anni senza che la terra torni a tremare. Crollano case, chiese, scuole, torri, municipi. Si spalancano crepe profonde, si celebra la conta dei morti e ci si fanno tante domande. Come prevedere e prevenire? Come soccorrere efficacemente? Come ricostruire, con quali modelli? Se la natura si chiama “provvidenza”, la società deve chiamarsi “previdenza” (Victor Hugo). Il credente, poi, ha ulteriori domande. Perché il Signore lascia i suoi figli cadere nella trappola di un gigante oscuro? E perché nell’ora più impensata? Come vivere da credenti una tale tragedia? La prima risposta è sicuramente la solidarietà. Si piange con chi piange. Si prega. Ci si mobilita. Per quanto possibile si condivide. La fede ci aiuta pian piano ad elaborare il terremoto. La nostra vita sulla terra – si sa – è caduca, in balia di mille eventualità, scandita da tanti addii, tribolata anche da terremoti familiari e personali ugualmente devastanti. Ammonisce la Scrittura: «Non abbiamo quaggiù una stabile dimora» (Ebr 13,14). Siamo di passaggio. Allora quanto stolte sono le nostre presunzioni, quanto ridicole le nostre meschinità e quanto insensate le iniziative di guerra, di terrorismo, che devastano interi paesi e città. Tutte disobbedienze. E com’è disobbediente la terra che trema ed esercita, in qualche modo, la sua ribellione! L’anima credente s’acquieta alzando lo sguardo verso l’eterno e, pensando ai caduti, confessa nella fede «sono tutti vivi nel Signore», e prega: «Solo tu, Signore, non passi».

Nei Vangeli c’è un racconto di cronaca nera riferito tempestivamente a Gesù. Diciotto persone sono morte nel crollo di una torre; si vuole una presa di posizione da parte del Maestro. Tra gli inquisitori c’è qualche “teologo da strapazzo” che vuol fare il paladino di Dio, quasi che Dio abbia bisogno di un difensore d’ufficio, e cerca a chi dar la colpa. E poi perché proprio a quei diciotto e non ad altri? Gesù risponde andando ben oltre: quei malcapitati non erano più peccatori degli altri e gli altri scampati non erano i più santi, cioè non si deve leggere la disgrazia come intervento della giustizia divina, semmai come occasione per fare discernimento, per guardarsi dentro, per riproporsi ciò che resta ed è essenziale. Se suona una campana a morto non chiederti per chi suona, suona per te (H. Hemingway). I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Alludendo anche all’esperienza del terremoto dell’Emilia, ho visto crollare tabernacoli con i cibori pieni di Eucaristia e ostie consacrate tra i calcinacci. Quelle ostie sono presenza di un Dio terremotato.

È festa per la nostra comunità, ma non possiamo non calare queste considerazioni in rapporto a quel che si vive in casa nostra. Anche noi abbiamo i nostri “terremoti”. Stando accanto a chi ha perso tutto si relativizzano i nostri problemi e siamo spinti ad avere una percezione più equilibrata della realtà. Abbiamo vissuto in passato livelli piuttosto alti di vita economica. Oggi le cose stanno cambiando, ma guardiamo alla quotidianità e alla situazione in cui versa il paese a noi più vicino, l’Italia, a cominciare da quell’Italia con cui facciamo diocesi: la Val Conca, la Val Foglia, la Val Marecchia, in una parola il Montefeltro. La Caritas diocesana potrebbe fornirci ragguagli interessanti in merito.

In un’unica Solennità celebriamo oggi la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore, Marino. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate. Unite, ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna, dove si dà «a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente e più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa laicità trae uno dei suoi punti di forza da una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana.
Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, è proprio su queste radici che si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale non per la concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona.
Chi è credente deve contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore della laicità.
Laicità è anzitutto accoglienza dell’altro col suo patrimonio ideale e la sua storia, i suoi diritti ad avere spazi e mezzi, insieme ai doveri. La vera laicità è molto più della tolleranza, perché è simpatia verso il dono che ognuno può portare all’insieme.
Credenti e non credenti non nascondiamo le nostre origini da un santo della Chiesa cattolica. Anche questo fa parte della nostra peculiarità, ci costituisce – appunto – sammarinesi. Talvolta c’è una voglia di emancipazione che assomiglia a quella degli adolescenti dai loro familiari. Dalle crepe del nostro “terremoto sociale”, vedo che c’è bisogno di riconciliazione fra tutti. Stiamo vivendo una stagione caratterizzata da rivalse, litigiosità, forse anche vendette. Questa è la nostra più grande povertà.

Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo: il regalo della reciproca stima accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi. La processione che faremo al termine della Messa è, per noi credenti, il segno di Dio che visita il suo popolo e che, attraverso San Marino, benedice tutti. Così sia.