Omelia nella Solennità di San Leone

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 1 agosto 2017

Gn 12,1-4
Fil 4,4-9
Mt 7,21-27

Cari presbiteri,
cari fratelli e sorelle,

a dispetto della iconografia tradizionale, che rappresenta San Leone come vecchio austero e rude, la liturgia – soprattutto le letture – è tutta in prospettiva giovanile.
Avete sentito dalla Genesi le parole rivolte ad Abram dedicate a quegli inizi benedetti, agli orizzonti futuri di cammino, anzi di avventura? «Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò» (Gn 12,1).
Non sono queste le parole piene di grazia e di speranza che accompagnano la crescita dei giovani chiamati ad entrare nella vita (la ricerca di una scuola o di una università, poi di una sistemazione lavorativa e per molti il matrimonio)? Si tratta sempre di una ricerca vocazionale, bisognosa di coraggio e di valori.

Avete sentito l’invito alla gioia ribadito dalla seconda lettura? «Fratelli, rallegratevi nel Signore, sempre; e lo ripeto ancora, rallegratevi» (Fil 4,4). La gioia è la caratteristica di tutte le aurore, ma può ringiovanire anche i nostri tramonti. Ricordate il salmo: «Introibo ad altare Dei; ad Deum qui laetificat iuventutem meam» (Sal 43, 4)? Invito alla gioia ma anche al necessario, indispensabile e conseguente programma educativo, attualissimo per i nostri ragazzi, da non trascurare da noi adulti educatori: «Tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, è quello che dovete fare» (Fil 4,9).
L’invito di Paolo ai Filippesi ha una corrispondenza nella parabola evangelica dell’architetto saggio che costruisce sulla roccia. Cade la pioggia, straripano fiumi, soffiano venti su quella casa, ma non cade (cfr. Mt 7,24-25).

Ci stiamo preparando alla celebrazione del Sinodo dei Vescovi su “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. È vero, il Sinodo è dei Vescovi che si riuniscono col Papa, ma tutto il popolo di Dio è in certo modo coinvolto. Anzitutto con la preghiera, con la riflessione, con l’invio di un contributo e, particolarmente, col mettersi in ascolto dei giovani e poi col dovere di rivolgere loro con franchezza una parola, perché, a loro volta hanno bisogno di ascoltare e di imparare. Guai rinunciare alla missione educativa (cfr. 1Cor 9,16).
Papa Francesco ci chiede in questo tempo una attenzione speciale ai giovani, a tutti i giovani, alle loro attese, speranze, fragilità e debolezze. Una richiesta che diventa impegnativa e urgente, dato che secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla povertà sono proprio i giovani i più esposti alle difficoltà della crisi.

Parafraso uno dei responsabili della Pastorale Giovanile della nostra diocesi. Sintetizza con tre parole la situazione giovanile: fascino, malinconia, speranza.
Fascino, perché nei volti dei giovani c’è un quotidiano stupirsi e il desiderio di sentirsi parte di un grande progetto. Malinconia, perché in questa ricerca tante sono le difficoltà: difficoltà relazionali, paura del futuro, smarrimento, incertezze, fragilità… Speranza, che tiene per mano lo stupore e la malinconia, storie comunque di giovani che si affacciano alle nostre parrocchie.

È possibile ai giovani del nostro tempo costruire la loro casa sulla roccia? A prima vista è stridente la distanza tra le richieste di Gesù e la situazione che stanno vivendo. Le esperienze dei nostri giovani sembrano tutte tentativi di costruire sulla sabbia ed essi vengono spazzati via dalle prime intemperie. Nel tempo della precarietà strutturale, nella società liquida, pretendere di costruire la casa sulla roccia sembra un miraggio irraggiungibile, una speranza utopica e una ingannevole illusione.
La carenza del lavoro, le incertezze sul futuro, l’evaporazione delle sicurezze sociali rendono sempre più difficile dare una stabilità ai progetti di vita. Spesso i giovani finiscono per rimandare le scelte decisive al punto da ritenerle irraggiungibili e, in ultima analisi, poco desiderabili. Si affievoliscono non solo le possibilità, ma anche le attese, i desideri di fare cose grandi, di slanciarsi in progetti audaci. Essi arrivano a mortificare le proprie aspirazioni piegandosi a quella dittatura del relativismo che rende significativo solo ciò che rimane mobile, immediato, reversibile.

Così alla precarietà strutturale della situazione socioeconomica si sovrappone una precarietà interiore e spirituale che allontana dal dono di sé e dai progetti di bene che lo Spirito continua a ispirare nel cuore dei giovani. Nemmeno la fede è estranea a questa deriva culturale. Anziché cercare Dio nelle strade tracciate dai nostri padri e nella vita delle nostre comunità cristiane, i giovani stanno tracciando sentieri nuovi, a volte con slanci generosi ed aspirazioni autentiche, ma spesso dentro i termini ristretti della ricerca di un Dio che faccia stare bene, che consoli, che rassicuri. Un “Dio a modo mio” che ha la dolcezza del padre misericordioso, ma assai distante dal fuoco del cespuglio ardente che manda Mosè a salvare il suo popolo.

Le nostre comunità vivono con trepidazione la distanza dei giovani dalle loro liturgie, dalla vita comunitaria, dall’impegno nella carità. Tutto ciò che sta a cuore alla Chiesa sembra estraneo alla vita dei giovani e ciò che sta a cuore ai giovani appare distante dalle preoccupazioni ecclesiali. Non di rado facciamo l’esperienza di una certa incomunicabilità col mondo giovanile. Dobbiamo ammettere, pur nella volontà di incontrarli e di stare con loro, la nostra inadeguatezza e le deboli chance di aggancio e di linguaggio. E tuttavia ci troviamo di fronte ad una generazione che rischia di perdersi proprio perché non si sente chiamata. La dinamica della vita è vocazionale: si è chiamati da qualcuno all’esistenza. Si vive e si cresce perché qualcuno ci chiama a diventare grandi. Ma i nostri giovani incontrano una comunità bella, attraente, che li sprona a crescere, a spendersi e a rischiare? Si scontrano sovente con un mondo adulto che concede loro ogni divertimento, ma li tiene lontani dalla vita, dall’impegno, dal dono.

Dove trovare allora una roccia forte, una rupe solida (come questa di san Leo) su cui costruire una casa che resista alle tempeste? La roccia di cui parla Gesù non è la stabilità del mercato finanziario, la sicurezza del lavoro, la crescita economica, non somiglia alle sicurezze che abbiamo visto svanire in quest’ultimo decennio di crisi. La roccia è semplicemente Lui.
La roccia a cui allude Gesù non somiglia per niente a ciò che i nostri occhi vedono solido e durevole e a ciò che troppo spesso i nostri discorsi ecclesiali rimpiangono.
Tutto questo diventa perciò un invito alla Chiesa e a tutti i cristiani ad una profonda conversione del cuore.
Conversione, cioè fidarsi del Signore Gesù, della sua parola, della sua intramontabile attrattiva. Mostrarlo senza riduzioni o esenzioni, così come è. Fidarsi dei giovani, perché hanno la capacità di abitare da protagonisti questo tempo e il dono dello Spirito Santo per plasmare con il Vangelo le sue novità e le sue aspirazioni. Fidarsi – perché no? – anche di noi, sacerdoti, educatori e genitori: sapremo con questa fiducia stare accanto a questa “cara gioventù” (San Giovanni Bosco) per accompagnare senza timori e incoraggiare il suo cammino convinti cha la roccia incrollabile su cui costruire la casa è Gesù Cristo, ieri, oggi e sempre.

Omelia della XVII domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Colonia sammarinese a Chiusi della Verna, 30 luglio 2017

Mt 13,44-52

(da registrazione)

Oggi siamo immersi nella più bella basilica esistente: il grande tempio della natura. Osserviamo le diverse gradazioni di verde, il blu del cielo, gli alberi che si ergono come colonne… E tutti noi uniti insieme: bambini e ragazzi di tutte le età, giovani educatori ed animatori, adulti. Gli adulti che son venuti a La Verna da ragazzi – cinquant’anni fa insieme a don Peppino – sono stati i pionieri che hanno reso bello questo luogo, con molti sacrifici nei primi tempi. Per tutto questo lodiamo il Signore.

Che cosa raccomanda oggi Gesù a noi che siamo riuniti in questo grande tempio della natura? Che cosa ci invita a fare non solo questa settimana, ma per tutta la vita?
Gesù vorrebbe persuaderci – anche se in molti non si lasciano persuadere – che il Regno di Dio (modo di dire che indica il suo cuore, la sua persona) è la cosa più bella, più ricca, più utile, più necessaria che ci sia. Il Regno di Dio si può paragonare ad un tesoro, ad una perla preziosa, ad una rete piena di pesci. Tre immagini per indicare qualcosa di molto prezioso. Paragoni significativi per la gente del suo tempo. Oggi avrebbe trovato probabilmente altre similitudini. Ma anche per noi tali immagini sono stupefacenti.
Gesù vuol dirci: «Persuaditi, la mia amicizia verso di te è la cosa più preziosa che ci sia, fidati».
Gesù ci invita ad essere scaltri come colui che ha scoperto il tesoro in una terra brulla, apparentemente inospitale, una terra che nessuno si sarebbe mai sognato di comprare. Egli ha dovuto affrontare sicuramente il sarcasmo dei concittadini e le critiche dei familiari, ma, incurante di loro, ha speso tutto ciò che aveva per acquistare quel campo.
Poi, Gesù loda chi cerca la perla, la cerca dappertutto: nel suo paese, nella sua regione, nella sua nazione… Non smette mai di cercare. È un collezionista.

Qual è il fazzoletto di terra in cui trovare il tesoro? In quale posto si trova la perla preziosa?
Il tesoro è dentro di noi, nel nostro cuore, nell’amicizia appena sbocciata con il Signore Gesù. Il suo Regno è dentro di noi. Per questo dobbiamo essere astuti come colui che ha trovato il tesoro, come San Francesco d’Assisi che ha abitato questi monti. Qualcuno l’ha sgridato: suo padre, la gente del suo tempo. Gli hanno dato del pazzo, ma lui era più furbo di tutti. Continuiamo a cercare!
La mia famiglia, il mio campo a Chiusi della Verna, Colonia San Marino, sono il luogo del tesoro, il luogo in cui trovare la perla preziosa. Non dobbiamo dire: «Ah, se fossi in un altro posto, se fossi in un’altra famiglia!». No, il tesoro è proprio qui.  Dobbiamo accettare che nel nostro pezzo di terra, oltre al tesoro che sta sotto, ci siano anche le erbacce, le ortiche, i sassi, gli insetti… Dobbiamo abbracciare il “pezzo di terra” che il Signore ci ha dato con tutto quello che contiene, ma cercando ogni giorno il tesoro che vi sta nascosto.

Concludo con una parabola moderna inventata da me. Nella mia città di origine, Ferrara, c’è un bellissimo palazzo costruito nel 1400. Si chiama Palazzo dei Diamanti. Esso è completamente rivestito di pietre appuntite a forma di diamante. Sono tantissime, saranno almeno diecimila. Una leggenda dice che in una di quelle pietre è nascosto un diamante. Quando mi capita di passare per la strada dove si trova il palazzo mi sembra tutto mi sembra fatato, semplicemente perché so che in una punta c’è un diamante. Il fatto di sapere che in una delle punte si trova un diamante rende il palazzo più bello, fatato, affascinante. È quello che capita nella nostra vita quotidiana. Abbiamo davanti a noi una nuova settimana. Sarà bellissima, perché ci sarà un momento in cui tra noi e Gesù avverrà un “ciak” che renderà tutto più bello, trasfigurato.

Omelia XIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

La Verna, 9 luglio 2017

Campo adulti Azione Cattolica

Mt 11,25-30

(da registrazione)

Il Vangelo registra un’esplosione di gioia di Gesù. La redazione dell’evangelista Luca è più esplicita, perché dice che Gesù «esultò di gioia nello Spirito Santo ed esclamò: “Ti rendo lode…”» (Lc 10,21).
Gesù ha vissuto altri momenti di gioia; ad esempio alle nozze di Cana a cui partecipa per far festa con gli sposi, e addirittura trasforma l’acqua in un vino migliore del precedente, oppure quando Maria di Magdala rompe davanti a lui il vaso di profumo che si effonde per tutta la casa e ne gioisce, a dispetto del brontolio di Giuda.
Nel brano odierno la gioia di Gesù viene motivata da un fatto che l’ha commosso. Gesù ha appena svelato i segreti del Regno e ha visto che molti che hanno la presunzione di essere dotti nelle Scritture non riescono a capirli, mentre «i piccoli», i semplici, ne colgono il significato. Ritorna alla mente il brano dell’Antico Testamento in cui Nabucodonosor ebbe una visione che nessuno a corte è in grado di interpretare, tranne il piccolo Daniele. La conoscenza del Signore, dunque, non è appannaggio delle persone superdotate intellettualmente, non proviene da raffinati corsi di filosofia, ma è per tutti. Non che Gesù disprezzi la cultura, lo studio, il sapere; anzi, da bambino interrogava e rispondeva ai dottori del tempio di Gerusalemme e tutti erano ammirati dalla sua sapienza. Gesù vuol dirci che c’è una conoscenza che viene dal mettersi, come lui che è figlio – che è, quindi, «un piccolo» –, nella relazione col Padre. Nell’esperienza della relazione col Padre si trova il sapere che dà sapore.
La conclusione è: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi» (Mt 11,28). Noi, di solito, intendiamo «stanchi e oppressi» per i fatti della vita, ma, in questo contesto, gli stanchi e gli oppressi erano quelli che giacevano sotto il peso della legge, di una selva sterminata di prescrizioni che si dovevano osservare; quasi tutte giustissime, ma che non erano capite nella giusta prospettiva. Gesù afferma che tutta la legislazione e tutto il sapere dell’Antico Testamento può essere un gravame.
In realtà, nel testo c’è anche una sottile vena polemica. Infatti, il Vangelo di Matteo è stato scritto pensando soprattutto agli Ebrei, quindi per i cristiani provenienti da un giudaismo da cui devono imparare difendersi.
Le più belle melodie sono leggibili e cantabili soltanto se ci si mette nella prospettiva di Gesù, nell’esperienza di una vita filiale. «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».
Consideriamo questo Vangelo anche nella prospettiva dell’Inno alla carità (cfr. 1Cor 13) che abbiamo meditato questa mattina. Se possedessimo tutte le scienze e conoscessimo tutte le lingue, ma non avessimo la carità, cioè non avessimo un legame filiale con il Signore, cioè non accogliessimo il suo amore, non saremmo nulla; anche se compissimo opere strepitose, guarigioni, o sapessimo darci alle fiamme del martirio, ma non avessimo in noi l’amore, non saremmo nulla.

Omelia XIII domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Romagnano, 1 luglio 2017

Pellegrinaggio marina dei “primi cinque sabati del mese”

Mt 10,37-42

(da registrazione)

Proseguiamo nella pratica dei “primi cinque sabati del mese”. La Madonna, attraverso questa sequenza di cinque sabati, vuole stringerci sempre più forte a Gesù.
Ringrazio don Ezio Ostolani e i fedeli di Romagnano che ci hanno ospitato. Essere qui stasera è una grazia. Come abbiamo cantato nel Salmo 88, siamo qui per «cantare per sempre l’amore del Signore». La nostra vita ha come scopo la dossologia, cioè la lode e il ringraziamento. Così riportava il Catechismo: «Dio ci ha creati per amarlo, servirlo, lodarlo in questa vita e per goderlo nel Paradiso». Questo è il principio e il fondamento di tutta la vita cristiana: essere per la lode di Dio. Si diventa “voce” di tutte le creature che lodano il Signore.
Apriamo il Vangelo. Questa sera, in realtà, il Vangelo “apre” noi, perché ci inquieta. Quando ci si raduna per la lettura del Vangelo, se si esce un po’ turbati e scossi vuol dire che la Parola di Dio ha raggiunto il bersaglio. Quando invece si esce dalla porta della chiesa senza un interrogativo, senza una perplessità, senza un dubbio, vuol dire che la Parola di Dio è spiovuta su di noi, ma è scivolata via. Abbiamo bisogno che il Vangelo ci scuota con la sua forza dirompente.
Nel Vangelo di questa domenica incontriamo dieci frasi introdotte da un “chi”, pronome relativo. «Chi ama padre o madre, chi ama figlio o figlia…» (Mt 10,37).  Si possono dividere in due gruppi. I primi cinque “chi” riguardano le condizioni richieste a chi è discepolo di Gesù. Vuoi essere discepolo di Gesù? Sappi che è una cosa seria. Anche se si è deciso da tempo di esserlo, nel percorso arriva sempre un momento in cui Gesù ci provoca a fare un passo; qualche volta arriva a chiedere anche l’eroismo.
Personalmente, mi sento di affrontare i cinque “chi” che sono le condizioni per essere veri discepoli di Gesù soltanto nella preghiera. Quello che chiede il Signore è molto impegnativo. Egli non vuole dei discepoli “con riserva”, dei discepoli “part-time”. Egli non vuole molto da me, vuole tutto. Magari ho un cuore piccolo, una mente piccola, non importa; Gesù vuole semplicemente tutto. Almeno come tensione, come desiderio. Si sa che scivoliamo tanto facilmente nelle nostre fragilità.
Passo alla seconda sequenza di “chi”. Siamo alla fine del cap. 10 di Matteo, il capitolo dedicato agli araldi del Vangelo. Gesù dedica le ultime battute a far sì che sappiamo essere accoglienti con chi viene ad annunciarci il Vangelo. Chi è il messaggero del Vangelo? Sicuramente il nostro parroco, quando passa di casa in casa a benedire le famiglie, o quando viene a far visita ad un ammalato, oppure quando viene a portare la Santa Comunione, il primo venerdì del mese… E poi, chi ci annuncia il Vangelo? La persona che mi porta una testimonianza, la persona che, vedendo in me un fratello o una sorella, mi accoglie. Il secondo grappolo di frasi introdotte dal “chi” riguarda questa capacità: la generosità di saper accogliere i messaggeri del Vangelo.
Nell’Antico Testamento abbiamo sentito parlare della donna Sunammita, una donna illustre e facoltosa, che accolse il profeta Eliseo e venne ricompensata. In quel caso la ricompensa fu che ebbe la possibilità di concepire un figlio, ma sono tante altre le ricompense che il Signore può dare, inimmaginabili. Ad un sacerdote il Signore dona una paternità grande, vera, non simbolica, ed anche a chi è vicino ai sacerdoti. Penso alla mia famiglia che inizialmente era molto chiusa e, quando a mio fratello sacerdote è partito missionario, si è allargata e ha adottato persone che mai avremmo potuto immaginare di conoscere.
C’è una frase che appartiene al primo grappolo di “chi” che merita una spiegazione in più.
«Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,38). Cosa vuol dire prendere la propria croce? Sono stati spesi fiumi di inchiostro su questa frase originalissima. Nessuno osò parlare di croce prima di Gesù. Erode aveva abolito la crocifissione per l’eccessiva crudeltà; poi suo figlio la reintrodusse e toccò a Gesù.
Quando Gesù parla di «prendere la croce» non intende martirizzare i suoi discepoli, anzi, li vuole felici. Gesù vuol dirci che la croce è un segno di vittoria. «Prendere la croce» significa credere che l’amore vince, che si trova la vita donandola, che quando si spende la vita per gli altri, per la famiglia, per la diocesi, la si salva. Il Signore dice ad ognuno di noi: «Prendi la croce, non aver paura, è un segno di vittoria. Io ne ho portato il peso, a te do il gusto di sapere qual è il suo vero significato». Così sia.

Omelia XII domenica del Tempo Ordinario

Montefiorentino, 24 giugno 2017

Incontro conclusivo gruppo “giovani sposi” Carpegna

Mt 10,26-33

(da registrazione)

1. Una premessa: questa domenica e la prossima ci troviamo nella parte finale del capitolo 10 del Vangelo di Matteo. Esso contiene tutti i detti che Gesù ha indirizzato agli apostoli in quanto suoi messaggeri. È il discorso missionario di Gesù che, in primis, riguarda i sacerdoti.

2. «Non temete». Nella sintassi greca si tratta di un imperativo aoristo, tempo che non esiste nella lingua italiana. Gesù lo usa ben tre volte. «Non temete» si dovrebbe tradurre: «Mi raccomando, che non incominciaste ad avere paura!».
L’imperativo aoristo è rafforzativo – si può tradurre con «mi raccomando» –  ma implica anche un continuarsi nel tempo. Questa raccomandazione che Gesù fa ai suoi messaggeri che manda nel mondo è in previsione delle difficoltà che incontreranno. Egli sa che li attenderà la persecuzione.
Poi, Gesù dice: «Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati». Dio si prende cura dei suoi messaggeri e di ciascuno di noi in virtù, per esempio, del sacramento del Matrimonio. Quando ci si sposa si riceve una missione: si viene invitati ad essere fondatori di una piccola Chiesa.  Dovremmo studiare più profondamente i documenti della Chiesa sul Matrimonio. L’Esortazione Apostolica post-sinodale di Papa Francesco, Amoris Laetitia, e il dibattito nato intorno ad essa, sono un grande dono, perché ci hanno permesso di scoprire la bellezza del Matrimonio ed aspetti del sacramento che prima non venivano considerati.
Dunque, Gesù invita anche gli sposi a non avere paura, a non temere le difficoltà che verranno.

3. «Due passeri non si vendono forse per un soldo?». «Per un soldo» letteralmente sarebbe «per un asse», la moneta più piccola che c’era al tempo di Gesù. «Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il volere del Padre vostro». La traduzione qui non è perfetta. Infatti, potremmo dire “come mai, se i capelli del nostro capo sono tutti contati, se un passerotto che nidifica sotto il tetto davanti a Dio è prezioso, se la nostra vita e la nostra persona sono preziose davanti a Dio, cadono bambini che hanno appena iniziato a spiccare il volo, accade ancora la guerra, etc.?
Siamo un po’ condizionati dal proverbio che dice: «Non cade foglia che Dio non voglia». Invece, la traduzione corretta delle parole di Gesù è: «Eppure, nemmeno uno di essi cadrà a terra senza il Padre». Il Padre c’è sempre. Questo Vangelo è scritto proprio per me che ho paura, per me che ho tante zone della vita che sono sotto la paura, perché io mi renda conto che tutta la mia vita è protetta. Non ci sono fasi della vita che non siano protette, perché il Signore decide di farmi da nido con la sua mano e tutto quello che mi capita non è senza di lui. C’è lui! Perché non interviene? La storia, la natura, hanno il loro corso, la nostra vita comincia e si spegne, ma c’è lui. Siamo qui stasera perché Gesù vuol dirci questa cosa: «Non avere paura! Guai a te se hai paura! Allora non credi che Dio è nostro padre? Ricorda, lui ti fa da nido. Se tu patisci lui patisce con te, se tu soffri lui soffre con te». Gesù lo dice tre volte e lo dice con l’imperativo aoristo. Grazie Signore!
Infine Gesù aggiunge: «Se proprio vuoi avere paura, abbi paura solo di chi ti manda in rovina il cuore».

Messaggio di Pasqua

Buona Pasqua!
Un augurio che rivolgo a tutti. Ricordo in modo particolare le maestranze, gli operai e gli imprenditori che ho incontrato in queste settimane facendo visita a molte aziende del nostro territorio. C’è una ripresa? Non so dire, non ho i dati. Si è parlato di lavoro libero, partecipativo, solidale e creativo. Con un gruppo di operai si è ripresa una metafora sorridente, ma non meno vera di Benigni: “L’anima è rimasta indietro, non le resta che rincorrere il corpo”. Fuori di metafora: riprendiamo in mano il valore e il significato della spiritualità nella nostra vita e nel nostro lavoro. Non preoccupiamoci solo del profitto.
Un augurio calorosissimo ai ragazzi disabili, agli anziani e agli ammalati: a loro dedicherò la prima messa del giorno di Pasqua nell’Ospedale di Novafeltria. Ma saranno tutti presenti nella esperienza sempre sorprendente della preghiera. Ho fatto amicizia con uno sportivo, rimasto tetraplegico a causa di un grave incidente. La sofferenza e la disperazione l’ha portato a pensare e programmare un viaggio in Svizzera per essere aiutato a morire. Ma è stato decisivo per il cambiamento del suo progetto di morte, la riscoperta dell’essere figlio e dell’esser padre. Dunque è la vittoria della relazione sulla morte. Una grande lezione!
Un augurio affettuoso e grato ai miei fratelli sacerdoti. Mi ritengo fortunato a collaborare con loro. In queste settimane hanno visitato tante famiglie per dire “pace”, perché ogni casa sia aperta al sole, agli amici e a Dio! Ecco una parola per loro e per tutti: rimanere saldamente ancorati al Vangelo. Questo il nucleo essenziale: Gesù è risorto! È un fatto, non la rappresentazione di un concetto e neppure un mito per significare un’aspirazione. Come chicco di frumento Cristo è morto nella terra per portare frutti di risurrezione.
Mi ha colpito il titolo di un articolo di un giornale: “Non c’è pace, ma c’è risurrezione”. Realismo da una parte per l’inquietudine di questi giorni; mordente dall’altra per una speranza ben fondata.
Auguri!

+ Andrea Turazzi

Omelia della Domenica di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di San Leo, 16 aprile 2017

At 10,34a.37-43
Sal 118
Col 3,1-4
Gv 20,1-9

«Questo è il giorno che ha fatto il Signore: rallegriamoci ed esultiamo» (Sal 118,24).
Abbiamo cantato questa antifona, pieni di gioia, introdotti dal coro che ci aiuta nella preghiera, dando a questa celebrazione un tono particolare. Ma ogni domenica è Pasqua, ogni domenica ci invita allo stesso fervore, allo stesso entusiasmo, perché Cristo è risorto. È quello che stiamo cantando e celebrando fra le luci, i profumi e soprattutto con la nostra unità, con il cuore che, se anche conosce le sue difficoltà e le sue tensioni, è disponibile: «Signore, vieni!».
Due precisazioni prima di cominciare la meditazione.
1. La risurrezione non è un simbolo. Gesù è di tutti e per tutti, nel modo in cui ognuno riesce a relazionarsi con lui, però la risurrezione non è una “rappresentazione” per dire un concetto, per veicolare la possibilità di ripresa, di risalita. La risurrezione è un fatto, un avvenimento! Ieri, all’inaugurazione della funivia a San Marino, il Segretario di Stato alle Finanze ha usato la metafora della funivia «che fa la sua risalita» per dire il desiderio di ripresa nella Repubblica. Raffigurazione era la funivia, ma il concetto che il ministro voleva significare era la ripresa economica. Quando noi cristiani parliamo di risurrezione non intendiamo una metafora, ma una cosa reale, che è accaduta e accade.
2. Se la risurrezione riguardasse soltanto Gesù, ci verrebbe da dire, senza peccare di irriverenza: «E per noi che cosa cambia?». Invece non è così: la risurrezione è la potenza di Dio che penetra l’universo e lo trasforma. L’atto della creazione è eterno, è qualcosa di metastorico, più grande della storia, qualcosa che accade e che è continuamente in accadimento. Altrettanto è la risurrezione, la vita che Dio vuole. Nel cosmo è stata inaugurata la vita nuova che passa attraverso Gesù. Lui è il primo di una fila di redenti, capofila in un esodo immenso, come dice l’Apocalisse: «Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare… » (Ap 7,9). Dietro Gesù, in Gesù, con Gesù… ecco perché facciamo festa. La risurrezione è un fatto reale che, attraverso Gesù, vieni a rianimare ciascuno di noi. Ciascuno di noi va a casa dicendo: «Io sono un figlio della risurrezione» (cfr. Lc 20,36). La risurrezione, potenza di Dio, è un avvenimento che sta ribollendo – come il vino dentro al tino. Dovremmo ricordarlo sempre, anche nei momenti di paura, di sofferenza, di sconfitta, persino di peccato. Possiamo sempre dire che «è entrata in circolo la forza nuova della risurrezione».
Con queste due premesse ripercorriamo i primi nove versetti del Vangelo di Giovanni (cap. 20). Quel mattino del primo giorno dopo il sabato (quella che noi chiamiamo la domenica) è tutta una comunità, rappresentata da Maria di Magdala, Pietro e Giovanni, che è coinvolta nella ricerca di Gesù. Tutt’e tre, infatti, sono alla ricerca del Signore. Ma ognuno a suo modo; infatti ognuno ha una reazione diversa di fronte a ciò che accade.
Maria Maddalena sembra che, più che cercare il Signore, cerchi un sepolcro per piangere. Ha un bellissimo ricordo del Maestro, carico di affetto, ma non spera certo di incontrarlo vivo. Ha constato ella stessa che è morto. Quando si avvicina al sepolcro vede la pietra ribaltata, ma resta all’esterno, non indaga ulteriormente; agitata e sconsolata corre a dare agli altri l’annuncio che hanno trafugato il Signore. Maria Maddalena è il discepolo della fede superficiale, per il quale Gesù non è che un bel ricordo, ma che non crede di poterlo incontrare risorto e pertanto – diciamo così – ha un atteggiamento tipico di chi va al cimitero piuttosto che in chiesa. Tutti siamo un po’ come Maria di Magdala. L’evangelista annota: «era ancora buio fuori», ma il buio era soprattutto dentro di lei. Poi arriva Pietro, il secondo personaggio: lui entra nel sepolcro, decisionista com’è di carattere, vede che è vuoto, ispeziona accuratamente i teli funebri e capisce che il Signore non è stato trafugato, perché i lini sono piegati, il lenzuolo è ben sistemato in un angolo, il sudario in un altro, proprio come quando uno va via da casa e lascia tutto in ordine. Rimane perplesso; il suo esame è completo ma senza risultato. Pietro rappresenta il discepolo razionale, che ama approfondire personalmente la fede, ma non comprende che la risurrezione non è la conclusione di un’indagine scientifica e perciò rimane ad arrovellarsi nelle sue ipotesi. Al massimo approda a Gesù maestro di etica. In ognuno di noi c’è anche un po’ di Pietro, come c’è Maria di Magdala.
Giovanni è il discepolo che, pur senza rinnegare le esigenze della ragione, «vide», indaga come Pietro, tuttavia si lascia guidare dall’amore e, per questo, apre gli occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. Dice il Vangelo: «…vide e credette». Perché Giovanni è arrivato per primo? Qualcuno dice perché era giovane, quindi correva più forte. Non è per questo, sarebbe troppo banale. Giovanni è «il discepolo che Gesù amava» (anonimo perché ciascuno possa mettere il proprio nome).
Il messaggio che esce dalla tomba vuota è: «Fa’ come Giovanni». Solo un rapporto d’amore con Gesù fa alzare il sipario e aprire gli occhi sulla realtà misteriosa della risurrezione. «Signore, ti chiediamo un “di più” di fede».
Vedremo durante la settimana tanti racconti di apparizione. Ogni racconto non è altro che la testimonianza di un incontro.
«Signore, togli la pietra che chiude il nostro cuore nella notte. Facci vivere nella luce della tua Risurrezione».

Omelia nella Veglia di Pasqua

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 15 aprile 2017

Mt 28,1-10

La prima cosa che vorremmo annunciare ed insegnare al piccolo Martino, che tra poco riceverà il sacramento del Battesimo, è che Gesù è risorto. Questa notte, proprio per questo, la Chiesa è insaziabile di “Alleluia”. Ripercorriamo gli eventi celebrati nella settimana santa: un re mite che cavalca un puledro d’asina, la domenica delle Palme; uno sposo innamorato che si dichiara, Giovedì santo; un servo sofferente che offre la sua vita per la nostra, Venerdì santo. La notte di Pasqua, madre di tutte le Veglie, quale sorpresa ci riserverà ancora? Gesù è l’amico! Il Vangelo ci ha abituato a sentire sulle labbra di Gesù questa parola, “amico”. Lui amico, i discepoli amici: l’amicizia infatti chiede reciprocità, corrispondenza. L’amicizia fa, di più persone, una cosa sola. Talvolta è più disinteressata dell’amore sponsale. Gli avversari di Gesù – senza saperlo – dicono il vero: «Sei l’amico dei pubblicani e dei peccatori» (cfr. Mt 11,19). E lo è in verità, perché vuole strapparli dal male. L’amico vero strappa dal male. «Signore – dicono a Gesù – il tuo amico Lazzaro è malato» (cfr. Gv 11,1). In nome dell’amicizia gli domandano di guarirlo. «A voi miei amici io dico…» (Lc 12,4; Mt 10,28), così Gesù introduce le confidenze agli apostoli. E nell’ultima sera, durante la cena, confesserà: «Voi siete miei amici, non vi chiamo più servi» (cfr. Gv 15,15). Volendo dare la chiave interpretativa della sua vita dice la parola suprema: «Nessuno ha un amore più grande di questo, dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). E pensate fino a che punto si spinge l’amicizia di Gesù: dopo il bacio di Giuda, il traditore, Gesù dirà – ed è un estremo tentativo di recuperarlo -: «Amico, per questo sei venuto?» (Mt 26,50).
Durante la settimana santa, arrivata ora al suo culmine, abbiamo considerato le dinamiche del rapporto con Gesù alla luce dell’amicizia, nostra e sua. Amicizia vissuta: gli amici infatti si cercano, si incontrano, condividono tempi, spazi, progetti. Dice il Vangelo: «Li chiamò perché stessero con lui» (Mc 3,14), fino a consumare pasti insieme: «Ho desiderato ardentemente cenare con voi» (Lc 22,15). Amicizia dichiarata: all’amicizia non basta la condiscendenza, l’amicizia reclama reciprocità, preferisce la complicità alla compassione. Insomma l’amico si deve dichiarare. Amicizia tradita: il tradimento è sempre gravemente deludente; tuttavia l’amicizia sa metabolizzare l’incidente e trarne motivo per andare più in profondità. L’amicizia stagiona, con la pioggia e col sole, come il buon legno. Infine, amicizia goduta: «Io – assicura Gesù – sarò sempre con voi» (cfr. Mt 28,20). … Come dice la Sapienza nell’Antico Testamento: «Mia delizia è abitare con i figli degli uomini» (Prov 8,31).
In questi giorni – l’incontro serale è stato per noi come un corso di Esercizi Spirituali – ci siamo ripetutamente chiesti: «Chi è Gesù per me? Gli sono amico? Quanto? Fino a stare con lui nel Getsemani? Fino a morirne?». Un vero amico, per quanto timido, non si limita ad ascoltare, prende posizione, si schiera, corre rischi, è fedele. Il Signore ha tra noi chi sta dalla sua parte, capace di risparmiargli almeno una delle spine che gli trafiggono il capo? Domanda decisiva: Gesù può contare su di me?
Come vedete non stiamo parlando di un’idea, ma di una persona viva, di un amico in carne ed ossa, che ha sentimenti, volontà, anche se trasfigurato nella risurrezione e lui, il Risorto, ci viene incontro «come un giorno andò incontro a Pietro» (cfr. Gv 21,15-19). Avrebbe potuto Gesù Risorto condividere le sorprese e le primizie della risurrezione, del mondo nuovo, con le persone potenti del suo tempo, con gli specialisti di cose dell’aldilà, con i santi esperti di virtù, con i sapienti e invece che fa Gesù, l’amico? L’amico non può che andare incontro all’amico per chiedere: «Mi ami tu?». E una seconda volta: «Mi ami tu più di tutti?». E per la terza volta: «Mi ami tu?». Chissà se posso rispondere, anche piangendo, come Pietro: «Signore, tu sai tutto, tu sai che io ti amo» (cfr. Gv 21,18ss).

Omelia del Venerdì Santo

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 14 aprile 2017

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Domenica delle Palme abbiamo cantato l’Osanna al Re, il Signore mite che cavalca un puledro d’asina: Gesù, il Re.
Ieri sera, Giovedì Santo, abbiamo contemplato Gesù lo sposo che si dà col suo corpo alla sposa, la Chiesa, e si nasconde per dare a sé la gioia di essere cercato e alla sua sposa la felicità di trovarlo.
Questa sera, Venerdì Santo, contempliamo il Signore servo sofferente. Di lui cantano quattro brani del profeta Isaia (I carmi del servo: Is 42,1-7; 49,1-6;50,4-11;53,1-12); ne tracciano il profilo. Il servo sofferente appare come un personaggio misterioso. Chi è il servo sofferente? Se lo chiedeva l’etiope, ministro della regina Candace, quando scendeva nella sua patria dopo il viaggio a Gerusalemme (cfr. At 8,27ss). Il diacono Filippo, salito sul suo carro, risolverà l’enigma e porterà la testimonianza di tutta la prima comunità cristiana. Il servo sofferente è Gesù di Nazaret. È lui colui che il Signore Dio ha scelto, chiamandolo per una missione di salvezza. Ma il servo non viene accolto, piuttosto è disprezzato. Come un agnello viene condotto al macello, come una pecora muta davanti ai suoi tosatori. Si è caricato i pesi e i dolori di tutti. Addirittura è considerato maledetto da Dio. In verità per le sue piaghe siamo stati tutti guariti. E non soltanto il popolo d’Israele, ma tutte le genti.
Perché servo? In che senso? È servo perché ha scelto la via della croce fra mille modalità possibili. Il motivo è profondo in relazione a noi e in relazione al Padre. Verso di noi si è fatto servo dimostrando il massimo dell’amore per noi, perché ha voluto che lo sapessimo vicino nelle nostre situazioni di lotta e di sofferenza. Verso il Padre è stato servo obbediente, obbediente nella confidenza, nell’abbandono a lui, nella fiducia, scegliendo, per fare la sua volontà, di percorrere una strada difficile e dolorosa.
E così ha dato il massimo al Padre e a noi.
Ti ringraziamo, Signore, perché con la tua croce hai redento il mondo.

Omelia nella Messa in Coena Domini

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Cattedrale di Pennabilli, 13 aprile 2017

 

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

Benvenuti «al convito nuziale del suo amore». Sono le parole della preghiera con cui abbiamo iniziato la liturgia, a questo «convito nuziale del suo amore» possiamo partecipare in pienezza, cioè non come semplici spettatori, ma “stando al gioco” sino in fondo. Quella notte effettivamente – la notte dell’ultima cena – Gesù, lo sposo, ha iniziato un gioco d’amore: si è nascosto per farsi trovare e per la gioia di sentirsi cercato. Una tattica vincente, perché fa crescere il desiderio e col desiderio l’ardore. Per chi si lascia amare, lui può dare ancora più amore in una performance sempre più esuberante: eccedenza dell’amore sponsale! E dove si nasconde lo sposo? Nel pane spezzato quella sera, prima del suo sacrificio: «Prendete e mangiate, […] prendete e bevete» (cfr. Mt 26,26). Rimane nascosto agli occhi. Sulla croce era nascosta la divinità, qui è nascosta anche l’umanità. E noi, tutti insieme, la Chiesa sposa, crediamo alla sua divinità e alla sua umanità, benché nascoste nel pane e nel vino, pane che viene poi conservato e racchiuso nel tabernacolo, cuore delle nostre chiese. Davanti al fascino dello sposo finalmente riconosciuto, questo mistero d’amore ha l’effetto sulla bocca di renderci muti, l’effetto negli occhi di renderci miopi e l’effetto nell’anima di renderci mistici. Le parole “mistero” e “mistico” derivano dal verbo greco “muo” che significa “star chiuso di bocca e di occhi”, cioè “essere muto” e “essere miope”. E chi ci obbliga a questo? Il mistero, cioè il fascino dell’Eucaristia. Lo sposo cercato, ritrovato, serrato a sé, si dà con il suo corpo e in questo noi riconosciamo la sponsalità di questo amore. «Eccomi – dice Gesù -, prendimi, unisciti a me, mangiami, possiedimi». Da parte sua, lo sposo vuole donarsi, cioè farsi dono – e il dono non è un prestito -, vuole perdersi, cioè consegnarsi per sempre nella fedeltà. Nell’unità c’è la fusione: lui in noi, noi in lui. Questo fa l’Eucaristia.

Tra poco riceveremo il Signore che si dona così e da questa unità nasceranno tanti frutti: fecondità, creatività, voglia di essere come lui. Lo sposo ama in modo incondizionato e dà il meglio di sé all’amato. Chiede fedeltà, una fedeltà da intendere nel modo giusto. Dichiara una gelosia che non è possesso che annulla, che tarpa le ali, che inibisce. È una fedeltà che fa sbocciare l’amato in tutti i suoi colori. È una fiducia che fa crescere, è una gelosia che protegge, perché ti fa sentire quanto vali per lui, quanto importante sei per lui. «Eccomi – dice stasera il Signore -, io sto alla porta e busso, se qualcuno mi apre io verrò da lui, cenerò con lui e lui con me» (cfr. Ap 3,20). E poi aggiunge: «Io sono lo sposo che passerà a servire» (cfr. Mc 13,34; Mt 20,28).
Teresa d’Ávila dice che, nel momento dello sposalizio con il Signore, la creatura arriva a «compiere opere ed opere». Così lo sposo e la sposa gareggiano nel servizio. Gesù lava i piedi; rivivremo questo momento fra alcuni istanti. Anche a noi chiede di fare lo stesso, questa sera nel rito, ma, appena fuori, nel servizio concreto, fatto con i muscoli, con il sacrificio, spesso necessario. Per “mistica” non intendiamo qualcosa di evanescente, ma la dedizione verso chi ci vive accanto, amore con i fatti e non a parole. Lo sposo ritiene fatto a sé quello che facciamo «al più piccolo dei nostri fratelli» (cfr. Mt 25,40). «Ecco la tua sposa, Signore: questa assemblea che è pronta per te». Amen.