Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale a Dogana

Dogana, 16 ottobre 2017

1 Pt 2,4-9
Sal 109 (110)
Gv 15,1-8

Dalla cattedra il sacerdote spiega la Parola di Dio, non parla di sé, dei propri sentimenti; è discepolo come tutti dell’unico Maestro che è Gesù. Ma, in una sera come questa, si può cedere un po’ ai sentimenti, non sono estranei alla fede e all’esperienza ecclesiale: il cuore è il cuore!
Dal momento della partenza da Pennabilli – sede vescovile – fino a destinazione, non ho fatto che pensare alle visite degli apostoli alle prime comunità cristiane a Iconio, a Listra, ad Antiochia, per poi arrivare, al di là del mare, ad Efeso, a Corinto e, infine, a Roma. L’apostolo – uno dei primi compagni di Gesù – racconta, ogni volta come la prima, il suo incontro col Maestro, poi il cammino e le soste con lui. I cuori palpitavano per il desiderio di conoscere Gesù: non solo le parole e i miracoli, ma anche i dettagli – per chi ama, i dettagli non sono mai trascurabili! –, ad esempio com’era la sua veste, com’era l’erba quando furono sfamati i cinquemila, quanti erano i pesci raccolti quella notte in cui gli apostoli avevano osato tornare a pescare sulla parola di Gesù… Anche voi avete questo desiderio di conoscere Gesù, per questo venite in parrocchia. Ma perché conoscere Gesù? Per amarlo, per amarlo sempre di più. In questi giorni vorrei essere d’aiuto perché tutti facciano uno scatto in avanti nell’amicizia con Gesù, lo amino maggiormente e lo seguano. Se lui è il nostro punto di riferimento, se è la nostra pietra basilare, noi con lui formiamo un unico edificio. Da notare che coloro che fanno parte del suo gruppo, della sua comunità, non si sono scelti tra loro. La parrocchia è caratterizzata da un elemento fondamentale: la territorialità. Le persone che fanno parte di quel luogo preciso, come voi che vi radunate in questa bellissima chiesa, formano la comunità dei chiamati, cioè la Chiesa. Una metafora ancora più bella della Chiesa è quella della vite e dei tralci, dove scorre la stessa linfa: la vita di Gesù. La vita che è nelle sue parole e nei suoi insegnamenti, che diventano la nostra norma di vita, e quella che è nell’Eucaristia, il dono del pane spezzato in cui Gesù ha voluto essere presente. Ancora di più quella linfa è la vita stessa di Gesù che viene comunicata. Noi la chiamiamo grazia. La grazia ci fa santi, cioè ci fa come Gesù. È bello raccontarsi questo… Guai a chi dice con rammarico «siamo nel dopo Gesù»; semmai dopo la sua risurrezione, ma Gesù è vivo! Tante volte accadeva che il luogo dove si trovavano gli apostoli diventasse improvvisamente diverso, più luminoso; a volte c’era come un frastuono e lo Spirito di Gesù Risorto scendeva su una varietà di persone: qualcuno era un pescatore, qualcuno lavorava in campagna, qualcuno era soldato… Eppure, ognuno di loro diventava coraggioso. «Plebei illetterati» (At 4,13), sono detti negli Atti degli Apostoli, però capaci di dialogare anche con i sapienti, capaci di testimonianza, di audacia.
Il mio passaggio in mezzo a voi in questi giorni ha lo scopo di incoraggiare ed essere incoraggiato (anche voi aiutate me!).
Stamattina sono stato ad un convegno su Filone d’Alessandria. Questo personaggio, ebreo, cercava di dialogare con la cultura del suo tempo. Qual è la chiave per dialogare? Guardare Gesù crocifisso, perché lui, sospeso fra cielo e terra, perde tutto: perde il posto in sinagoga, perde gli amici – gli sono rimasti solo la madre e l’amico del cuore – e sente anche l’assenza del Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Non è un perdere la propria identità: ciò non sarebbe più dialogo; semmai è quella disposizione d’animo che è libertà e fiduciosa apertura, disponibilità all’essenziale senza compromessi.
Vorrei raccontare ora la storia di tre visite pastorali. La prima è narrata dal Manzoni nei Promessi Sposi. Una perla di quella visita fu l’incontro fra il cardinal Federigo e l’Innominato. Tutto comincia con il progetto malvagio dell’Innominato nei confronti di Lucia Mondella, un progetto che si tramuta in tormento interiore. Una notte di lotta e poi, al mattino, il suono delle campane che inondano la valle. C’è un popolo che si raduna festoso. L’Innominato – qui è certamente la grazia che ha l’iniziativa – scende, col suo tormento, ad incontrare il Cardinale. Ecco il celebre dialogo: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23).
Alla vostra cortesia confido altri due racconti di visite pastorali, infinitamente più “casalinghi”. Il primo. Il vescovo vuole al centro della sua visita l’appuntamento coi giovani. Ma in quella parrocchia, pur popolosa, non vi è alcun gruppo giovanile. Il parroco da tempo ha lasciato perdere queste pecorelle del suo gregge. Si fa coraggio, va al bar centrale, offre da bere ad un gruppo di giovanotti e li prega di fare “presenza”. Si tratta di riempire il teatrino della parrocchia. Uno di loro si intenerisce per il suo vecchio parroco e sfida gli amici: «Andiamo! Con un’oretta ce la caviamo…».
Il vescovo, davanti a quella platea di giovani, si accalora e dà il meglio di sé. Da allora quel giovanotto reimpara il vialetto che porta alla chiesa. È un metalmeccanico con la terza media. Alla fine entra in seminario. Prende la maturità liceale e, dopo il percorso teologico, diviene sacerdote. Ora è parroco-abate di una importante comunità. Il secondo racconto è ancor più ingenuo. Altro il vescovo, altra la parrocchia. Secondo programma il vescovo fa visita ad alcune famiglie. Entrato in una casa, l’occhio episcopale, ad un tratto, si fa severo; alla vista dell’albero di Natale non trattiene la sua disapprovazione (altri tempi!): «Lo detesto». La mamma accompagna il vescovo nel sottoscala, tira una tendina. C’è un altarino con fiori, addobbi e odore acre di candeline appena spente. È uno dei suoi figli che gioca a fare il… prete! Il Vescovo va all’attacco, la mamma resiste. Alla fine quel bambino entra in seminario e diventerà vescovo! Attenzione: non tutte le visite pastorali finiscono così! Ma con le visite pastorali tante grazie arrivano. Non sappiamo che cosa accadrà durante questa settimana; la prendiamo dalle mani del Signore e siamo certi che lui farà meraviglie. Così sia.

Omelia nella celebrazione di chiusura del Centenario di Fatim

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Santuario del Cuore Immacolato in Valdragone, 13 ottobre 2017

Et 8,3-8.15-17
Gv 2,1-12

Immagino di girare in mezzo a voi chiedendo a ciascuno: «Perché sei venuto qui stasera?». Azzardo qualche risposta. Qualcuno risponde «perché oggi è il 13 ottobre», ricordando l’ultima delle apparizioni di Fatima, con la consegna dei messaggi e il grande prodigio del sole. Qualcun altro mi dice di essere venuto per mettersi alla scuola di Maria, perchè vuole imparare da lei come si diventa discepoli. Qualcun altro – forse la maggioranza dei presenti – viene per chiedere delle grazie. Come diceva Dante: «Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre, sua disïanza vuol volar sanz’ ali» (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, Canto XXXIII). C’è anche chi è venuto perché invitato dal Vescovo. Il Vescovo ha convocato tutti; attorno a lui ci sono i sacerdoti, e c’è anche chi è venuto dalle tre del pomeriggio per partecipare ad una “staffetta” ininterrotta di preghiera, mentre molti sacerdoti si dedicavano al sacramento della Confessione.
L’invito del Vescovo e il pregare tutti insieme uniti con lui costituisce un segno, una epifania della Chiesa. Per questo dico «grazie: grazie, per aver accettato l’invito». Penso che anche la Madonna sia contenta e vi ringrazi per aver risposto alla sua chiamata. Permettetemi un’altra domanda: «Perché quando il Vescovo chiama alla formazione, all’impegno sui temi della educazione, della socialità, della presenza della Chiesa nella città non trova altrettanta corrispondenza?». Qualche esempio. Abbiamo avuto la gioia, appena un anno fa, di inaugurare l’Istituto Superiore di Scienze Religiose perché i nostri giovani ci fanno domande impegnative e non possiamo più dire «che si fa così perché si è sempre fatto così»: abbiamo bisogno di acculturarci. Il Vescovo invita ogni anno alle “giornate per la scuola e con la scuola” perché siamo tutti preoccupati per l’educazione. Quest’anno, per la prima volta, abbiamo addirittura fatto capolino nel mondo dello sport. Sono fiero che la nostra Chiesa abbia qualcosa da dire su questi argomenti. Capisco che non si può sempre rispondere agli avvisi che vengono dalla Diocesi… sono tanti e poi ci sono gli impegni di lavoro, di famiglia, ed anche il giusto riposo. Però mi sorge un dubbio: non sarà per caso che per tanti cristiani la fede si limita all’ambito privato e sia vista solo per preparare l’anima al cielo? Preparare l’anima al cielo è sicuramente molto importante, ma non basta. La conversione cristiana esige di considerare tutto ciò che concerne l’ordine sociale e il conseguimento del bene comune. «Nessuno può esigere che noi cristiani releghiamo la religione al segreto intimo della nostra persona, senz’alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per la salute delle istituzioni, senza esprimerci sugli avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio oppure far tacere il messaggio di San Francesco d’Assisi e di Teresa di Calcutta?» (EG 183).
Il nostro programma pastorale rilancia lo studio del Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa che è una parte integrante delle nostre catechesi, della nostra formazione personale (cfr. Tra la gente con la gioia del Vangelo, Programma e calendario pastorale 2017/18, pag.50). Sogno una Diocesi trapuntata di scuole base di formazione: dal Vangelo alla vita! Questo richiamo non vi appaia incongruente con quello che celebriamo stasera. Maria, a Fatima, si intrattiene con tre bambini e parla loro della Russia. Loro non sanno neppure che esiste la Russia, ma la Madonna mette loro in cuore il mondo, la società. Ricordiamo il canto di Maria, il Magnificat. Ad un certo punto Maria canta colui che disperde i potenti ed esalta gli umili, che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote (cfr. Lc 1,52-53). La liturgia della Parola stasera ci ha condotto ad ascoltare la preghiera di Ester, figura di Maria che prega per il popolo. La vicenda di Ester è ambientata nei sontuosi palazzi del Re di Persia. Un libro, quello di Ester, scritto per tempi difficili come i nostri. Ricordo brevemente la vicenda di Ester. La splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al Re che vuol mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. A corte i saggi dicono che il rifiuto di Vasti è molto grave. Conformemente alle leggi del tempo il Re decide che la regina deve essere deposta e che un’altra fanciulla dovrà essere eletta alla dignità regale. Viene bandito un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta orfana e sola. Il Re, quando la vede, rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole al suo fianco: lei, che è piccola e umile, viene elevata a regina. Intanto, a corte, un potente ministro sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei, il popolo a cui Ester appartiene. Lo zio di Ester riconosce come provvidenziale l’elezione della nipote e le dice: «Il Signore vuol servirsi di te per salvare il suo popolo». C’è veramente una grande somiglianza col destino di Maria che il Signore sceglie per salvare l’umanità. La liturgia di oggi ci fa vedere la provvidenziale intercessione di Ester presso il Re come quella di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina presso di lui, accanto a noi. Non fu così anche alle nozze di Cana, come narrato nella lettura evangelica che ci è stata impartita questa sera? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù. Conosciamo bene le battute del dialogo tra Maria e Gesù: «Non hanno più vino». Maria sa che nella vita di ognuno il bene può venir meno, come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio; la diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante delle esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna e sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al buon vino. Gesù, infine, interverrà: sarà il suo primo miracolo. «Non hanno più vino». E Maria ingiunge ai servi: «Fate quello che lui vi dirà». Con questa parola di Maria concludo domandando a me e a voi: «Che cosa vuole il Signore in questo preciso momento?». Anche San Marino, che fino a pochi anni fa costituiva una sorte di oasi felice, si è trovata a fare i conti con fenomeni prima sconosciuti come la disoccupazione e la crisi del sistema bancario e finanziario che rischia di travolgere il paese. Imprese, famiglie, singoli sono in forte sofferenza, anche in questi giorni, per questa situazione. Alle istituzioni, agli imprenditori, ai vertici del sistema bancario è chiesta una dimostrazione di grande responsabilità sociale, nella consapevolezza che quando si fanno scelte in ambito economico e finanziario si vanno a toccare, talvolta persino in modo drammatico come in questi giorni, la vita e il futuro delle persone e delle famiglie, che noi stasera vogliamo ricordare nella preghiera e a cui vogliamo esprimere la nostra vicinanza. La fedeltà al Vangelo ci impegna tutti, ognuno secondo il suo ruolo, ad anteporre agli interessi particolari il bene comune, avendo il coraggio di osare strade nuove di collaborazione, anche al di là degli schieramenti: lavoriamo tutti per il bene di tutti. La Repubblica sammarinese è un bene di tutti. Ci vuole anche il coraggio della riconciliazione tra componenti diverse della politica e del lavoro insieme nel solco dei valori trasmessici dal Santo Marino e dalla migliore tradizione della nostra Repubblica. «Non hanno più vino». «Fate quello che lui vi dirà». Stiamo a vedere!

Discorso nel conferimento della cura pastorale della parrocchia di San Leo a don Carlo Adesso

San Leo, 8 ottobre 2017

Per l’inizio del suo ministero pastorale tra voi il vostro parroco don Carlo ha ricevuto dal Vescovo, con un gesto simbolico, due chiavi. La chiave del tabernacolo nel quale si custodisce l’Eucaristia e la chiave della Pieve, la vostra parrocchia, che vi raccoglie in comunione attorno all’Eucaristia. L’una è la chiave della dimora del corpo sacramentale di Gesù, l’altra la chiave dell’assemblea del corpo mistico di Gesù, in altre parole la chiave del cuore, delle persone che accolgono l’Eucaristia per viverla. Un rito, quello che abbiamo compiuto, simbolico, ma anche chiaro e tanto eloquente.
Queste chiavi sono affidate a te, don Carlo. Permettimi di citare un breve testo dalla Lettera agli Ebrei: «Ogni sommo sacerdote viene costituito – scrive l’autore – per offrire doni e sacrifici per i peccati» (Ebr 5,1).
Ecco il vostro parroco partecipe del sacerdozio di Cristo: viene in mezzo a voi per attendere alle cose che riguardano Dio e per offrire doni e sacrifici per i peccati. Viene per le cose che riguardano Dio: Dio non è superato, non è morto; forse è emarginato dal cuore di tanti, dimenticato, forse è perfino allontanato, può darsi anche da noi. Ma è presente, presentissimo anche se nascosto, ed è operante. Sentirete durante la liturgia della Parola come è grande la tenerezza del “padrone della vigna” che non lascia nulla di intentato e, al culmine della storia della salvezza, quando sembra ormai che l’umanità sia una “boccia persa”, manda il proprio Figlio (cfr. Mt 21,33-46). Se esige qualcosa, esige che si creda al suo amore, perché vuole la reciprocità: se lo ami ti amerà di più! Dio talvolta appare distante, ma in realtà è inquietante, tormentante. Inquietudine e tormento sono il suo modo di farsi presente, sono il modo della sua offerta, del suo richiamo, del suo bussare alla porta del cuore. «Sto alla porta e busso» (Ap 3,20). Ricordiamo nel romanzo dei Promessi Sposi la conversione dell’Innominato, il suo incontro con il cardinale Federigo a cui dice: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete» (cfr. A. Manzoni, I promessi sposi, cap. 23). In questi giorni su “Avvenire” è stato pubblicato uno scritto molto interessante del filosofo rumeno nichilista, anche se di ambientazione parigina, Emil Cioran, il quale dice: «Sono certo d’aver cercato Dio, ma sono ancor più certo d’aver fatto di tutto per non incontrarlo. L’origine di tutte le mie grida e del sarcasmo con cui l’ho glorificato sta in una opprimente solitudine al cui termine egli appare. Io come Pascal cerco ragioni per non credere» (cfr. Avvenire, 27 settembre 2017). Ebbene, il sacerdote ha la missione di far pensare a Dio, di farlo avvertire, di farlo ascoltare, di farlo incontrare. Notate: sentire, avvertire, ascoltare, incontrare. Il sacerdote ha la missione, poi, di offrire doni e sacrifici per i peccati, ossia, di innalzare preghiere, intercedere, celebrare il sacrificio eucaristico per la remissione dei peccati. Il sacerdote è, anzitutto, l’uomo dell’Eucaristia.
La chiave è consegnata al vostro parroco affinché lui per primo preghi silenziosamente, da solo, il Signore eucaristico e poi apra la porta e sia largo nel consegnare a tutti voi il Pane della vita. La Lettera agli Ebrei continua: «In tal modo egli [il sommo sacerdote] è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore, perché anch’egli rivestito di debolezza» (Ebr 5,2).
Ecco il vostro parroco, viene in mezzo a voi capace di giusta comprensione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore. Notate la delicatezza di questo testo. Non accenna ai peccatori e ai loro peccati o, se in qualche modo vi allude, salva i peccatori col vedere nei peccati degli uomini degli sbagli dovuti ad ignoranza. Se sapessero, se sapessimo… Vale a dire che il vostro parroco, per la comunione e la conversazione che ha con Gesù Eucaristia, viene a voi come a fratelli, pieno di bontà, di indulgenza, pronto a donare pace a quanti si sentono angustiati e fragili, pronto alla riconciliazione. Del resto, ognuno di noi ripete l’esperienza del figliuol prodigo, si allontana dai suoi, da quelli di casa sua (dal padre e dai fratelli), ma porta con sé la nostalgia della casa paterna e vuol tornarci, anche se a volte non lo dice. Il parroco viene a voi per favorire questo ritorno ed esercita tra voi il sacramento della Riconciliazione, del perdono, dell’abbraccio rasserenante di ognuno con il Signore. Ho confidato a don Carlo come l’essere posto nel confessionale durante il rito del mio ingresso in parrocchia fu un momento sconvolgente. Avevo finito di leggere qualche settimana prima il romanzo di Bernanos “Sotto il sole di Satana” – chi l’ha letto può capirmi. Il sacerdote protagonista del romanzo morì in confessionale sotto il peso delle confidenze che riceveva dai parrocchiani, distrutto dalla incapacità di capire come l’Amore non fosse amato. Auguro al nostro don Carlo di stare molto in confessionale – anche se non sarà quello di questa chiesa perché talvolta è più facile il colloquio spirituale in un’altra postura – e che sia un prete che dona gioia e che rincuora: uomo di rapporti profondi.
Aggiungo per don Carlo alcune parole pronunciate da papa Francesco che parlando, ieri, di noi sacerdoti, diceva: «La formazione sacerdotale non è mai finita. La formazione sacerdotale dipende in primo luogo dall’azione di Dio e richiede il coraggio di lasciarsi plasmare dal Signore». Il Papa era ricorso all’immagine biblica dell’argilla nelle mani del vasaio: «La domanda che deve scavarci dentro, quando scendiamo nella bottega del vasaio, è questa: che prete desidero essere? Un prete “da salotto”, uno tranquillo e sistemato, oppure un discepolo missionario a cui arde il cuore per il maestro e per il popolo di Dio? Uno che si adagia nel proprio benessere o un discepolo in cammino? Un tiepido che preferisce il quieto vivere o un profeta che risveglia nel cuore dell’uomo il desiderio di Dio?» (cfr. Papa Francesco Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio Fundamentalis”, 7 ottobre 2017). Penso che don Carlo abbia fatto la sua scelta.
E a voi leontini che cosa dico (ma estendo l’interrogativo anche ai tanti non leontini presenti)? Vogliate bene al vostro parroco. Io ho avuto la fortuna di essere stato molto amato dai parrocchiani e di essere stato generato da quell’amore. Vogliate bene ai vostri parroci, vogliate bene e collaborate con loro. E pregate perché il Signore susciti in tanti giovani il privilegio della vocazione. Così sia.

Messaggio del Vescovo agli studenti

Cari amici,
vi scrivo insieme alle comunità che si riconoscono nel messaggio di Gesù e si radunano nelle bellissime chiese di San Marino e del Montefeltro, comunità di cui molti di voi fanno parte e che vogliono essere sempre più aperte e accoglienti verso tutti.
Scrivo a voi, ragazzi e giovani, ai vostri genitori e insegnanti e a tutti coloro che sono al servizio della scuola per augurare un anno scolastico ricco di frutti.
I frutti maturano poco a poco. Resta deluso chi pretende il tutto subito. Si sbaglia chi aspetta pensando che l’albero faccia tutto da sé. Ci vuole terra buona, luce, calore, acqua e la cura del giardiniere.
Penso si possa dire che la scuola è un insieme di “ore di bellezza”: bello scoprire i segreti della natura, una meraviglia tracciare con la penna i segni che trasmettono parole e pensieri. Bello gustare le pagine di poesia e di racconti, scoprire il perché delle cose, e contemplare opere d’arte e musiche che raccontano sentimenti senza sprecare parole. Ore di bellezza: perché è bello stare insieme. C’è chi è più grande e sa prendere per mano i più piccoli per introdurli nella realtà. C’è chi, come un artista, sa cavar fuori da ognuno il meglio che c’è. E gli uni e gli altri crescono insieme, nello stupore dei rapporti che restano belli nella memoria e nei cuori col passare del tempo. Ne sanno qualcosa quelli che, come me, hanno lasciato la scuola da un pezzo, ma che amano fermarsi a guardare le foto di gruppo e a ricordare nomi e soprannomi, avventure e marachelle d’un tempo. Belli i volti, quando c’è purezza nel cuore, perché – come ognuno sa – la bellezza viene da dentro. Belli i volti anche se punteggiati di brufoli, o cicciottelli, o con le orecchie a sventola che fanno simpatia… Bella l’imperfezione perché fa ognuno diverso dall’altro e mette tutti in cammino verso il meglio. Ma la bellezza più bella è aprirsi sempre più alla verità, alla bontà e all’unità: c’è uno spettacolo più grande del mare, il cielo; c’è uno spettacolo più grande del cielo, l’interno dell’anima; c’è uno spettacolo più grande dell’anima, è Colui che tutte le genti chiamano Dio Amore che move il sole e l’altre stelle!

Omelia nella cerimonia di investitura dei Capitani Reggenti

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino, 1 ottobre 2017

XXVI domenica del Tempo Ordinario

(da registrazione)

Ez 18,25-28
Sal 24
Fil 2,1-11
Mt 21,28-32

Eccellentissimi Capitani Reggenti,
grazie per il servizio di questo semestre.
Auguri ai nuovi Capitani Reggenti. Confidenzialmente verrebbe da chiedervi chissà cosa raccontate di questa esperienza dal punto di vista umano alle persone a voi amiche. Non si esce da questo incarico uguali a come si era entrati. I rapporti con le persone, le esigenze dei più poveri e di chi bussa per cercar lavoro, i contatti internazionali; tutte esperienze che lasciano sicuramente un segno nel cuore.
Voglio anche salutare mons. Giorgio Chezza, incaricato d’Affari della Santa Sede; gli chiedo di portare il nostro saluto a mons. Bernardini, che cede l’incarico ad un nuovo nunzio che verrà nominato.
Infine un saluto ai Segretari di Stato, agli Ambasciatori e a tutti i fratelli e le sorelle che questa domenica gremiscono la Basilica.
Ci troviamo di fronte ad un Vangelo stupendo. Una vigna, due figli e un padre. La vigna non è soltanto fatica e sudore. La vigna è gioia, futuro, promessa di vita, grappoli pieni di sole… Perché allora sottrarsi all’invito di lavorare nella vigna, perché guardare soltanto all’attenzione e alla perseveranza che richiede, alle levatacce che occorrono per averne cura? Ognuno ha la sua vigna. Non parlo solo delle vigne che fanno il buon vino sammarinese, ma parlo della vigna della nostra famiglia, della vigna dello Stato, della vigna della pubblica amministrazione. Ad ognuno la propria responsabilità, la risposta; del resto vivere è rispondere. Rispondere alla chiamata: «Va’ a lavorare nella vigna». I due figli si sbagliano si di fronte alla vigna, perché la vedono solo come un impegno e una fatica; sono poco lungimiranti, anche poco generosi, ma si sbagliano soprattutto sul padre. Lo vedono come un padrone che dà ordini. Il primo dei due figli si ribella, è capriccioso, impulsivo, si contrappone al padre: «Non ne ho voglia, non ci vado»: si smarca. L’altro figlio si potrebbe dire che è servile, dice di sì, è ossequioso nei confronti del padre, forse si rassegna, constata che non si può far diversamente, ma appena vede una possibilità, anziché andare nella vigna, se la “svigna”. Forse il padre era lontano, forse qualcuno ha preso il suo posto, fatto sta che si imbosca.
Facciamo ora il passaggio dalla parabola alla vita quotidiana. Uomini di chiesa – parto da chi sta sul presbiterio – uomini della cultura, uomini della politica, tutti: quante volte ci sbagliamo su Dio perché lo vediamo come un padre padrone e, per difenderci, ci sottraiamo, ci viene da scappare, oppure rasentiamo l’ipocrisia, la doppiezza. Andiamo ma per servilismo. In realtà i due figli sussistono in ciascuno di noi. In ciascuno di noi c’è un po’ del figlio che si sottrae, si ribella, dice “no” e c’è il figlio che dice “sì” e poi non fa. Questa giornata è il momento per ridire il nostro “sì”, non per servilismo, ma perché vogliamo far nostro il progetto della vigna. La vigna è il bene comune, la nostra vocazione, il nostro servizio. Dio non è un padre padrone, ma un amico che ci chiama a collaborare con lui, trasmettendoci la sua passione per la vita. In conclusione, un “sì” che sia “sì”, che ci fa passare dalle parole ai fatti. Non vale dire «Signore, Signore» (cfr. Mt 7,21). Il Vangelo ci ricorda che non l’appartenenza etnico-religiosa mi aggrega al popolo di Gesù, ma la decisione fattiva, operosa, di essere dei suoi. Questo brano di Vangelo costituisce in un certo senso una sberla. Ben venga questa sberla se ci aiuta ad uscire dal perbenismo spirituale. Gesù tenta anche questa via con noi, abilmente ci provoca con l’idea del sorpasso. Ci sono persone che noi riteniamo fuori strada, “bocce perse”, che invece ci passano davanti. Gesù allude al rifiuto di chi dovrebbe accoglierlo. Noi, oggi, vogliamo dire a lui – e dire anche di fronte alla nostra coscienza – il nostro «sì, ci vado nella vigna, per amore».

Omelia XXIV domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
Pennabilli, 16 settembre 2017

Candidatura al diaconato di Vittorio

(da registrazione)

Sir 27,33-28,9
Sal 102
Rm 14,7-9
Mt 18,21-35

Una regola generale e assoluta deve normare i rapporti all’interno della comunità: la misericordia e il perdono, avendo come prototipo quello di Dio verso di noi.
La bellissima ed efficace parabola è preceduta da uno scambio di battute tra Gesù e Pietro. Pietro conosceva bene le esortazioni rabbiniche sul perdono. Esse procedono dalla grande lezione dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Putroppo, al tempo di Gesù, erano racchiuse in uno schema legalistico che si perde a discutere sul cerimoniale… di pace e sul numero massimo dei perdoni legittimi. I rabbini di solito erano d’accordo che il numero di perdoni fosse quattro! Pietro, avanzando fino a sette, pensa di aver fatto il massimo per avvicinarsi al Maestro. Gesù gli risponde in modo sorprendente. Allacciandosi a Gn 4,24: «Lamec sarà vendicato settanta volte sette», Gesù ribalta la cifra della vendetta nella cifra del perdono. «Settanta volte sette» è un ebraismo che significa “sempre”. Non ci sono limiti fra fratelli. Poi segue la parabola. Punto di partenza la misericordia di Dio che è pensato come un signore orientale, supremo giudice sui suoi sudditi (ius capitis). Il debito del suo servo non è realistico: 100.000 monete d’oro (10 milioni di euro!), cifra a quei tempi neppur pensabile. L’esagerazione sottolinea che si tratta di qualcosa di umanamente imperdonabile.
Il servo lo supplica: pagherò un po’ alla volta (promessa risibile). Eppure al re questo atto sincero di disponibilità è sufficiente e, con una mossa a sorpresa, accorda al suo servo infinitamente di più di quanto gli avesse chiesto: gli cancella totalmente il debito.
Il nostro peccato è qualcosa di grande, ma la misericordia è infinitamente superiore. Va al di là di ogni ragionevolezza. Non è misurabile con il metro umano, la si può solo accogliere con fede e gratitudine. Questa prima scena fa da prologo alla seconda che è il centro dottrinale della parabola. Il servo graziato esce e incontra un collega che gli deve 100 denari (15 euro). Non ha pietà. Applica la sanzione giuridica. La terza scena non intende opporre due volti di Dio, ma è funzionale alla seconda scena. È un espediente di Matteo per dare vigore e urgenza all’ammonizione centrale: il perdono assolutamente necessario. Questo è il cemento della comunità (luogo della festa e del perdono) che oggettivizza nella Chiesa quanto Dio ha storicamente compiuto in Cristo. La parabola drammatizza la richiesta del Padre: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12). «Padre perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34).

Stefano e Filippo, diaconi di Gesù, sono diaconi nel suo Vangelo, diaconi generosi con i loro fratelli, per cui hanno spezzato il pane del Vangelo. Sono passati 2000 anni dalla stesura dei quattro vangeli, ma si può dire che non hanno perso la loro carica, la loro novità. I quattro vangeli assomigliano ad una biografia, ma sono ben di più. Non dobbiamo immaginare gli evangelisti a tavolino che scrivono di getto, penna e calamaio alla mano; la loro opera nasce dalle testimonianze e dai ricordi custoditi con cura dalla cerchia degli amici di Gesù. L’origine del loro scritto ha qualcosa di straordinario. Gesù stesso offre la chiave per interpretare i fatti della sua vita, compresa la sua morte di croce, le parabole, le parole che racchiudono una suggestione profonda. Non è solo una nuova dottrina che affiora, ma la comunicazione di un vigore che mette in moto perdono, libera risorse, apre alla speranza, la stessa sperimentata nei numerosi miracoli compiuti da Gesù. I miracoli si ripetono in forza della fede in Gesù: nemici che si ricongiungono, ricchi che sono disponibili alla condivisione, condannati dalla vita che si rialzano. Più che di miracoli si dovrebbe parlare di miracolo: il miracolo di Gesù. C’era in Gesù qualcosa di così straordinario, impossibile da spiegare con le sole risorse dello storico, che faceva trasalire. Basti pensare al racconto della sua vicenda di morte e risurrezione, del suo rapporto col Padre, della sua tenerezza verso chi aveva sbagliato. Anche oggi i fatti parlano chiaro. In virtù di quell’annuncio c’è chi cambia vita, c’è chi la vita la gioca pericolosamente per lui, chi trova una libertà e una gioia mai sperimentate prima e questo è un fatto: accade. I quattro vangeli sono opera degli evangelisti, ma in fondo sbocciano su questa esperienza originaria, condivisa da tanti, da una comunità.
Diacono, cioè servo del Vangelo. È difficile esserlo? Non è stato facile neppure per i primi discepoli; l’impresa di annunciare il Vangelo era smisurata. Gesù aveva detto: «Andate in tutto il mondo, annunciate il Vangelo ad ogni creatura» (Mc 16,15). L’opera era iniziata, ma l’entusiasmo quasi subito veniva messo alla prova da una terribile persecuzione. I primi messaggeri e testimoni hanno incontrato pericoli e sopraffazioni, hanno affrontato viaggi e fatiche, hanno subito le critiche e le ironie dei sapienti, si sono scontrati con l’incomprensione dei familiari. Era difficile per la novità del messaggio, era difficile per le condizioni di vita e per le vie di comunicazione di allora, ma c’era la certezza – e c’è anche adesso – che il Signore accompagna il messaggero, anzi talvolta il messaggero si sorprende di essere preceduto da lui che apre strade e cuori. E i luoghi del primo annuncio, allora – ma si può dire che possa essere così anche oggi – erano i più disparati. Non solo luoghi pubblici: a Gerusalemme il tempio, ad Atene l’aeropago. Ma anche luoghi feriali: il mercato, le case, le carceri, le locande. Sorprendono soprattutto i contatti tra le famiglie; si discorreva di Gesù nella casa di Priscilla e Aquila, in quella di Cloe, ecc. A ben guardare la fede cristiana non è altro che un racconto, un racconto di Cielo, di un Dio che si fa uomo per amarci, per prendersi cura di noi, per chinarsi come fanno un papà ed una mamma sul proprio piccino. Questo racconto, fatto nuovamente, col cuore, come testimonianza di un incontro reale, vero, autentico, contiene una grazia particolare, quasi un sacramento. I primi cristiani chiamavano questo racconto kerygma. Questo racconto espone chi lo fa ed espone gli ascoltatori alla nuda e disarmante essenzialità della fede cristiana. Poi viene tutto il resto. Se tu per primo – anche noi – ci lasciamo guidare da questo paradosso pian piano si constata che i conti tornano, la vita cambia. Quello che è un racconto – stiamo parlando del kerygma – diviene un racconto sovversivo, perché sovverte la nostra idea di Dio, sovverte la nostra pratica stanca e abitudinaria della fede, sovverte il nostro modo di pensare e di stare in questo mondo.
Caro Vittorio, preparati a questa altissima missione. Dovrai parlare della misericordia del Signore, dovrai dire ad ogni persona, prima con la tua vita e poi con le parole, come diceva San Francesco, che Dio la ama immensamente.

Omelia per la festa di San Marino

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Marino città, 3 settembre 2017

(da registrazione)

Eccellenze carissime, signori Segretari, fratelli e sorelle,
auguri per questa nostra festa, auguri a tutti;
mi dovete permettere di rivolgere un saluto specialissimo ai nostri giovani.
Quest’anno, cari ragazzi, ci sentirete molto parlare di voi, ci stiamo preparando al Sinodo dei Vescovi dedicato proprio al tema: “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”. San Marino è lontano da noi nel tempo, ma è così vicino e caro a tutti noi che quasi ci succede di identificarci con lui; per esempio, quando ci chiedono “di dove sei?” e rispondiamo “sono di San Marino”, indichiamo il luogo dove abitiamo, ma anche un’appartenenza: “Io sono di San Marino, ho un legame con questa persona così cara”. Non sono uno storico, non so tracciare ciò che manca ai documenti per ricostruire la figura di san Marino, quindi non mi permetterei mai di fare un “restauro interpretativo”, ma prendo quello che di lui ci dice la liturgia di oggi. E in particolare sottolineo un aspetto: Marino era un cercatore della verità, non uno che la sbandiera come sua proprietà, ma uno che è in continua ricerca. Nella prima lettura si parla di un “cercatore della sapienza”. C’è tutto un fiorire incalzante, suggestivo, di verbi. Quel cercatore rincorre la sapienza perché vuole capirne i segreti, addirittura si apposta quasi come uno che vuol fare un agguato, tende il suo orecchio, la spia, si ferma nei pressi della sua dimora, pone la sua tenda accanto, fissa un chiodo alle sue pareti per dire che di lì non se ne vuole andare; gli è troppo cara la sapienza. E poi mette se stesso e i propri figli sotto la sua protezione e lui stesso si difende alla sua ombra, ma alla fine è lei, la sapienza, che gli va incontro come fa una madre premurosa, o una sposa innamorata. Infine, continua il libro del Siracide, la sapienza lo nutre, lo disseta, lo sostiene, non lo delude: la sapienza non delude mai. E il cercatore a lei si abbandona fiducioso. Ecco il ritratto che la liturgia ci offre; per lo meno uno dei profili della figura di Marino, cercatore della sapienza. Chi è cattolico si riconosce in pieno in questa sua eredità e la trova ancora fresca, ma sa che potrà esser sua solo se la riconquista: occorre riguadagnare per ripossedere. C’è la gratitudine ma anche la responsabilità. Chi è laico gode di questa eredità perché in essa è contenuta una perla preziosa (e gli conviene).
Oggi in un’unica solennità celebriamo la fondazione della nostra comunità civile e il santo suo fondatore. Nella stessa comunità la dimensione religiosa e quella civile si sono intrecciate, unite ma non confuse, inseparabili ma senza prevaricazioni. San Marino – l’abbiamo detto più volte – non intese fondare una comunità religiosa come un monastero a cielo aperto, un sistema integralistico, ma una società fraterna. Avrà avuto certamente di fronte al suo sguardo la comunità cristiana dei primi tempi, una comunità che a volte ci succede di chiamare “ideale”, ma il termine è improprio perché quella comunità è programmatica per noi. «Erano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). In questo sistema di sapienza «si dà a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21). Da sempre la nostra tradizione ha promosso, più o meno consapevolmente, più o meno felicemente, il valore della laicità, facendo vivere insieme persone di diverse sensibilità e orientamenti. Questa apertura trova uno dei suoi punti di forza in una visione integrale della persona, propria dell’antropologia cristiana. Chi non è credente non tema le radici cristiane della nostra comunità, perché proprio su queste radici cristiane si fonda il rispetto e la libertà di ognuno. La nostra libertà è reale, non per concessione di qualcuno, ma perché fondata sulla dignità della persona. Chi è credente sa che può contare sul rispetto e sulla considerazione di chi afferma il valore dell’umanesimo.
È anche tempo, oggi, di considerare brevemente le virtù civili. Virtù è parola piuttosto desueta oggi, eppure è parola suggestiva. Virtù è una forza interiore permanente fino a diventare un abito, un abito operativo, cioè un’abitudine nel senso positivo del termine, un atteggiamento permanente. Accennerei appena a due virtù civili che in questo momento ci sono necessarie. La prima virtù: la disponibilità alla collaborazione (vorrei dire alla cooperazione), cioè l’attitudine a tener fisso lo sguardo sul bene comune, al mettersi insieme, astenendosi dai particolarismi per ottenere il meglio a vantaggio di tutti. Ci sono diversità di posizioni, ma talvolta bisogna anche saper andare oltre in vista del bene comune. Questo vale per le istituzioni, ma vale anche per la comunità cristiana e per le famiglie. Da notare che il Vangelo dice: «Voi siete luce». Non dice io, tu, ma voi, cioè io e te insieme. Quando un io e un tu si incontrano generando un noi, in quel noi, sia il noi della famiglia dove ci si vuol bene, sia il noi di una comunità dove si accoglie o il noi di una società solidale, è conservato il senso e il sale del vivere. C’è anche un’altra virtù civile di cui vorrei sottolineare l’importanza: l’onestà. Noi diamo molto valore all’educazione della famiglia. La famiglia onesta – si dice – non è più importante di una famiglia abbiente o ricca. Diamo valore alle istituzioni educative, all’impegno di associazioni, gruppi, movimenti, ma è fondamentale la formazione della personale coscienza. Al di là del ruvido dell’argilla di cui siamo fatti, nella cella segreta del cuore là troviamo sempre una luce accesa, una manciata di sale. Permettetemi di leggere una pagina di un sapiente caro all’umanesimo e caro alla tradizione ascetica spirituale cristiana, Seneca, che così scrive in una sua opera: «Quanto tranquillo, quanto profondo e libero, dopo che l’animo o è stato lodato o ammonito e, da osservatore e censore privato di se stesso, ha concluso l’inchiesta sui suoi costumi. Io mi avvalgo di questa possibilità e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole ed azioni, senza nascondermi nulla, senza passar sopra a nulla. Perché dovrei temere uno qualunque dei miei errori, se posso dire: “Questo, vedi di non farlo più; per questa volta, ti perdono. In quella discussione sei stato troppo polemico; impara a non contendere più con gli incompetenti, che non vogliono imparare, perché non hanno mai imparato. Hai rimproverato quello là con eccessiva franchezza, quindi non lo hai corretto, ma offeso; d’ora in poi, non guardare soltanto se è vero quello che dici, ma anche se la persona alla quale parli è in grado di accettare la verità”. L’uomo buono gradisce un ammonimento, ma tutti i cattivi sono estremamente restii ai pedagoghi» (De ira, Libro III, 36, [2,3,4]).
Oggi siamo tutti in festa. Scambiamoci un regalo, il regalo della reciproca stima, accompagnata dalla messa a disposizione del meglio di noi stessi.
Per quanto mi riguarda inizierò la visita pastorale nella Repubblica di San Marino il prossimo 16 ottobre. La visita pastorale di un vescovo è un incontro, non è un controllo delle comunità cristiane. È un incoraggiamento, è un ravvivare rapporti di luce. La processione che speriamo di poter fare al termine della Messa è per noi credenti il segno che «Dio visita il suo popolo» e, attraverso Marino, benedice tutti.

Omelia XIX domenica del Tempo Ordinario

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi

Maciano, 12 agosto 2017

Mt 14,22-33

(da registrazione)

Gesù ha appena compiuto la moltiplicazione dei pani: ha sfamato cinquemila persone, senza contare le donne e i bambini. Un miracolo utilissimo, che meriterebbe la laurea ad honoris causa in economia. A quel punto Gesù costringe i suoi discepoli, i più vicini a lui, ad andare via. Perché? Gesù ha paura che si vantino di quel miracolo compiuto dal loro maestro, che vengano catturati in un entusiasmo inopportuno, deviante e non si ricordino, come aveva loro predetto, che era incamminato verso Gerusalemme. Gesù rimane a congedare la folla. Qualche interprete ritiene che Gesù abbia desiderato continuare da solo l’abbraccio con la folla che aveva sfamato. Qualcun altro pensa che Gesù abbia cercato di zittire entusiasmi troppo precoci, tant’è che, appena può, fa perdere le sue tracce salendo sul monte, da solo: dall’abbraccio della folla all’abbraccio del Padre, nella preghiera, nell’intimità con Lui. Che cosa si saranno detti? Ognuno provi ad immaginare, mettendosi nei panni di Gesù. Gli avrà parlato sicuramente della compassione verso le moltitudini, perché Gesù è umano. Poi avrà parlato della sua salita a Gerusalemme. Avrà detto: «Padre, allontana da me il calice… ». Avrà detto: «Padre custodisci il gruppo di coloro che sono disposti a credere in me, accompagnali, aiutali».
Poi la scena si sposta sulle rive del lago. Il mare è in burrasca, gli apostoli sono sulla barca, vedono in lontananza Gesù che cammina sulle acque, ma non lo riconoscono e, pieni di paura, pensano che sia un fantasma. Gesù stavolta fa un miracolo “inutile” a confronto del miracolo utilissimo della moltiplicazione dei pani: dar da mangiare a cinquemila persone. Compiuto nell’oscurità, in uno scenario irraggiungibile – in mezzo ad un lago – tutto il miracolo avviene per una questione di cuore. Pietro, quando vede una figura in lontananza, mentre tutti pensano che sia uno spirito, intuisce che è Gesù e gli dice: «Iube me venire ad te (Signore comanda che io venga a te)». In questo Pietro fa una preghiera fiduciosissima, ma anche un po’ pretenziosa nel chiedere al Signore il miracolo di poter camminare sull’acqua. Gesù glielo concede invitandolo a camminare verso di lui. Anche noi possiamo rivolgere a Gesù una preghiera come quella Pietro, quando ci troviamo davanti a decisioni da prendere, a difficoltà che pensiamo di non riuscire ad affrontare. Possiamo chiedere, come Pietro, che il pavimento di acqua che vediamo davanti a noi, diventi un pavimento di cristallo su cui possiamo camminare.
Tuttavia, quando si cammina sull’acqua, si affonda ed irrompe una seconda preghiera, molto bella anche se pare interessata, perché scaturisce dal cuore: «Signore, salvami!». Un grido del cuore. E Gesù soccorre Pietro – e con lui ognuno di noi – gli offre la mano e lo fa salire sulla barca, al sicuro. Lì si compie la grande preghiera, la grande dossologia, cioè la preghiera davanti a Gesù Signore. I passeggeri di quel naviglio si inginocchiano e adorano Gesù: sono la Chiesa del Risorto. Siamo noi e questa sera insieme lo adoriamo.

Omelia della XVIII domenica del Tempo Ordinario – San Donato

Omelia di S.E. Mons. Andrea Turazzi
San Donato di Sant’Agata Feltria, 6 agosto 2017

Mt 17,1-9

(da registrazione)

Anche noi oggi come Pietro diciamo: «Com’è bello Signore essere qui!». È bello questo momento di raccoglimento, di famiglia spirituale, nonostante il disagio del caldo e il peso della giornata, ma è bella soprattutto la possibilità del nostro rapporto con il Signore. Come Pietro, Giacomo e Giovanni anche noi in questo momento siamo davanti a Gesù Trasfigurato. «Non vediamo, non sentiamo, non tocchiamo, ma tu, Gesù, sei risorto, vivo in mezzo a noi». Tra poco lo guarderemo nell’ostia santa. Anche quella è una trasfigurazione, una metamorfosi, un “Dio di pane”.
Chi è Gesù adesso? Gesù adesso siamo noi uniti a lui. Noi formiamo il suo “corpo mistico” quando mettiamo a disposizione le nostre mani, i nostri piedi, il nostro cuore, la nostra intelligenza per essere una sua presenza oggi.
C’è un dettaglio nel racconto della Trasfigurazione che è soltanto dell’evangelista Matteo (anche se la Trasfigurazione è narrata da tutti gli altri sinottici e nella Lettera di Pietro): «Si trasfigurò e le sue vesti divennero candide come la luce». Gli altri evangelisti registrano invece la descrizione: «candide come la neve». Dunque Gesù appare vestito di luce; la luce è un vestito che trasfigura. Alcuni antichi commentatori della Genesi dicono che Adamo ed Eva, prima del peccato originale, erano vestiti di luce. Dopo il peccato, si accorgono di aver perso il vestito e si sono ritrovati nudi. Ciò è detto in modo metaforico, ma è un indizio stupendo: anche noi siamo chiamati ad essere vestiti di luce. Che cos’è questo “vestito di luce”? È la grazia santificante. L’abbiamo ricevuta il giorno del nostro Battesimo. Il vestito bianco che ha coperto il nostro corpo quel giorno stava a significare proprio l’abito della grazia, cioè la partecipazione alla vita stessa di Dio. Questa luce, questo profumo, questa fragranza sono conseguenza del fatto che siamo corpo di Gesù, il suo “corpo mistico”; soltanto il peccato può togliercelo e allora appare la nostra fragilità. «Signore, conservaci sempre vestiti di luce». Così sia.

Omelia della XVIII domenica del Tempo Ordinario – Scavolino

Omelia di S.E Mons. Andrea Turazzi
Scavolino (loc. La Croce), 6 agosto 2017

Mt 17,1-9

(da registrazione)

L’episodio della Trasfigurazione è raccontato in tutti i Vangeli sinottici e nella Lettera di Pietro, perché fin dall’inizio i discepoli hanno intuito che quell’avvenimento sull’alto monte era fondamentale. Pietro, che, come abbiamo visto molte volte, ha un temperamento diretto, schietto ed irruente, fa una gaffe quando dice a Gesù: «Farò qui tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Perché Pietro si sbaglia? Mosè è uomo di luce, uomo del monte; Elia, un grande profeta, paladino sul carro di fuoco… Ma Gesù è unico, non è uno dei tre, uno della fila, è il Signore! Se ci sono Mosè ed Elia è soltanto per “rassegnare le dimissioni” davanti a lui, per affermare che solo Gesù è il profeta, il maestro, il Messia, «Gesù solo». Comprendiamo il fervore di Pietro: «È bello per noi essere qui», come quando vediamo una bella scena, un bel film, uno spettacolo… Ma anche qui Pietro si sbaglia, perché l’essenza della fede cristiana è nell’ascolto. Dio non ha volto, si fa Parola ed è presente in Gesù di Nazaret, che diventa per noi volto ma soprattutto voce. Per questo il Signore ci chiede di ascoltarlo. Noi apprezziamo anche i sentieri delle altri religioni, perché pensiamo che lo Spirito Santo abbia guidato nel tempo tanti saggi, tanti filosofi. Tutti gli uomini hanno l’intuizione di Dio nel loro cuore. Ma Gesù è colui che ce lo rivela in un modo singolare, unico. Mentre affermiamo la nostra fede in Gesù ci risuona questo invito: «Ascoltatelo». Allora non è sufficiente preparare cerimonie, fare belle sculture… Bisogna ascoltare la sua voce, il suo Vangelo. Proponiamoci durante la settimana di ascoltare Gesù e di ripetere talvolta nel nostro cuore: «Lo vuoi tu Signore? Lo voglio anch’io. Cosa faresti Signore al mio posto?». Farsi queste domande significa essere veramente discepoli.