Omelia II domenica di Avvento

Faetano (RSM), 10 dicembre 2017

Is 40,1-5.9-11
Sal 84
2Pt 3,8-14
Mc 1,1-8

(da registrazione)

1.
È iniziata la Visita pastorale! Un apostolo di Gesù fra la gente di Faetano… Ha incontrato bambini, ragazzi e giovani; ha fatto visita alla Giunta di Castello; si è intrattenuto con i catechisti. Ha salutato un gruppo di parrocchiani che hanno sfidato, ieri mattina, la burrasca e la neve per accoglierlo. Ecco le prime 24 ore!

2.
L’evangelista Marco mi aiuta a centrare subito il senso della mia missione tra voi. Apprezzo la cortesia dei sammarinesi. Conosco l’impegno di tanti nel sociale. Ammiro il riferimento ai valori etici. Non posso che plaudire alla consapevolezza della libertà, al rispetto e alla cura per i disabili, all’amore per l’ambiente, alla ricerca della pace. Tutto questo, un quadro sublime, non è ancora il nucleo centrale dell’Evangelo (semmai è maturità umana, è buona educazione, è ciò che struttura il “buon cittadino”, è arte del buon vivere). Ma io sono tra voi per parlare di Gesù, il Messia. Per dirvi che è vivo e che non desidera altro che incontrarvi. Gesù è appassionato per ciascuno di noi, personalmente. Conosce tutto quello che c’è nel cuore. Conosce gli slanci, sa che vorremmo essere sempre migliori.
Stiamo vivendo l’Avvento, il tempo dell’attesa, ma in verità è lui che ci aspetta: come chi bussa alla porta con i palpiti del cuore di un innamorato che non vede l’ora d’incontrare l’amata, come contadino impaziente di vedere il seme spuntare. Quando san Paolo si recò ad Atene nell’Areopago, il grande centro culturale dell’antichità, per annunciare Gesù che è risorto, che è vivo e che dà voce alla promessa della vita eterna, gli venne chiusa la porta in faccia. Gli dissero: «Finché parli di filosofia sei il benvenuto tra noi, anzi ti ascoltiamo volentieri, ma quando parli di Gesù… ti sentiremo su questo un’altra volta» (cfr. At 17,16-32).

3.
Voi vi chiederete che cosa io posso sapere di Gesù. Forse volete delle prove che ne dimostrino la singolarità, l’unicità, la divinità. Vi interrogate – e fate bene – se Gesù può avere a che fare con la vostra vita. Molti potrebbero affermare che sono ottimi cittadini, persone oneste, ma che non hanno mai incontrato Gesù. Quando incontreranno Gesù che cosa accadrà? Non diventeranno più onesti, lo sono già, ma la loro vita cambierà perché vi entrerà un amore che dà senso. Qualcuno potrebbe chiedere: «Gesù è solo un celebre personaggio storico? Un sapiente antico?». No, vi dico. Quelle che vi state facendo sono domande sulla fede. Provo a rispondere.

4.
Guardatevi attorno: vedete un popolo che ha vissuto e vive di Gesù, che ha accolto la testimonianza della sua risurrezione. Guardate la Chiesa con le sue debolezza umane, segno che non brilla di luce propria e prova che sulle sue oscurità splende la luce della presenza di Gesù. I nostri peccati, i nostri limiti stanno a dire che la Chiesa non si basa su di noi, perché se così fosse sarebbe già morta, sarebbe un lontano ricordo del VII sec., invece è viva e vivacissima (basti al cattolicesimo dell’America Latina, dell’Africa, dell’Estremo Oriente…). Guardate e misurate la grandezza delle donne e degli uomini che hanno affidato a Gesù la loro vita, i santi: vivono di lui, sono una sua presenza nel tempo. Sono forse diventati meno umani? No, la sua grazia fa risplendere la loro umanità in tutte le sue potenzialità. Pensiamo a san Paolo, vostro patrono, che ha percorso il mondo antico avanti e indietro senza mai stancarsi, uomo coraggioso, che ha rischiato la morte tante volte per il suo ideale. Ricordiamo san Francesco d’Assisi, san Giovanni Paolo II, santa Teresa di Calcutta, don Oreste Benzi, ecc.

5.
Dico di più: provate ad ascoltare la sua parola, ad accettare le sue sfide, a scommettere sulla sua verità; sentirete dentro il calore, la gioia e l’efficacia della sua prossimità. Dico alcune frasi di Gesù: «A chi ama mi manifesterò» (Gv 14,21). «Non vi chiamo più servi ma amici» (Gv 15,15). «C’è più gioia a dare che a ricevere» (At 20,35). «Vi dico queste parole perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). Solo per questo!!!
Ci sono altre parole di Gesù da gustare. Ad esempio, quando Gesù dice: «Il tuo peccato è perdonato» (Gv 8,11); quando ripete la più sconvolgente delle dichiarazioni d’amore: «Prendete e mangiate: è il mio corpo per voi» (Mc 14,22). Non c’è altro che da fare l’esperienza. Esperienza di perdono; esperienza di convivialità.

6.
Riuniti insieme in questo Avvento, piccoli e grandi, stiamo invocando, pregando e cantando: «Vieni, Signore, Gesù» (Ap 22,20).
Questa domenica incontriamo due profeti – Isaia e Giovanni Battista – che ci parlano del venire di Gesù. Isaia vede da lontano: «Il Signore viene con potenza», potenza e tenerezza, «tiene sul petto i piccoli agnelli e conduce pian piano, con dolcezza, le pecore madri» (cfr. Is 40,11). Giovanni vede ormai prossimo il Messia: «Viene uno dopo di me ed è il più forte. Lui ci battezzerà, ci immergerà nel turbine santo di Dio» (cfr. Mc 1,7-8). I due profeti usano lo stesso verbo: «Viene». Il Signore si avvicina, nel tempo e nello spazio, dentro le cose di tutti i giorni, alla porta della nostra casa, ad ogni nostro risveglio. È vicino. Parla al cuore e lo cambia. Prepariamo la strada (cfr. Is 40,1). Apriamo la porta (cfr. Ap 3,20).

7.
Vorrei concludere dicendo ai bambini: «Non dite mai “sono troppo piccolo” per vincere il male, per fare più bello il nostro pianeta, perché bastano atti di amore, uno dopo l’altro».
Ai ragazzi, invece vorrei dire: «State uniti, cercatevi profeti (i vostri catechisti, i vostri amici più grandi…)».
Ai giovani, che ieri ho incontrato al bar: «Scegliamo Gesù, colmerà ogni nostra attesa».

Omelia nell’apertura della Visita Pastorale alla parrocchia di Faetano

Faetano, 9 dicembre 2017

1Cor 1,1-13

(da registrazione)

Mi metto nei panni del vostro patrono, San Paolo. San Paolo aveva una predilezione particolare per i cristiani di Corinto, forse la più corrotta delle città antiche, la città che presentava la più grande diseguaglianza sociale. C’erano, infatti, persone ricchissime – perché a Corinto vi erano due porti (uno affacciato sul mar Egeo e l’altro sul mare Mediterraneo) – gente d’affari, dedita al business, e c’erano tanti schiavi. La gente che andava e veniva portava una certa instabilità anche dal punto di vista morale. Per significare la lussuria noi, oggi, diciamo “fornicazione”; anticamente fornicare si diceva “corintizzare”, perché Corinto era famosa come città libertina. Eppure, a Corinto si era annidata una comunità di cristiani. Come vede Paolo la comunità di Corinto? Sono bellissime le parole con cui Paolo si rivolge ad essa nella sua Prima Lettera (Paolo scriverà ai Corinti almeno quattro lettere, due ci sono rimaste, due sono andate perdute). Paolo è molto realista: vede la corruzione e vede che il mondo antico si sta allontanando dalla grazia. Eppure, il Signore a Corinto ha scelto un piccolo gruppo di persone. Paolo lo descrive come una comunità piena di doni, amata dal Signore e ne tesse l’elogio. Dice che questa comunità deve essere all’erta, in attesa dello sposo, che è il Signore Gesù. È il tema dell’Avvento: l’attesa del Signore che viene. È così anche per noi. Io sono un successore degli apostoli che viene in questa comunità, in una Repubblica che sta vivendo un momento di grande sbandamento, di grande difficoltà (me lo confidano in tutti i posti in cui sono stato). Non è soltanto una difficoltà economica, ma anche morale. Si assiste ad una perdita della fede: le scorte del credere stanno venendo meno. Però, anch’io come San Paolo, vedendo voi vedo i doni che il Signore vi ha fatto e vi fa.
San Paolo si raccomanda una cosa fondamentale: non essere disuniti. Oggi nella Chiesa c’è un po’ di turbamento. Qualcuno la chiama confusione. San Paolo chiede alla comunità di Corinto di restare unita, di non dire «Io sono di Paolo, io invece sono di Apollo, io invece di Cefa… » (1Cor 1,12). Oggi la situazione non è tanto diversa… Noi siamo la Chiesa di Gesù, una Chiesa unita al suo pastore, che è il Santo Padre, e al suo Vescovo. Voi forse vi chiederete che cos’è una visita pastorale. Il Vescovo viene a controllare, a verificare come vanno le cose? No, il Vescovo viene per incoraggiare, viene per unire e anche per far rivivere quello che vivevano i primi cristiani quando arrivava un apostolo. Che cosa gli chiedevano? Gli chiedevano di parlare loro di Gesù, di raccontare com’era Gesù. Eccomi: sono qui per parlare di Gesù, per raccontarvi non soltanto quello che ho studiato nei libri, ma qualcosa del mio incontro personale con lui. La visita pastorale mi responsabilizza molto e, per questo, ogni volta che la inizio in una comunità, mi domando: «Ho incontrato Gesù? Parlo di Gesù per sentito dire o dico di Gesù qualcosa del mio incontro con lui?».
Mentre ero in viaggio per venire da voi mi è venuta in mente la visita pastorale di San Carlo Borromeo, grande vescovo di Milano. Egli ha girato la diocesi, che la più grande del mondo, a dorso di un mulo. Aveva sempre presso di sé il confessore: si confessava ogni tre giorni! Un grande santo, pieno di zelo, che ha saputo trasformare la sua diocesi.
Nei Promessi Sposi troviamo la descrizione di una memorabile visita pastorale, quella di un suo nipote, Federigo Borromeo, anche lui un sant’uomo. Viene descritto al capitolo XXIII il bellissimo incontro del cardinal Federigo con l’Innominato. L’Innominato non aveva chiuso occhio tutta la notte, turbato dalla dolcezza e dalla fede di Lucia, la promessa sposa di Renzo. Era rimasto colpito dalla purezza di quella ragazza di cui voleva abusare. Al mattino sente suonare le campane che riempiono la valle e vede il popolo che si riunisce in chiesa: un popolo che custodisce la memoria di Gesù e accoglie l’apostolo. Allora scende dal suo castello e si mette in coda con la gente; tutti si fanno da parte perché hanno paura di lui. Poi tenta di avvicinare il Cardinale, ma quasi vorrebbe tornare indietro. Il segretario crocifero tergiversa e poi va dal Cardinale e gli dice: «C’è una persona poco raccomandabile che la vuole vedere, io la sconsiglierei… lasci perdere». Invece il Cardinale gli va incontro e lo abbraccia. L’Innominato si ritrae d’istinto, perché non si ritiene degno. Invece il Cardinale si rivolge a lui dicendo che il Signore lo vuole incontrare. L’Innominato esclama: «Dio, Dio, se lo vedessi! Se lo sentissi! Dov’è questo Dio?». E il Cardinale: «Voi me lo domandate? Voi? E chi più di voi l’ha vicino! Non ve lo sentite in cuore che v’opprime, che v’agita, che non vi lascia stare e, nello stesso tempo, vi attira, vi fa presentire una speranza di quiete». E si assiste ad una conversione meravigliosa.
Vorrei tanto che la visita del Vescovo, nella mia povera persona, muovesse la fede delle persone che incontrerò, dei ragazzi, degli adulti…
In questi giorni sono andato spesso a pranzo con le persone che lavorano, nelle mense, per mostrare la presenza della Chiesa “accanto”. Pregate per me. Pregate perché io abbia un incontro sempre nuovo con Gesù e perché sappia parlare di Gesù con sempre maggiore entusiasmo.

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Montegiardino

Montegiardino, 8 dicembre 2017

Solennità dell’Immacolata Concezione

Gen 3,9-15.20
Sal 97
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

(da registrazione)

1.
Ho vissuto insieme a voi per quasi una settimana: un’esperienza molto bella. Montegiardino. In questo nome è racchiusa la vocazione di una comunità espressa da una metafora: il giardino, che vuol dire colore, profumo, vita.
La natura, il castello, la gente: tutto appare progettato per dire armonia. E questa è una responsabilità che vi riguarda. Vorrei che il nome del vostro paese, della vostra comunità diventi sempre più vero, autentico.
Ho visitato le attività commerciali (ad ognuna ho fatto auguri ed espresso complimenti) e le piccole aziende (ho pregato per il loro sviluppo e per il bene di tutti).
Ho potuto constatare le tante iniziative: ospitalità, sport, folklore, presepio vivente, laboratorio. Sono rimasto sorpreso dalla intraprendenza e dalla creatività. Ho potuto avvicinare le istituzioni: scuole, castello, caserma, parrocchia. Ho colto in tutti la preoccupazione educativa; questo vi nobilita.
Ho incontrato persone: bambini (indimenticabile la mattina di martedì in cui abbiamo preparato l’Alleluia), giovani, genitori, nonni, ammalati, disabili e le associazioni.
Mi sono fermato più volte sulla piazza: luogo significativo per la vita sociale e civile, punto di incontro dei cittadini.
Ho sostato presso il campo santo insieme a don Luis e abbiamo pregato per i vostri cari defunti.
Ho fatto un’ora di silenzio nella vostra chiesa. C’eravamo solo Gesù ed io. Ho avuto anche la fortuna di passare dieci minuti in cantoria, sulla tastiera di uno straordinario organo a canne.
Tante persone, tante strette di mano. E il tentativo di imparare i nomi di ognuno, perché il nome è la forma prima della comunicazione.
Mi sono reso conto anche delle problematiche ecclesiali: l’avvicendarsi troppo frequente dei sacerdoti; il clima generale di secolarizzazione e di abbandono della pratica religiosa; la caratteristica dei piccoli centri: una conoscenza ravvicinata coi vantaggi della solidarietà, ma anche i pericoli del giudizio e delle chiacchiere.
Un’attenzione mi sento di sottolineare: rimanere aperti all’intera Repubblica di San Marino, ma anche all’Italia, aperti a tutte le persone – sono tante – che vengono dall’estero come badanti e sono d’altra confessione religiosa.

2.
Mi è accaduta un’esperienza come quella che ha fatto san Paolo quando si è recato nella città di Atene. Una città illustre per la sua cultura, la sua vivacità, la sua gente. San Paolo prende la parola all’Areopago e inizia complimentandosi anche per la religiosità degli ateniesi. Lungo le strade ha visto i segni del loro rispetto per le cose sante, per i simulacri delle più svariate divinità, segni di una pietà diffusa. C’è persino un capitello dedicato al Dio Ignoto. Paolo loda la sapienza degli ateniesi che praticano i valori più alti della civiltà antica. Ma ad Atene manca l’incontro con la realtà più importante: Gesù! Egli è il Verbo dell’unico Dio fatto uomo, venuto per renderci partecipi della vita stessa di Dio: «Un Dio che si fa uomo perché l’uomo diventi Dio».
Sulla piazza di Montegiardino – vi ringrazio – avete scritto: «Benvenuto vescovo Andrea tra la gente con la gioia del Vangelo». Ebbene il Vangelo è proprio questo: è Gesù! La buona notizia è Gesù, persona viva e, dunque, il Vangelo non è un insieme di valori, una morale, una buona educazione, buoni sentimenti. È la persona di Gesù. Allora vi prego, non fate come gli ateniesi che, dopo aver apprezzato san Paolo per la sua cortesia e apertura alla loro cultura, dissero quando parlava di Gesù: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta!» (At 17,32). Invece accogliete Gesù. Questo è il messaggio che vi lascio: fare in modo di incontrare Gesù, la sua persona, perché, con la potenza della sua morte e risurrezione, ci libera dal peccato, dai condizionamenti dell’amor proprio, dalle catene che ci immobilizzano al nostro uomo vecchio (con le sue passioni, i vizi, le inconsistenze, ecc.) e ci apre la via alla risurrezione da oggi e per sempre.

3.
Aggiungo una cosa che prendo pari pari dalla scritta che sta nel cartiglio dell’antico paliotto dell’altar maggiore della chiesa di Montegiardino: «Fasciculus myrrhae dilectus meus mihi». Parole misteriose, che tradotte significano una dichiarazione d’amore. Gesù dall’altare ripete ogni momento queste parole: «Tu sei un mazzolino di mirra, perché tu sei l’amato mio». Una bambina di quinta elementare ha avuto l’ispirazione di fare questa domanda: «Che cos’è la bellezza?». Innanzitutto, la bellezza è misura, proporzione. Non è bello quello che è sproporzionato e bislacco. Ma la bellezza non è solo questo, perché ci sono cose simmetriche, perfette, che non sono ancora belle: sono fredde, marmoree. La bellezza è di più: è armonia, in cui tutte le parti si compongono. La bellezza è ancora di più: è rivestita di amore, suscita emozione, parla. Perfezione, armonia e infinitamente di più: amore! Perché viene “da dentro”.
Dobbiamo ammettere che l’anima spesso “resta indietro” in tante azioni, rapporti e iniziative e allora non c’è bellezza, perché la bellezza viene dal cuore. Bisognerebbe che l’anima si mettesse a rincorrere il nostro corpo, le nostre relazioni, le nostre iniziative. Ecco che cosa ci porta Gesù. La sua morte e risurrezione ci restituisce una capacità più grande di amare. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella Santa Messa di apertura della Visita Pastorale alla parrocchia di Montegiardino

Montegiardino, 3 dicembre 2017

Is 63,16-17.19; 64,2-7
Sal 79
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

(da registrazione)

Sono molto contento di essere a Montegiardino, anche se arrivo avendo nel cuore le parrocchie che ho già incontrato: Dogana, Serravalle, Falciano, Domagnano, Borgo Maggiore. Per un vescovo la Visita Pastorale è una cosa bellissima.
Stasera vorrei dirvi tre cose: che cos’è una visita pastorale; qual è uno dei pilastri più importanti della vita spirituale del cristiano; come il Signore vede questo pilastro.

1.
Che cos’è la Visita Pastorale?
Ogni volta che dico che cos’è la Visita Pastorale rifiorisco. La Visita pastorale è la visita dell’apostolo alla comunità dei cristiani. Oggi i cristiani sono molto ridimensionati nel numero. Tuttavia ogni piccola comunità è come una costellazione che rende bello il cielo di San Marino. Il vescovo, proprio come facevano gli apostoli dei primi tempi, va in ogni comunità a parlare di Gesù. Non potrebbe bastare leggere un libro su Gesù? No, il vescovo ne parla con autorevolezza, perché è un successore degli apostoli. Sono il 66° vescovo di San Marino-Montefeltro, l’ultimo anello di una catena che ci aggancia a Rimini, fino ad arrivare al vescovo di Ravenna Sant’Apollinare, che fu ordinato vescovo da un amico di San Pietro apostolo, Ignazio di Antiochia. Non è una lezione di storia, ma la rivelazione di un mistero. Se una comunità cristiana vuol essere veramente tale deve essere agganciata a Gesù, non in modo burocratico, ma con la vita. Il Vescovo va a parlare di Gesù come Pietro, come Andrea, come Matteo, come Giovanni… Loro lo avevano incontrato, sapevano tutto di lui ed erano felicissimi di poter raccontare i miracoli, le parabole, ogni particolare. Per chi ama nulla è un dettaglio!
La domanda che mi faccio oggi è: ho incontrato Gesù? Ho studiato, so leggere il Vangelo in greco (la lingua in cui è stato scritto), ma questo sapere che si trova nei libri non dà sapore. Il sapere che dà sapore è l’incontro vivo con Gesù. Allora, mentre vengo a visitare voi, dentro di me si muove il desiderio di conoscere di più Gesù, di avere ancora più familiarità con lui.
Oggi una bambina di V elementare mi ha chiesto: «Come si fa a far parte del mondo di Gesù?». Le ho detto che per prima cosa bisognava leggere il Vangelo, poi essere uniti nella Chiesa, perché a tutti vengono dubbi nella fede e insieme possiamo aiutarci. Ho raccontato l’esempio di un campeggio in cui ognuno aveva portato il suo pezzo di legno per preparare un grande falò. Uno dei ragazzi, arrabbiatosi con gli altri, si era allontanato con il suo pezzo di legno acceso. Dopo qualche minuto il pezzo di legno si spense.
Siamo noi la Chiesa di Gesù, il mondo di Gesù. Ma dobbiamo essere uniti: accenderci gli uni gli altri. Questa è la visita pastorale. Il Vescovo dimorerà con voi, nel vostro paese.

2.
L’Avvento ci insegna che un pilastro fondamentale della vita cristiana è l’attesa del Signore. Tante volte l’attesa si spegne, perché crediamo di averlo già raggiunto. Invece, come ci insegna la Prima Lettura, dobbiamo fare un’invocazione: «Signore, noi siamo come foglie avvizzite, vieni ad aiutarci» (cfr. Is 64,5).

3.
La cosa più sorprendente è che il Signore aspetta noi. Noi aspettiamo lui, dobbiamo vigilare, non dobbiamo dormire, dobbiamo essere attenti, ma il Signore attende noi. Come ci attende? Se sfogliamo la Sacra Scrittura vediamo che lui è un padre che aspetta il ritorno del figlio (cfr. Lc 15,11-31). Quanto amore, quanta pazienza, quanta vigilanza. È una immagine che ci ha lasciato Gesù quando ha parlato del Padre misericordioso. Poi Dio ci aspetta come un contadino che ha seminato e attende che il seme nella terra marcisca e pian piano sbocci (cfr. Mc 4,28). Dio ha con noi la pazienza del contadino. Inoltre, ci aspetta come un innamorato aspetta la sua amata. Il Signore aspetta tutti noi con il batticuore. Infine dice: «Ecco: sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Sono venuto a dirvi proprio questo: il Signore è alla porta e bussa. Credo che nessuno metterà il catenaccio. Penso che tutti apriranno: «Signore, vieni, non tardare».

Omelia nella Santa Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Borgo Maggiore

Borgo Maggiore, 3 dicembre 2017

Is 63,16-17.19; 64,2-7
Sal 79
1Cor 1,3-9
Mc 13,33-37

Prima domenica di Avvento

(da registrazione)

1.
Sorpresa! Oggi ritroviamo la stessa lettura che ha aperto la Visita Pastorale (1Cor 1,1-9). Ricordate?
Questa pagina si apre con un indirizzo affettuoso di saluto (e io di affetto ne ho sentito tanto in questi giorni in cui ho abitato con voi). Prosegue poi con un rendimento di grazie per i doni di cui gode la comunità cristiana, doni di parola e di conoscenza; sono doni dati dal Signore che opera in questa comunità; una comunità nella quale si parla molto di Gesù e a lui si dà lode, a lui si canta. Soprattutto di lui si vuole vivere: l’ho percepito.
La pagina della Prima Lettera ai Corinzi si conclude con una foto della comunità di Corinto. Anche questa, come Corinto, è una comunità che è in attesa di un incontro nuovo con Gesù. Io sono qui, come ho detto tante volte durante la settimana, per testimoniare Gesù, non per sentito dire, ma perché – spero – l’ho incontrato e sento che devo incontrarlo ogni volta di nuovo.
Gesù è venuto (al Natale ci stiamo preparando a partire da oggi). Gesù verrà: questo alimenta la speranza, ci tiene desti (egli viene a recuperare la storia e a fare giustizia). Gesù viene: adesso è già il momento dell’incontro (è confermata la sua fedeltà: non manca di parola).

2.
I giorni della Visita Pastorale sono stati una grazia per il Vescovo e spero per molti di voi. Negli incontri ho imparato tanto e mi sono venuti dal cuore e dal dialogo una serie di messaggi-consegna. Ad esempio:
– agli Scout (piccoli e grandi): «Non esistono bocce perse!».
– ai Consigli pastorale e degli affari economici, agli impegnati in parrocchia: «Gareggiate nello stimarvi a vicenda» (Rom 12,10).
– agli adulti della Lectio divina e della Catechesi degli adulti: «Se tu leggi il Vangelo e lo vivi ti trasforma in Gesù».
– ai medici, ai professionisti, ai volontari che si dedicano ai malati e ai disabili: «Continuate a combattere contro le sofferenze, a sollevare le fragilità e intanto insegnate che chi è fragile e soffre è un dono per la comunità, perché attorno a lui si apre un campo di umanità, di umanesimo, solidarietà, perché fa scattare il desiderio di aiutare e si capisce ciò che vale davvero».

Ci sono stati molti incontri con le istituzioni presenti sul territorio della parrocchia: cortesia, riconoscenza, collaborazione, mai – da parte nostra – richiesta di privilegi.
Il “sistema San Marino” è in crisi? Ma ci sono anche tante energie positive e persone disponibili.
Ci sono pericoli e tentazioni? Non chiudersi nell’individualismo, non smarrire valori preziosi; ci sono risorse e talenti:
– la qualità dell’impegno per l’infanzia
– il servizio e l’attenzione alle fragilità (disabilità)
– i politici borghigiani: sono consapevoli che la politica è una delle forme più alte della carità, perché non si fatica per interessi personali, non per interessi di famiglia, non per interessi di gruppo, ma per il bene di tutti; con la dialettica (dialogo e amicizia) non con l’ideologia.
– il volontariato: il volontario è colui che fa, fa liberamente, fa volentieri.

Il Vescovo ha passato giornate intere con don Marco e con i sacerdoti che svolgono il ministero in parrocchia: don Stefano, don Pino, padre Honorio, con il diacono Giovanni. Ci siamo proposti di volerci bene e che si possa percepire che siamo uniti. E siamo stati ospiti dai frati e dalle monache clarisse di Valdragone. Sono state giornate nelle quali ho visto da vicino il servizio della segreteria parrocchiale, del gruppo “Marta-Maria”, del Centro Don Bosco.
Ho frequentato le vostre associazioni: Scout, Azione Cattolica, Comunione e Liberazione. Gruppi che provano a non camminare paralleli, pur avendo una propria identità, ma convergenti nella comunione, disposti a costruire un’unica comunità.

3.
Questa parrocchia non è fatta per vivere per sé, per trattenere i doni ricevuti e metterli sottoterra (cfr. Mt 25,24-28).
Ha luce? È per illuminare: «Non si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro…» (cfr. Mt 5,15).
Ha calore? È per scaldare: «Sono venuto a portare un fuoco sulla terra; e come vorrei fosse già acceso» (cfr. Lc 12,49).
Ha vitalità? È per animare.
Dico alla parrocchia: sii anima! Fai da anima per tutto Borgo Maggiore e San Marino!
Non trovi amore? Metti amore! Ognuno deve essere consapevole che, ovunque si trova, è la Chiesa che porta Gesù: come ogni punto sulla superficie della sfera la regge tutta.
Dico ai bambini: non dire “sono troppo piccolo”; tu puoi penetrare dove noi adulti non riusciamo (persino i bambini che ho avuto l’onore di battezzare sabato scorso: hanno portato tanti a Gesù… Hanno aperto strade senza saperlo, cfr. Giud 15,4-5).
Scriveva così un autore antico ad un certo Diogneto per parlare dei cristiani nel mondo: «I cristiani né per lingua, né per costumi sono da distinguersi dagli altri. Non abitano in una città propria, né usano un gergo che si differenzia, né conducono un genere di vita speciale. Si adeguano agli usi del luogo nel vestito, nel cibo e in tutto il resto; ma testimoniano un metodo di vita sociale mirabile e indubbiamente paradossale. Obbediscono alle leggi stabilite, ma con la loro vita superano le leggi. Vivono nella loro patria, ma come forestieri (perché tutti i luoghi sono patria loro). Si sposano come tutti, generano figli, ma non gettano i neonati… Sono nella carne, ma non vivono secondo la carne. Amano tutti anche se da tutti vengono perseguitati […]. A dirla in breve, come è l’anima nel corpo, così nel mondo sono i cristiani» (cfr. Lettera a Diogneto, V,1-VI,1).
Siate così. Siate anima. Così sia!

Omelia nella Solennità di Cristo Re dell’Universo

Borgo Maggiore, 26 novembre 2017

(nella Visita pastorale a Borgo Maggiore)

Ez 34,11-12.15-17
Sal 22
1Cor 15,20-26.28
Mt 25,31-46

(da registrazione)

Cari amici,
diamo lode al Signore, il nostro Re! Gesù, Signore, Re dell’universo. Vogliamo proclamarlo nella nostra piccola grande Repubblica, vorremmo proclamarlo in tutto il mondo; vorremmo che il nostro grido, il nostro canto potesse penetrare i cieli. Vorremmo che tutti gli aprissero le porte, che gli stati – come diceva Giovanni Paolo II – gli aprissero le porte. Nel Vangelo viene descritta una visione sfolgorante: la corte divina è riunita e tutti i popoli della terra sfilano davanti al Re. Il nostro cuore si china a guardare Gesù buon pastore.
Faccio una piccola inclusione per i più piccoli: in questi giorni mi sono scappati alcuni errori. Il primo è stato in una scuola d’infanzia. Mi hanno chiesto: «Chi è il vescovo?». Ho provato a spiegarlo, ma non sono arrivato all’essenziale e mi è scappata una parola non adeguata. Ho detto che il vescovo è il capo. Gesù non ha mai detto così di sé. Mi sono proprio sbagliato. Il suo modo di fare il re non è come quello dei grandi della terra. Gesù riesce persino ad avere – questa è la sua regalità – un contatto personale con tutti, persino con un bambino che piange nel deserto, dice la Sacra Bibbia.
Ricordo di aver letto al Liceo il seguente racconto. Quando l’imperatore romano Traiano rientrò a Roma dopo aver vinto la grande guerra contro i Traci, gli avevano innalzato addirittura un arco di trionfo di marmo sulle cui colonne erano scolpite le sue imprese militari di conquista del mondo. Mentre lo attraversava, a destra e a sinistra c’era una folla sterminata che gridava a gran voce «Viva l’imperatore!». Una vecchietta tentò di fermarlo un attimo. Lui si girò e le disse: «Non ho tempo». La signora rispose: «Se non hai tempo per me non sei un vero imperatore! Sei un grande nel mondo, ma non sai essere attento a me che ho bisogno, anche solo per un minuto. Significa che non sei il padrone del mondo». Pensiamo per un attimo al pastore come viene descritto nella Prima Lettura. Proviamo a contare i verbi che esprimono le azioni che compie il pastore buono, il vero Re, un Re di cuori. Sono dodici: cerca (è lui che va in cerca! Non c’è bisogno di alzare la voce per farsi sentire), passa in rassegna, raduna, conduce, fa riposare, riconduce, fascia, cura, ecc.
È il vero pastore. Il Signore è il Re perché ama infinitamente e il suo regno si caratterizza proprio per questo. Oggi c’è chi non riconosce Gesù. Sapete qual è la legge del Regno di Gesù? È quella che abbiamo sentito nel Vangelo: dar da mangiare a chi ha fame, dar da bere a chi ha sete, vestire chi ha freddo, ecc. Questa mattina sono andato a celebrare la Messa a Ca’ Rigo. La chiesa era gremita di persone. Ho fatto loro i complimenti, perché tanti di loro avevano dato da mangiare, avevano cresciuto i figli, gli avevano dato da studiare: avevano vissuto le opere di misericordia.
Un altro errore che ho fatto ieri: mi è stato chiesto com’è la vita di un sacerdote, di un vescovo. Ho provato a rispondere. Alla fine, quando ci siamo messi in posa per una fotografia di gruppo, una ragazzina mi ha detto: «Caro Vescovo, che brutta vita la tua!». Mi ha spiazzato. Mi sono reso conto di non aver detto la cose più importanti: non gli ho detto quante lacrime ho asciugato, quante partite a calcio ho fatto per tener uniti i ragazzi, quanti ammalati ho preso per mano e accompagnato a Gesù… magari tutti diventaste preti!
Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nelle Esequie di don Mario Campana

Torricella, 24 novembre 2017

Sap 3, 1-9
Sal 31
Lc 23, 44-46.50.52-53; 24 1-6

«Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio» (Sap 3,1).

Cari fratelli e sorelle,
è questa la ragione della nostra speranza: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio». Ed è ciò che ci conforta quando siamo di fronte al mistero della morte. Un mistero sempre; sia che la morte rapisca come un ladro in gioventù, sia che tagli l’esile filo di una esistenza lunga. Le anime sono nelle mani di Dio. Questa parola è anche il motivo della nostra preghiera di suffragio; chi di noi è così puro da presentarsi davanti a Dio, davanti all’Altissimo, senza l’invocazione della sua misericordia?
Ci avete mai pensato? Non è da poco sentire nel cuore questa certezza: siamo nelle mani di Dio. A volte lo si dice con rassegnazione, come a dire «non c’è più niente da fare», ma quelle parole vanno prese nel loro vero significato. Sono parole di Vangelo: noi siamo nelle mani di Dio. E le mani di Dio formano una sorta di nido. Lì è stato collocato don Mario, soprattutto nel tempo della malattia e, al riparo di quelle mani, don Mario ha coltivato l’unione con Dio. Non amo fare panegirici. L’ho conosciuto negli ultimi anni. Uomo di preghiera e, a quanto mi risulta, maestro di preghiera. Ha insegnato ad amare la Parola di Dio. È vero: più disponibile a dare fiducia alla preghiera che alla medicina e, per usare un eufemismo, “più formica che cicala”. Nelle visite alla Casa di Cura “Toniolo”, dove fu ricoverato all’inizio dell’anno e dov’è rimasto fino a Pasqua, l’ho sempre sorpreso – nelle mie visite settimanali – con il Rosario in mano e “il segno giusto” nel libro del Breviario. Se era di mattina lo trovavo già spostato verso il Vespro, se era tardo pomeriggio era già nel giorno successivo. Per noi sacerdoti “il segno nel Breviario” è un buon “termometro”. Vuol dire che don Mario era fedelissimo alla preghiera. Quanti racconti mi ha fatto, non so fino a che punto realistici, cose rocambolesche, soprattutto quando era sui monti; ma lo penso nelle mani di Dio soprattutto in questo momento. Invito me e ciascuno di voi a concentrarci su queste mani, le mani del Signore. Vedo tre caratteristiche: sono mani creatrici, mani salvatrici, mani amorose.
Mani creatrici: da quelle mani siamo stati plasmati (cfr. Gb 10,8), come l’artista fa col suo capolavoro di creta. «Siamo opera delle sue mani». Nelle sue mani sono gli abissi della terra (cfr. Sal 94,4), i cieli con l’arcobaleno che lui vi ha teso (cfr. Sir 43,12). Ogni volta che il Signore apre le sue mani fioriscono la vita e i viventi si saziano di beni (cfr. Sal 104,28). Tutte le opere delle sue mani sono verità e giustizia (Sal 110,7) e l’opera delle sue mani è proclamata dal firmamento (Sal 18,2). Mani creatrici: se considerassimo questo avremo molta più stima degli esseri umani, anche di noi stessi. A volte si cerca l’autostima nel successo, nella carriera… Mentre siamo «opera delle sue mani» (Is 64,7). Basterebbe questo per ridiventare anche di buon umore.
Mani salvatrici: chi ha familiarità con la Bibbia conosce, come il ritornello, «le sue mani forti, il suo braccio disteso», che ha salvato e liberato il popolo, mani distese sul mare che diventa terra ferma. Mani che guidano il popolo, che prendono per mano, che strappano dagli inferi, che, se feriscono, risanano. A volte pesano sulla spalla o sul capo del profeta. I miei confratelli presbiteri sanno bene quanto è pesante, talvolta, quella mano del Signore, ma nello stesso tempo la sua è anche una mano che solleva, che incoraggia. Nessuno viene strappato da quella mano (cfr. Gv 10,29).
Mani amorose: la Scrittura dice che noi siamo come una perla nel palmo della mano del Signore, la più preziosa delle perle, una corona. Anzi, il nostro nome è scritto sulla mano del Signore (cfr. Is 49,16). Caro don Mario, tu sei scritto su quella mano. Dio non permetterà che qualcuno ti cancelli.
Le mani del Signore sono mani amorose che coprono e fanno ombra. Mani che toccano le labbra del profeta. Isaia non poté dire altro che «Signore, come posso parlare di te, le mie labbra sono impure» (cfr. Is 6,5). E il Signore gli toccò le labbra. Anche Gesù consegnerà la sua anima nelle mani del Padre. Le mani del Signore – sentite questa sottolineatura delicatissima e commovente – portano la sua creatura fino alla sua guancia.
Che dire poi di Gesù! Lui è la mano del Padre tesa per noi, una mano misericordiosa rivolta ai peccatori, che risolleva i malati e quanti, come Pietro, stanno per sprofondare. Mano rivolta a raccogliere chi è sceso nello Sheol. Gesù: mano di Dio!
Voglio dire una parola anche sulle mani di Gesù. Mani che hanno risanato, incoraggiato, accarezzato, asciugato lacrime; mani inchiodate per tre ore sulla croce ma sempre spalancate, destinate a rimanere spalancate per sempre.
Che cosa ha fatto Gesù sulla croce? Siamo stati avvertiti dalla Parola di Dio letta dal diacono di non fermarci alle tre del pomeriggio del Venerdì Santo, perché dopo avviene la risurrezione: stiamo parlando di un vivente!
Ma che cos’ha fatto Gesù per tre ore sulla croce? Non ha fatto della strada, non ha percorso le contrade della Galilea, non ha potuto lavorare.
Per prima cosa ha continuato a soffrire. «Ho sete» (Gv 19,28). Gesù domanda una goccia d’acqua. Per la febbre, per il tetano, per lo spasimo di un supplizio atroce. Ma non solo. Ha sperimentato l’abisso della notte oscura: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34).
Poi continua a pregare. Tutta la sua passione l’ha vissuta rivolto verso il Padre. Per tutto il tempo. Ma ci sono momenti in cui questo essere rivolto al Padre si esprime con parole: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46). Da notare che Gesù con quelle parole cita il Salmo 31, ma si prende la libertà di aggiungervi una parola, una parola di indirizzo: «Padre». «Padre, nelle tue mani consegno il mio Spirito». E poi, ultima preghiera al Padre: «Tutto è compiuto».
Inoltre Gesù continua ad amare. «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). E, rivolto al ladrone crocifisso con lui, dice: «Oggi sarai con me nel paradiso» (Lc 23,43). Quanto amore, quanta carità, quanta tenerezza. Ai piedi della croce, un luogo tremendo, dove gli istinti peggiori dei carnefici si scatenano, Gesù crea un “campo magnetico” di amore, di affetti. E gli escono queste parole rivolte alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio» (Gv 19,26). E rivolto all’amico del cuore: «Figlio, ecco tua madre!» (Gv 19,27).

Omelia nella Santa Messa di apertura della Visita Pastorale alla parrocchia di Borgo Maggiore

Borgo Maggiore, 20 novembre 2017

1Cor 1,1-13
Sal 22
Lc 5,1-11

(da registrazione)

«Ringrazio continuamente il mio Dio per voi» (1Cor 1,4).
Sì, cari amici, siete motivo di gratitudine (al Signore) per l’edificazione che portate alla gente di San Marino. Sono grato per il vostro contributo alla vita diocesana. Vi sento molto presenti. È noto il vostro impegno per le famiglie, per i ragazzi e i giovani, per l’accoglienza e per quella esperienza di pastorale integrata verso cui ci stiamo muovendo. Si può dire che nella vostra parrocchia il Signore è servito. Anzitutto con l’attenzione a chi è in difficoltà o soffre a causa della povertà o della malattia. «Tutto quanto avete fatto al più piccolo dei miei fratelli, l’avete fatto a me», dice il Signore. Il Signore è servito in una liturgia appropriata, partecipata dall’assemblea, animata dal coro, servita da una molteplicità di ministeri, ministeri della Parola e dell’Altare; ed ora arricchita anche da un gruppo di chierichetti: un piccolo seminario nel significato proprio, etimologico (una serra). Chissà quanti germi di vocazione il Signore semina nella vostra comunità. Dunque «nel glorificare il Signore esaltatelo quanto più potete, perché ancora più alto sarà. Nell’innalzarlo moltiplicate la vostra forza, non stancatevi, perché mai finirete» (Sir 43,30).
Il Signore è servito dai tanti di voi che mettono a disposizione mani, intelligenza e cuore per la causa del Vangelo, per far conoscere Gesù, i detti e i fatti riguardanti la sua vita, e «la potenza della sua risurrezione» (Fil 3,10). Alludo all’impegno apostolico, ma anche a quello dell’animazione nella realtà temporali. Servizio nell’evangelizzazione, nella liturgia, nella carità.
«Vi esorto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi» (1Cor 1,10).
Come nella comunità dei Corinti, anche nella vostra non mancano le difficoltà, le tensioni e i momenti di debolezza. I tempi non sono dei migliori. Non serve vagheggiarne di diversi! La fede è sottoposta ad una sfida dopo l’altra. Del resto come ammetteva con malinconia il profeta Elia: «E io non sono migliore dei miei padri» (1Re 19,4). Ci impensierisce la sproporzione fra la frontiera della missione che sta davanti a noi e la nostra pochezza… Ci si sente inadeguati come il piccolo Davide di fronte al gigante Golia.
Come stare, allora, nella fragilità, nella esperienza della insufficienza e del limite? Reagendo con un “di più” di impegno? È volontarismo! Cercando aiuto, complicità nel bene, collaborazioni? Può essere utile, talvolta necessario, ma… Tutto qui? Mi metto con voi davanti all’icona giovannea della moltiplicazione dei pani (cfr. Gv 6,1-15). Arrivo subito all’osservazione fatta dall’apostolo Filippo al Signore: «Anche duecento denari di pane non basterebbero che a dare qualcosa… Ma che cos’è questo per tanta gente?» (cfr. Gv 6,9). È la constatazione della nostra insufficienza che si scontra col bisogno degli uomini e con i desideri di Dio. L’insufficienza! Eppure è da questa insufficienza che il Signore trova la materia del suo intervento, la materia del suo miracolo. L’insufficienza è un aspetto del mistero della Chiesa e un aspetto del mistero della vita del cristiano. La meta a cui il Signore chiama, l’ideale a cui invita, sono grandiosi, stupendi, immensi. Inumani, anche. E le nostre forze sono sproporzionate.
Il cristianesimo è Cristo. Ma Cristo, secondo la parabola, è la pietra scartata dai costruttori come inutile, inadatta, difettosa. Dio però agisce con quella e ne fa una pietra d’angolo (cfr. Mt 21,42), quella che tiene in sesto e dà vigore a tutto l’edificio. Gesù è riconosciuto Dio sulla croce, nel fallimento umano. Cristo vince perdendo, salva con la propria morte.
Il cristianesimo è l’insufficienza umana eretta a metodo dell’operare di Dio, tanto nell’Antico Testamento quanto nel Nuovo Testamento. Dio sceglie ciò che è debole, infermo, ciò che non conta, per confondere ciò che è forte (cfr. 1Cor 1,27-29). Dio interviene e costruisce, gioca e riporta vittoria con la nostra debolezza. San Paolo dichiara: «Vedo il bene e compio il male» (cfr. Rom 7,19-33). Addirittura! E Gesù in Giovanni: «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,56). Ma il cristiano, d’altra parte, può replicare: «Posso tutto in colui che mi dà la forza» (Fil 4,13). E può dire: «Sono insufficiente da me, ma la mia sufficienza viene da Dio». Anzi può affermare: «Quando sono debole, allora sono forte» (2Cor 12,3-10). È Dio che nel mondo e nella storia, da solo, produce il bene, tutto il bene: «Solo Dio è buono» (Mc 18,18). Da lui «ogni dono perfetto» (Gc 1,17). Eppure gli uomini diventano suoi collaboratori e collaboratori che da lui ricevono mezzi, forza e risorse per esserlo (cfr. preghiera “Actiones”). Così il cristianesimo è la forza nella debolezza, la forza della debolezza, in altre parole la forza nell’amore!
Cari amici, all’inizio di questa mia visita pastorale alla vostra comunità dico che nessuno è inutile. Non lo sono i piccoli che sono senza esperienza. Non sono inutili gli anziani privi di attività, talvolta giudicati improduttivi, di peso. Non sono irrilevanti per la vita della comunità quanti sono in difficoltà con la loro fede, quanti sono in ricerca e indugiano sulla soglia. Non sono distanti quanti hanno subito ferite nella loro vita familiare e non possono partecipare fino in fondo al sacramento dell’Altare. Ma soprattutto non solo inutili i poveri, gli ammalati, i disabili… Anche il soffrire è un agire; anche il soffrire può diventare un offrire. Tutti quelli che sanno amare, comunque si trovano, sono validi, danno un senso alla vita, contribuiscono al bene della comunità. Basta mettere la nostra povertà nelle mani di Dio. Cinque pani. Due pesci. Il Signore fa il resto. L’insufficienza diventa sovrabbondanza che soccorre le necessità degli uomini e asseconda le attese di Dio. Così sia!
L’insufficienza capita e accolta così forma la gioia del cuore di Dio, del cuore degli uomini del nostro cuore. Questo è il segreto della fecondità. Questo è il mistero del cristianesimo. Questo è il miracolo dell’amore: la forza della debolezza, la potenza dell’amore.

Omelia XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Cattedrale di San Leo, 19 novembre 2017

Giornata del Ringraziamento
Prima Giornata mondiale dei poveri

Pr 31,10-13.19-20.30-31
Sal 127
1Ts 5,1-6
Mt 25,14-30

(da registrazione)

«Voi, fratelli – ci saluta così la Scrittura – non siete nelle tenebre […]: voi tutti infatti siete figli della luce e figli del giorno» (1Ts 5,4-5). C’è un complimento più bello di questo?
Nel Regno di Dio, che cominciamo già a gustare qui e ora, si lavora: non è solo beatitudine e tenerezza, ma anche responsabilità. Va ricordato nella Giornata del Ringraziamento. Tuttavia, sebbene il lavoro sia eredità amara del peccato originale, in qualche modo esso ci rende simili a Dio, perché, all’indomani della creazione, il Signore ha collocato l’uomo come suo impresario, affidandogli il compito di farla sviluppare e crescere.
Dio ha fatto il mondo e lo regge con la sua Provvidenza. Nella Genesi Dio viene raffigurato con le abili mani del vasaio che prende la creta dalla terra e con essa plasma l’uomo: è il primo mestiere col quale Dio viene narrato nelle Sacre Scritture. Inoltre, Dio viene immaginato come una levatrice che, come avveniva al tempo dello scrittore della Genesi, soffia nelle narici del neonato affinché cominci a respirare. Oppure Dio viene ritratto come abile chirurgo che dal torace di Adamo espianta la costola con cui viene creata la donna. Dio viene descritto addirittura come un sarto che prepara il vestito per Eva e Adamo dopo il peccato originale. Queste sono tutte “le cause” del lavoro del Signore, lavoro svolto, nel suo caso, in totale gratuità.
Nella Cattedrale della mia città di origine, Ferrara, vi erano due porte: una centrale con la rappresentazione di Gesù giudice e una laterale adornata di bassorilievi, ora custoditi nel Museo della Cattedrale (tale porta ora non c’è più dopo il rifacimento settecentesco). Nelle formelle che rivestivano la porta laterale non erano rappresentate figure di santi, né di eroi della mitologia classica, come si potrebbe immaginare, bensì erano raffigurati i mestieri, i lavori del luogo: un grande ammaestramento.
Una curiosità: perché nel racconto evangelico Gesù condanna il servo che ha sotterrato il talento in una buca? Perché quell’uomo lascia a riposo la creazione. Lui voleva restituire integro ciò che aveva ricevuto, non l’ha trafficato per paura del suo padrone.
Qual è l’opposto dell’operosità? L’accidia, uno dei sette vizi capitali. L’accidia è un vizio grave, è il vizio di chi non sa assumersi le proprie responsabilità. L’accidia può avere due forme: quella che intendiamo solitamente, cioè la pigrizia, l’indolenza, la svogliatezza, l’ozio, l’inerzia e poi la forma dell’attivismo, cioè di chi lavora per stordimento, come alibi per distogliersi dai doveri principali, dalla cura dei rapporti.
Dopo la meditazione di questa pagina di Vangelo sottolineo tre pensieri. Il primo: tutti i lavori sono importanti e sacri (comprenderei anche i lavori domestici, il servizio per i vicini di casa, il servizio in parrocchia, nel volontariato). Il lavoro è la via normale per il proprio sostentamento, ma anche per realizzarsi. Un secondo pensiero: il lavoro è sempre per gli altri: anche quando si lavora per sé in fondo si fa un servizio agli altri. Terzo pensiero: il più trascurato fra tutti i lavori è la cura dell’anima (non c’è neppure nelle dodici formelle della Cattedrale di Ferrara!).
Quando l’attore comico Benigni interpretò i dieci comandamenti disse che l’anima, a volte, rimane indietro e si può vederla mentre rincorre il corpo. Effettivamente possiamo vivere questa dissociazione. Allora invito a prendersi cura dell’anima, ad esempio facendo in modo che il lavoro più materiale sia pervaso dall’impegno di lavorare per amore.
Per questo lavoro sull’anima non bastano delle “promesse da marinaio”, occorre la pratica della vigilanza, l’ascolto attento, la preghiera.
La parabola dei talenti, dunque, ci insegna che Dio ha stima di noi, conosce le nostre possibilità, non pretende che siamo perfetti, ma chiede di non sprecare i suoi doni.
Questa domenica ci viene mostrata – nella Prima Lettura – anche la figura di una donna intraprendente e laboriosa. Mentre domenica scorsa sembrava che il Signore invitasse alla prudenza, oggi il Signore condanna la prudenza del servo che non si dà da fare.
Penso che si possa guarire dall’accidia recuperando un rapporto di fiducia con il Signore: «Signore, metti nelle mie mani i tuoi doni e io mi impegno a farli fruttificare».
In questa domenica in cui ricordiamo i poveri, il cuore dev’essere aperto ai nostri fratelli. Certo, la povertà è da combattere perché è frutto di ingiustizia, di male, ma guardando il volto di chi è in difficoltà ci accorgiamo che la povertà è un ammaestramento, un invito a condividere e a non essere troppo attaccati ai beni della terra. Sia lodato Gesù Cristo.

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale nella parrocchia di Domagnano

Sap 6,12-16
Sal 62
1Ts 4,13-18
Mt 25,1-13

(da registrazione)

Dopo aver trascorso una settimana intera con voi, l’immagine che mi raffigura Domagnano è quella dell’alveare. C’è tutto un ronzio laborioso attorno alla parrocchia e alla piazza davanti alla chiesa, dove “si viene e si va”: si va al lavoro, si va alle proprie case e si torna, ci si riunisce per circostanze formative – la formazione mi pare sia molto in evidenza – ci si incontra per momenti di preghiera, non solo per la Messa domenicale. Ho anche avuto la gioia di partecipare a qualche Eucaristia feriale e ho visto persone, ho visto solidarietà per il dolore degli altri quando ricordano uno dei loro cari defunti. Ci sono anche incontri di tipo organizzativo; ad esempio, mentre siamo riuniti attorno all’agape eucaristica c’è chi sta preparando il momento conviviale. Dunque c’è vita; usando le parole di Virgilio quando descrive l’alveare, direi: Fervet opus. Suppongo che venga fatto del buon miele. Se ne accorgono anche i genitori che, nonostante il venir meno delle scorte del credere, mandano i loro bambini al catechismo.
Se stiamo alla liturgia di oggi l’immagine è piuttosto quella dell’olio. Vediamo dieci ragazze nella notte con le lampade accese. È una metafora abbastanza eloquente: quelle ragazze siamo tutti noi, è la comunità. Si trovano nella notte: stiamo attraversando momenti difficili. Lo dico per la nostra appartenenza alla società civile europea, mondiale, ma anche sammarinese. Dieci ragazze nella notte con lampade che minacciano di spegnersi. E sappiamo quanto è importante vederci nella notte, perché non si va da nessuna parte quando è buio totale. Non mancano le luci, ma occorre l’olio per alimentare la fiamma. Se manca l’olio anche la luce si spegne. Allora non si può più andare incontro allo sposo e non si può essere di aiuto a chi cammina insieme con noi. L’idea dell’olio mi proviene anche dai giri fatti insieme a don Marco per la campagna. Abbiamo visto qualcuno che raccoglieva le olive… L’olio è un’immagine che torna tantissime volte nell’Antico Testamento e la incontriamo anche nel Nuovo. Ad esempio, l’olio veniva usato dai patriarchi per ungere le grandi pietre che venivano innalzate per ricordare il luogo dove si era sperimentata una presenza misteriosa di Dio. L’olio era indispensabile per le lampade che ardevano per il culto: fiamma che arde nel luogo dove Jahvè ha posto la sua presenza. L’olio veniva versato sul capo di Aronne, su quello dei sacerdoti; veniva adoperato per ungere gli arredi sacri, l’arca dell’Alleanza, il candelabro, l’offerta e anche i re venivano consacrati con l’olio. Il Salmo 103 dice: «L’olio fa brillare il volto». Anche i vostri volti, siete belle persone, perché l’unzione crismale che avete ricevuta, che vi ha consacrato, che vi ha messo in cuore grandi ideali, rende anche le nostre facce attraenti, spero anche gioiose. Quando usciamo di chiesa dovremmo essere segni di questa gioia, di questo olio che fa brillare il volto. Allo stesso modo, il Salmo 91 afferma: «Tu mi hai dato, o Signore, la forza di un bufalo e mi hai cosparso di olio splendente». Ma l’olio è simbolo anche di qualcosa che si mette insieme a caro prezzo, perché le olive devono passare attraverso il torchio per essere spremute. Di chi parlo in questo momento se non di Gesù? Lo ricordate nel Getsemani? La parola Getsemani significa “orto del frantoio”, perché in quel giardino c’è un grande frantoio, forse condominiale, e proprio lì Gesù, come un’oliva, viene spremuto e anticipa tutta la sua Passione. Dice l’evangelista che sudò sangue (cfr. Lc 22,44), per il dolore intenso che stava patendo. Dunque l’olio, simbolo del culto a Dio, ma simbolo anche di ciò che fa brillare il volto e simbolo della carità, passa attraverso l’azione del frantoio. Mi piace tantissimo una citazione di Sant’Agostino, che dice: «Il prezzo di una partita di frumento? Il tuo denaro. Il prezzo di una proprietà terriera? Il tuo argento. Il prezzo di una gemma preziosa? Il tuo oro. E il prezzo della carità? Te stesso. Ciò che è più prezioso è anche più caro… Cerchi come acquistare un fondo, un gioiello, un giumento? Metti le mani in tasca. Ma se vuoi la carità, cerca te stesso, trova te stesso» (Sermo XXXIV,4.7). Perché è te stesso che devi dare.
Torniamo alle dieci ragazze nella notte. Siamo noi, a volte un po’ stolti e a volte un po’ saggi. Quali sono le nostre lampade? Parto da quello che vedo nella vostra parrocchia. La lampada del Santissimo Sacramento che rimarrà accesa accanto al tabernacolo, anche dopo la Santa Messa, quando spegneremo le luci sull’altare. È l’olio della preghiera. Vi invito a perseverare nella preghiera, ad esempio fermandovi per un attimo di adorazione in chiesa quando passate di qui per andare al bar, o per fare due chiacchiere oppure per accompagnare i bambini… Il Signore è presente tra le nostre case. Abbiamo l’olio della preghiera anche nelle nostre case. Facendo visita agli anziani e agli ammalati, che non riescono a venire in chiesa, mi sono reso conto di quanta preghiera fanno. Noi siamo qui, andiamo a lavorare, abbiamo tanti impegni, loro pregano. Ho chiesto – so che i ministri straordinari della Comunione lo fanno sempre – di invitarli a pregare per tutti, a tenere le mani alzate verso il Signore: l’olio della preghiera. Poi vedo un grande cero che arde davanti a noi di fianco all’Evangeliario, che abbiamo esposto la sera di inizio della visita pastorale. Luce che brilla nella notte è la Bibbia, la Parola di Dio. Se la leggiamo e la viviamo ci trasforma in un altro Gesù e diventa luce per i nostri passi. Nel Concilio Vaticano II abbiamo riscoperto questo modo di dire: la duplice mensa, la mensa della Parola e la mensa dell’Eucaristia (cfr. DV 21). C’è un’altra luce settiforme (sono sette lampade): la lampada della testimonianza, perché noi, come cristiani, abbiamo il dovere di tener viva la luce nella notte, per esempio abbiamo responsabilità sociali, produttive, economiche, educative… Ho incontrato molti bambini nelle scuole e ho potuto apprezzare una grande cura per l’istruzione, soprattutto nelle scuole dell’infanzia. Poi sono stato accompagnato in tantissime attività produttive e devo anche ringraziare il capitano di Castello che mi ha voluto invitare. In confidenza gli ho chiesto che cosa spinge ad offrire la propria disponibilità per un tale servizio. È stato bellissimo sentire con quale coscienza lavorano queste persone, indipendentemente dalle opinioni politiche legittime, nella ricerca del bene comune. Sarebbe più comodo stare alla finestra e criticare. Siamo stati anche ad incontrare i partiti politici che hanno la sede nel vostro territorio. Sono stati incontri chiari: «Dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio». Ma non deve mancare la testimonianza dei cristiani. Poi la democrazia ha le sue regole. Ad esempio, a livello di nazione, anche se piccola, saremo invitati tra non molto ad esprimere dei pareri su tanti aspetti. Il problema etico principale in questo periodo è quello della salvaguardia della vita dal suo concepimento sino alla fine. Non basta dire «io non farei mai…», dobbiamo dire come pensiamo la società, dobbiamo osare… Poi si cammina insieme agli altri. Le sette lampade sono una sola lampada settiforme, perché l’olio che si metteva nella Menorah veniva alimentato da un’unica coppa. La lampada viene raffigurata a volte anche come rami di ulivo e prende sette forme: i doni dello Spirito Santo.
Concludo facendovi una duplice consegna: continuate ad essere un alveare dove si vive insieme, dove si programma insieme, dove ci si vuole bene; non spegnete le luci, mettete olio: la lampada della Parola, la lampada dell’Eucaristia, la lampada della carità e della testimonianza. Sia lodato Gesù Cristo.