Omelia nella S.Messa in ricordo di don Giussani

San Marino (chiesa di San Francesco), 25 febbraio 2018

II domenica di Quaresima

Gen 22,1-2.9.10-13.15-18
Sal 115
Rm 8,31-34
Mc 9,2-10

Celebriamo quest’Eucaristia in memoria di don Giussani, come ringraziamento a Dio per il grande carisma che ha donato a lui e, attraverso lui, a tutta la Chiesa. Molti dei presenti possono testimoniare come l’incontro con lui abbia avuto il significato di una immensa dilatazione della vita, dell’intelligenza e del cuore.
La liturgia, per ben due volte nel corso dell’anno liturgico, ci mette di fronte al mistero della Trasfigurazione del Signore: il 6 agosto e la seconda domenica di Quaresima. Inoltre, l’avvenimento è riferito da tutti i Sinottici e nella Lettera di Pietro. In questo modo viene sottolineata l’importanza di questo evento per Gesù, per i suoi apostoli e per ciascuno di noi.
Come Pietro, Giacomo e Giovanni lasciamo che il Signore ci chiami a lui, «soli in disparte». Soprattutto in questo tempo di Quaresima, cerchiamo di fare in modo che non manchi mai lo spazio per la preghiera. Gesù fu molto radicale su molti aspetti: nei confronti del denaro, della testimonianza, del modo di vivere la sessualità, ecc. Ha esigito una radicalità anche per la preghiera. Come vescovo mi assumo tutta la responsabilità e la fierezza di aver indicato a alla Diocesi, attraverso la Lettera pasquale, l’urgenza della preghiera. Se c’è poca santità in noi, se la nostra società fatica a progredire è perché non si domanda. Mentre la grazia viva è dono di Dio, esclusivamente suo, senza nostro concorso, la perseveranza viene dalla nostra preghiera. «Senza di me non potete fare nulla» (Gv 15,5), dice il Signore.
Di fronte al racconto della Trasfigurazione secondo Marco vorrei fare tre sottolineature.

    a) Voi certamente conoscete il contesto (cap. 8). C’è la dichiarazione franca di Pietro sulla messianicità di Gesù, seguita dalla precisazione circa tale messianicità, fatta da Gesù: «Il Messia dovrà soffrire» (v.31). Messia sì, ma… Messia sofferente. Lo sappia chi vuole seguirlo (vv. 34-38). L’identità messianica di Gesù è costantemente protetta (29 volte nei Sinottici, 12 volte in Marco) dall’ingiunzione di conservare il segreto; perfino a Satana, dopo l’esorcismo che è avvenuto, Gesù chiede che non divulghi che lui è il Signore. L’ingiunzione rigorosa del segreto contrasta con l’episodio della Trasfigurazione: questa volta il segreto è svelato, nonostante poi l’ennesima proibizione di divulgare l’esperienza (v.9). Il segreto messianico è, in questo contesto, la chiave interpretativa del racconto: la Trasfigurazione è uno spiraglio aperto per i discepoli sul destino finale del Cristo Risorto. Solo a Pasqua, quando il Figlio dell’uomo «sarà risorto da morte» (v.9), essi comprenderanno il paradosso del Messia glorioso sofferente e se ne faranno annunciatori in tutto il mondo.
    b) Marco, per descrivere la Trasfigurazione, attinge abbondantemente al linguaggio veterotestamentario e all’esperienza di Israele con Dio (la menzione dell’alto monte, la nube, la notte, le vesti sfolgoranti, la presenza di Mosè ed Elia, la voce, il timore, non tanto la paura, ma l’atteggiamento di chi è cosciente di essere davanti alla maestà divina) per aprire varchi sull’origine divina del messianismo di Gesù: egli è veramente il “Figlio di Dio, l’amato” (v. 7), che tuttavia porterà a termine il mandato del Padre attraverso la sconvolgente via della croce (cfr. Rm 8,31-34). Non vi è altra salvezza se non quella che passa attraverso lo “scandalo” della croce, del Dio Crocifisso. Questo è l’insegnamento fondamentale di Marco. Alla fine del suo Vangelo sarà un centurione romano a fare la grande professione di fede: «Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!» (Mc 15,39). Chi prende per mano l’evangelista Marco e fa tutto l’itinerario da catecumeno dovrà arrivare a riconoscere il Signore non tanto nella Trasfigurazione o nella moltiplicazione dei pani o nei prodigi, ma quando sarà innalzato da terra crocifisso.
    c) Ancora un’ultima sottolineatura di Marco. Pietro – ma in Pietro siamo tutti noi, la nostra comunità, la Chiesa di oggi – crede che quel tempo finale e glorioso sia giunto (v.5). Marco, in tono comprensivo e un po’ ironico mostra che sta prendendo il solito abbaglio! («Non sapeva quello che diceva», v.6). Pietro, come tanti contemporanei, era imbevuto di attese messianiche (l’Apocalittica attendeva per gli ultimi tempi la trasformazione dei giusti in uno splendore ultraterreno e sfolgorante).

Un monito: la comunità cristiana non deve “sedersi”; ogni trionfalismo è quasi sempre un “granchio”. Alla comunità non è dato che «Gesù solo» (v.8) e il suo Vangelo («ascoltatelo», v.7). Ritrovo qui una delle prospettive dell’insegnamento e dell’esperienza di don Giussani. È soltanto a Cristo che la comunità deve saldamente attaccarsi. È solo la sua parola che deve dirigere ogni paura e ogni preoccupazione. Solo così la comunità sarà immunizzata dalle ricorrenti tentazioni di voltare le spalle alla croce e lasciarsi abbagliare da compiacenti, ma estremamente equivoci, sogni di gloria.

Mi piace applicare questo messaggio evangelico anche alle situazioni concrete che appartengono al nostro quotidiano. Mi sono appuntato due piccole esperienze personali in cui mi capita di vivere la Trasfigurazione in contesti che non mi aspetto. Accade nell’incontro con le persone. A volte vedo rispetto, cortesia, buona educazione, ma ci sono momenti in cui vedo le persone con occhi nuovi, diversi, ad esempio nella comunicazione di un dolore, in un dialogo schietto… Lasciamoci sorprendere dalla persona che abbiamo di fronte, impariamo a coglierne tutta la ricchezza.
Un’altra esperienza proviene dal mio guardarmi allo specchio: vedo le rughe, le stanchezze… Ma qual è la bellezza vera? La vedo in una vita spesa, offerta, consumata. Prego perché questa settimana sappiamo vivere la Trasfigurazione, ad esempio offrendo un sorriso al posto del broncio e mettendo in rilievo la gioia nella fatica del lavoro. È l’amore che illumina, trasfigura, trasforma tutta la nostra vita.

È bello essere cristiani perché è bello essere di Cristo!

Messaggio del Vescovo Andrea per l’inizio della Quaresima

Rivolgo a tutti l’augurio per questo tempo speciale che è la Quaresima. Vorrei rivolgermi anzitutto agli amici di altra cultura e di altra convinzione per informarli, doverosamente e fraternamente, di quanto si preparano a vivere i cristiani. Sono certo di incontrare la loro cortesia.
Pensiamo a qualcosa di bello. Ad esempio, alla primavera: la natura, in questi giorni, si risveglia; le giornate si allungano, il sole comincia a scaldare, la terra si ricopre di verde, spuntano i primi fiori, c’è profumo nell’aria. Pensiamo al giorno delle nozze, quando ormai lo sposo è impaziente di iniziare una nuova avventura con la persona che ama. Pensiamo a qualcosa che sorprende, che riempie di gioia, valorizza tutto il positivo che è in noi e ci fa dire: «Ci sto!». Sono tutte esperienze di vita nuova: i cristiani dicono “di risurrezione”.
Così compreso il tempo della Quaresima è qualcosa di molto bello.
I cristiani chiamano Quaresima – dal latino quadragesima – i quaranta giorni che vanno dal Mercoledì delle Ceneri alla Pasqua; un periodo indispensabile per accogliere l’annuncio gioioso della risurrezione di Cristo, un avvenimento che non riguarda lui soltanto. La risurrezione, infatti, è potenza divina che investe il cosmo, riguarda tutti e tutti da vicino, coinvolti nella stessa esperienza di morte e risurrezione, di cambiamento e di novità. I cristiani sono proiettati verso la Veglia di Pasqua e l’attendono con ardore. In quella notte, la notte di sabato 31 marzo, dal fonte battesimale scaturisce la luce che rende nuovi. Col Battesimo viene sigillata indelebilmente l’appartenenza al Risorto. È un’appartenenza profonda, che radica l’essere in Cristo. È bello essere cristiani perché è bello essere di Cristo!
Fra gli impegni della Quaresima la Diocesi ne segnala tre in particolare.
La solidarietà fraterna: «Non è forse questo [il digiuno]: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne?» (Is 58,6-7).
In particolare la Diocesi si mobilita per contribuire alla realizzazione di alcune opere necessarie alla missione in Mozambico (parrocchia Santa Cruz, Nampula), dove opera un missionario di Novafeltria, padre Franco Antonini.
Conoscere meglio le Sacre Scritture: viene proposto un più forte impegno di formazione; in pratica, dedicare tempo e risorse per meditare la Parola di Dio. In alcune parrocchie, come nei nostri monasteri, spuntano vere e proprie “scuole della Parola”. La Pastorale giovanile riserva ai ragazzi un week end per imparare a “pregare la Parola” e chissà quante altre iniziative sono in opera.
La preghiera: in questi giorni viene recapitata alle famiglie la mia lettera pasquale che ha come tema la preghiera. Sto con il Cardinale Martini che dedicò i suoi primi programmi pastorali a questi temi: “La dimensione contemplativa della vita” e “In principio la Parola”. La preghiera cristiana è ben altro che la recita di formule portafortuna. La preghiera è un rapporto da figlio a padre, da amico ad amico, da sposa a sposo. La preghiera è ardente desiderio, attesa di un “oltre”, ricerca di un volto.
Pregare è anche prendere una decisione pratica: ritagliare il tempo necessario, puntare la sveglia, spegnere la tv, sostare in chiesa, perché tutta la giornata ne risulta irradiata e diventi preghiera.

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

 

Omelia nella S. Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di San Marino Città

San Marino Città, 28 gennaio 2018

IV domenica del Tempo Ordinario

Dt 18,15-20
Sal 94
1Cor 7,32-35
Mc 1,21-28

(da registrazione)

1.
Incomincio salutando i ragazzi che stanno per ricevere il sacramento della Cresima. Può succedere – statisticamente accade – che, quando tornerete al posto dopo aver ricevuto la Cresima, i vostri familiari e alcuni amici provino, nei vostri confronti, una forma di soggezione, perché sentiranno che voi non appartenete più soltanto a loro. Avvertiranno che qualcosa di particolare è accaduto in voi. Potrà succedere anche che, durante la liturgia, portiate la mano alla fronte e sentiamo l’umido lasciato dall’olio mescolato col profumo, il crisma benedetto: sappiate che è il segno di un bacio, il bacio di Gesù, un bacio che non si cancellerà mai più, qualsiasi scelta o appartenenza viviate in futuro.

2.
Intelligenza e cuore mi confermano che la Visita Pastorale non è stata un adempimento burocratico e, men che meno, una noiosa ispezione.
La parola che indica la mia vocazione – sono vescovo – significa etimologicamente “sorvegliare, vegliare da sopra”, cioè “prendersi cura, proteggere, avvolgere di attenzione”. Ecco chi è il vescovo.
Di che cosa si prende cura il vescovo? Anzitutto dell’integrità della fede di una comunità: che nessun insegnamento di Gesù vada perduto. Poi si prende cura dell’unità fra i membri di una parrocchia-famiglia. Attenzione: unità non è uniformità. Persino i conflitti sono possibili, ma si impara a gestirli nella carità. Si prende cura della santità di ciascuno dei membri della Chiesa, assicurando i mezzi di santificazione (con la cura della liturgia e con la disponibilità dei sacerdoti per il sacramento della Confessione e per la direzione spirituale). Infine, si prende cura che la comunità – come una sposa – cammini piena di entusiasmo verso il suo sposo, Gesù Cristo, che non perda mai la tensione verso di lui, perché la Chiesa deve indicare il Cielo, pur occupandosi di tante cose della terra (cfr. Ef 1,10). Ad esempio, il campanile posto accanto alla chiesa è come una freccia che indica il Cielo.

3.
Ho abitato tra voi con questi pensieri. Che cosa ho visto? Che cosa ho vissuto?
Ecco una delle cose più belle che porto via con me. Ho fatto famiglia con i vostri preti. Ho dormito e mangiato nella loro casa. Mi sono reso conto delle loro fatiche. Non mi sono scandalizzato affatto per le tensioni (accadono in ogni famiglia!). Insieme abbiamo riso e scherzato. Abbiamo lavorato. Abbiamo pregato, la mattina, quando era ancora buio, davanti al SS. Sacramento. Mi hanno accolto e voluto bene. Penso che san Giovanni Bosco sia fiero di questi suoi salesiani!
Dico il mio grazie per avermi mostrato la parrocchia per quello che è, senza finzioni, e per avermi fatto incontrare tante persone. A voi dico: «Avvantaggiatevi della loro presenza; di ognuno cogliete la singolarità».

4.
Mi sono reso conto delle difficoltà legate alla vastità e alla configurazione geografica della parrocchia. La prima volta che sono venuto da solo ho impiegato 40 minuti da Santa Mustiola a qui. Mi sono perso. Menomale che don Roberto mi ha rincorso e riaccompagnato alla chiesa. Questa dispersione del territorio non aiuta; si fatica a conoscersi tutti e a sentirsi comunità. Oltre alla chiesa parrocchiale, poi, ci sono altre cappelle, con gruppi fervorosi di fedeli. I sacerdoti vanno a celebrare l’Eucaristia e fanno il possibile per tenere il collegamento, perché queste comunità sono parte dell’unica parrocchia, non entità “solitarie”.

5.
Nell’assetto parrocchiale accade una cosa singolare: sono i bambini, i ragazzi e i giovani che attirano e fanno parrocchia. Ho visto tutti i giorni il piazzale della chiesa pieno di automobili: erano genitori e nonni che accompagnavano bambini e ragazzi all’oratorio. Chi di loro aveva tempo osava entrare. Li ho visti contenti, contagiati da un clima bello e gioioso. Ho ripensato ad una conversazione tenuta da un professore al Museo etnografico di Bolzano. Quel professore aveva condotto me e i miei amici a vedere la celebre mummia del Similau, Ötzi, un uomo di 8 mila anni fa trovato tra i ghiacci in alta quota. Dopo aver descritto il territorio complesso del Trentino-Alto Adige, il professore ci chiese: «Secondo voi, chi ha scoperto i valichi alpini? Chi ha tracciato i sentieri più antichi e strategici? Chi, ad esempio, ha aperto per primo il Brennero?». Ha concluso: «Sono stati i camosci, i caprioli, i cervi e tutti gli altri animali inseguiti dagli antichi cacciatori, come Ötzi». Le prede, inseguite, sapevano sfuggire evitando burroni, aggirando ostacoli, scansando spuntoni di roccia, cercando traiettorie più rapide. Così le prede hanno insegnato ai cacciatori sentieri e passaggi. Vorrei dire a san Giovanni Bosco: «Caro don Bosco, hai vinto la scommessa. Avevi ragione: sono i più piccoli ad aprire il cammino e a favorire quello degli adulti, sono i ragazzi dell’oratorio, gli scout, i ragazzi del catechismo, i vari gruppi di giovani, che ci conducono alla parrocchia e fanno della parrocchia un luogo di attrazione, di incontro e di amicizia per tutti». Lasciamoci attrarre, andiamo a Gesù, il Signore! Che il carisma di don Bosco sia custodito, anche al di là di questo o quel sacerdote…

6.
Il territorio della parrocchia abbraccia anche il centro di San Marino con le sue istituzioni politiche, amministrative, finanziarie, educative. Ho fatto visita a molte istituzioni. Per me è stato a motivo, anzitutto, di cortesia. Non sono andato per chiedere privilegi, ma semplicemente per assicurare la volontà di collaborazione a vantaggio del bene comune. Sono andato per dichiarare l’impegno dei cristiani per la vita, per la famiglia, per l’educazione della gioventù. E se una cosa ho chiesto con forza e con soavità – una sola – è stata quella di avere libertà di parlare di Gesù e del suo Vangelo.
Ho potuto andare in tutti i luoghi dell’istruzione e della formazione, dagli asili nido – che, insieme alle altre scuole d’infanzia, sono un fiore all’occhiello di San Marino – all’università, dove sono capitato proprio nel giorno delle lauree.
Dove sono stato ho messo in rilievo due grandi lezioni di etica politica che ho apprezzato nella nostra Repubblica (speriamo non siano solo teoria). La prima: il potere come servizio. Il potere consegnato ai Capitani Reggenti, dopo sei mesi viene respinto e i due Capitani Reggenti tornano comuni cittadini, riprendendo il loro lavoro precedente. Il potere non appartiene alle singole persone, perché migliori delle altre. Essi hanno semplicemente svolto un servizio! Seconda lezione: il giorno del passaggio dei poteri fra la coppia dei Capitani Reggenti che scende e quella che sale sono invitati alla cerimonia gli ambasciatori di più di cento Paesi. Quel giorno si realizza nella Repubblica un sogno, un bozzetto del “mondo unito”. Fra le nazioni, la piccola Repubblica è un concreto segno di pace, di libertà, di spiritualità. E che cos’è questo se non civiltà?
Allora faccio un appello a tutti voi, ai giovani specialmente: non state alla finestra a guardare e a criticare; partecipate, assumete responsabilità, studiate le cose che riguardano la società (non sono soltanto economia, finanza… ci sono tanti aspetti della vita che non vanno trascurati).

7.
Poi do un messaggio ai bambini e ai ragazzi: conoscete le volpi di Sansone? Sansone voleva mettere a ferro e a fuoco i Filistei e ha escogitato un trucco. Ha legato delle torce alle code delle volpi, ne ha radunate molte sotto un cesto e poi ha acceso il fuoco. Le volpi sono scappate rapidamente e si sono tuffate nei campi di grano dei Filistei: si è creato un incendio globale. A quel punto i Filistei si sono arresi, hanno alzato bandiera bianca (cfr. Gdc 15,4-5). Non vi insegno ad essere piromani, ma ad incendiare d’amore la città, la scuola, la palestra, il campo di calcio, ecc. Potete mettere amore fra papà e mamma, fra gli insegnanti, invitare tanti vostri amici a venire in parrocchia ad incontrare Gesù. Non dite mai: «Siamo troppo piccoli!». Non siete troppo piccoli per amare, per essere apostoli.
Il mio cuore va anche agli adulti che ho conosciuto in questi giorni. In questa parrocchia si vive un’esperienza molto interessante. Ho visto gli adulti lavorare insieme con i giovani, in una reciproca inclusione e collaborazione. L’ho vista in tante realtà: penso agli ex- allievi, ai cooperatori, ai ragazzi che al venerdì si radunano per giocare insieme…
Coraggio, andiamo avanti! Come ci ha insegnato la pagina del Vangelo di oggi: Gesù è grande, attrae, vince il male. Addirittura, ha stanato non il male che c’era in piazza – macroscopico – ma quello nel cuore di qualcuno che era in sinagoga (la sinagoga era la parrocchia degli Ebrei). Ha scovato il male che c’è a volte nei nostri cuori. «Signore, liberami dagli spiriti cattivi e fa’ che anch’io possa godere del tuo abbraccio». Così sia!

Omelia nel Natale del Signore – Messa della Notte

San Leo (Cattedrale), 25 dicembre 2018

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

(da registrazione)

Stiamo cantando le meraviglie del Signore: il Signore è grande. Ma il segno che ci è dato è quello di un bimbo. Gesù nasce in un clima di tensione, di disagio, di povertà. Nasce al tempo del censimento che, allora, significava umiliazione nazionale, inasprimento fiscale (il censimento era fatto per riscuotere le tasse), lunghi viaggi (bisognava andare nei luoghi della propria origine), scarsità di alloggi (tanto che Giuseppe è costretto a portare Maria a partorire in una stalla). I primi a riconoscerlo sono rozzi pecorai, malvisti dalla società di allora, inabili persino a testimoniare. Vien detto loro che troveranno il Messia nella forma di un fragile neonato, che tra l’altro diverrà profugo. Perché questi accenti?
Il Natale confligge con tante situazioni. Anzitutto il Natale cristiano confligge con il Natale comune: cenoni, regali, viaggi, ecc. Esso non ha nulla a che fare con il Natale di Gesù. È un momento di euforia dopata per dimenticare la crisi. «Buon Natale» – si dice –, auguri a raffica. Sia ben chiaro: non ho nulla contro le luci e contro i pranzi famigliari. Il problema è che si festeggia senza il festeggiato. Questo è il primo motivo di conflitto.
Poi, il Natale di Gesù confligge con una certa forma di religiosità, precisamente quella che da Dio si aspetta fortuna, salute, successo. A questi il Bambino di Betlemme dice: «Quelle cose chiedetele ai vostri dei, non a me. Come potrei concedervi queste cose? Nasco in una stalla, morirò su una croce». Qualcuno di voi mi dice: «Ma allora sei un Dio da poco, un Dio inutile: che ce ne facciamo di te, se non sai darci le cose che contano e che ci stanno a cuore?». La prima risposta è che Gesù non è Babbo Natale. La seconda la lascio dire a Pierre Claverie, uno dei monaci di Tibhirine, in Algeria, ucciso dai fondamentalisti e, insieme agli altri compagni, beatificato il 7 dicembre scorso. A chi gli domandava: «Perché rimanete in Algeria? Per fare che cosa?», lui rispondeva: «Noi siamo qui a causa del Messia crocifisso. Non abbiamo nessun interesse da salvare, nessuna influenza da mantenere, nessun potere e nessun privilegio da difendere. Siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, asciugandogli la fronte. È, in fondo, la risposta del Bambino di Betlemme. «Non servo a nulla – dite voi – ma sappiate che quando vivete momenti di tensione, siete bastonati dalla vita, vi sentite in uno stato di confusione, io vi sono vicino, sono l’Emmanuele che vi è accanto e vi tiene per mano». Inoltre, il Natale confligge anche con una teologia sbagliata dell’incarnazione. A volte si dice: «La Parola di Dio deve essere presa là dove si trova e incarnata nella realtà della mia vita». Sforzo encomiabile, ma teologicamente scorretto, perché le cose stanno diversamente. Il Mistero del Natale ci ricorda che «tutto è stato fatto per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui» (cfr. Gv 1,3). Se crediamo che la realtà è creata dalla Parola di Dio non dobbiamo applicare un bel niente alla realtà, semmai tirar fuori dalla realtà la Parola per farla nostra. Gli antichi parlavano dei “semi del Verbo”. «Tutto è stato creato per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui». Ogni realtà, ogni cammino degli uomini, ogni cultura contiene “semi del Verbo”. Se applicare sa di sforzo, scoprire sa di stupore, di meraviglia. È Natale!
Anche quest’anno gli artisti si sbizzarriscono a fare il presepio o le tradizionali icone della Natività. Ci sono i pastori, gli animali, i piccoli borghi, i magi, il bambinello.
Alla fine della Messa si è soliti metterci davanti al presepio. Molti diranno la loro ammirazione per ciò che li colpisce di più: un villaggio lontano, una realistica riproduzione del tramonto, le mura di Gerusalemme, una finestrella illuminata, le stelle, Gesù nella mangiatoia. Voglio dirvi quel che mi piace del presepio. La prima cosa è il vedere che tutti i personaggi convergono verso la stalla della Natività. Pastori, magi, viandanti, casalinghe, pecorelle, tutti vanno verso Gesù. Persino nel presepe napoletano le tante figure, che sembrano poco interessate all’evento, sono sistemate in un movimento ascendente, quasi a spirale, che approda alla mangiatoia. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «Innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Innalzato sul legno della croce, ma, prima ancora, sul legno della culla che la prefigura. Sono sicuro che Cristo ci sta attirando tutti, ci sta interiormente seducendo. Ho fiducia che un giorno tanti torneranno, anche se non so come, quando, dove… Il mio augurio è che, dopo aver guardato il presepio, ci mettiamo tutti in cammino con i pastori, in sincero e appassionato cammino verso Gesù.
La seconda cosa che mi colpisce del presepio è la Sacra Famiglia. I pastori sono guidati dagli angeli, i magi dalla stella, ma chi porge il Bambino sono Maria e Giuseppe. Gesù non lo si incontra solo, ma in una famiglia, che lo ha accolto e custodito. Gesù lo si trova non con un percorso solitario, ma grazie ad una comunità, piccola forse, povera, con dei difetti, ma essenziale. Il mio secondo augurio, allora, è che nella nostra ricerca di Gesù non abbiamo paura a bussare alla porta non di Betlemme, ma della nostra parrocchia. Lì potremo riscoprire la necessità e la bellezza della dimensione comunitaria della fede. Andiamo insieme verso Gesù! Così sia.

Messaggio di Natale

Una sosta prolungata davanti al presepio

Perché un messaggio a Natale?
Solo per una consuetudine?
Il messaggio vuole esprimere ad alta voce un desiderio, anzi un sogno, e quando in tanti sogniamo insieme, si dice che quel sogno diventi realtà.
Ma il Natale è in se stesso messaggio: parla da solo, si impone al mondo e nel cuore, sonoro e delicato, domestico e politico, cristiano ed universale.
Ecco il messaggio: quando nasce un bambino è il mondo che rinasce e respira con lui per la prima volta. C’è una parola che sostiene la speranza dell’umanità: «Ci è nato un bambino». Ogni nascita è una tregua: un nuovo sguardo sul mondo, ahimè, spesso in lotta.
Da sempre gli uomini indagano sul mistero che li avvolge. La scienza ha aperto orizzonti, squarci sull’infinito. Già gli antichi si chiedevano chi avesse fatto il cielo, il sole e la luna. Gli Egizi si domandavano che cosa ci aspettasse dopo la morte. I Babilonesi studiavano le stelle (sono diventati i primi astronomi) e che dire dei filosofi dell’antica Grecia?
La storia dell’umanità scorre parallela alla storia delle domande che l’uomo si fa a proposito di Dio: una ricerca infinita sino al grande colpo di scena. Dio, forse stanco di essere studiato come un libro, risponde a secoli e secoli di congetture. E la sua risposta non è fatta di parole, ma di un volto, il volto di un bambino!
«Quando i saggi sono al fondo della loro saggezza, gli conviene ascoltare i bambini» (Georges Bernanos).
L’umanità ha bisogno di incontrare Dio: un Dio così, che non fa paura. Lo contempliamo e ci disarma. Nel Bambino di Betlemme, Gesù, Figlio di Dio, vediamo l’infanzia da proteggere, la giovane famiglia sulla strada, l’annuncio della gioia che viene da dentro.
Sì, quel Bambino sta dalla parte della vita che nasce; di tutto si priva ma non di una famiglia. Ci sfida ad osare la gioia: c’è più gioia a dare che a ricevere!
Propongo una sosta prolungata davanti al presepio. Pur essendo indispensabili le scelte di una buona politica, il mondo più giusto e più ospitale che tutti sogniamo dipende da ciascuno di noi.
Buon Natale!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella S.Messa di apertura della Visita Pastorale nella parrocchia di San Marino Città

San Marino Città, 21 gennaio 2018

III domenica del Tempo Ordinario

1Cor 1,1-13
Mc 1,14-20

(da registrazione)

Carissimi,
sono qui per incontrarvi. Il mio primo pensiero è di prendere l’avventura di questa settimana insieme come un libro sigillato, come un rotolo chiuso consegnatomi dal Signore. Non pretendo di aprirlo, di svolgerlo, ma, prendendolo dalle mani del Signore, dico con Gesù: «Ecco, Signore, io vengo a compiere la tua volontà» (Ebr 10,7). Nella Lettera agli Ebrei si dice che Gesù è entrato “nel mondo” con queste parole: «In capite libri de me scriptum est». Chiedo ai vostri santi patroni, Pietro, Marino e Leone, e a don Bosco di essermi accanto.
Mi “smarco” subito: io non sono il Buon Pastore, il Buon Pastore è Gesù. Lui solo, per fortuna! Tuttavia, l’allegoria del Buon Pastore illumina il ministero pastorale a cui sono stato chiamato. E per di più è un’immagine, quella del Buon Pastore, che mi coinvolge: con tutti voi io sono una pecorella, ma per voi un pastore. Davanti al Signore mi basta essere chiamato per nome, Andrea, senza evocazione di ruoli ed esibizione di titoli. Amo sapere che il Signore mi conosce e avvolge la mia fragile e titubante umanità con il suo amore: questo mi basta. Come pastore a lui chiedo forza e coraggio, lungimiranza e audacia. Legittime le vostre attese nei miei confronti e nei confronti di ogni prete, ne avete il diritto! Il fatto che siate esigenti vuol dire che avete stima. E quando sbagliamo e ci sgridate, ci fa onore: significa che da questa categoria vi aspettate molto. Insieme a tutti i sacerdoti chiedo la vostra preghiera, la comprensione, ma anche la docilità e la corresponsabilità. Vorrei fare della mia povertà l’invito a guardare oltre – anche la mia povertà è una chance! –, a guardare verso il Buon Pastore. Mi viene fatto dono di provare un’appassionata tenerezza verso il mio gregge. Quattro anni fa non sapevo che esisteste e voi non sapevate che esistessi. Poi è accaduto che ci appartenessimo reciprocamente. Sento che mi appartiene anche quella parte della comunità che forse non incontrerò.
La Chiesa, fin dall’antichità, è stata definita popolo che si raduna strettamente attorno all’Eucaristia, ma anche attorno al proprio vescovo. Quella del vescovo non è soltanto una funzione rappresentativa o di presidenza. Il vescovo è successore degli apostoli; bisogna fare una distinzione rispetto ai Dodici, ma per l’imposizione delle mani il vescovo ha la grazia di essere ammesso al collegio degli apostoli. Come vivo questa cosa? Sono stupefatto per il compito che mi è affidato dal Signore; mi viene da pensare: «Ecco, come uno degli apostoli devo parlare di te, Signore Gesù, devo raccontare tutto quello che so di te, come facevano gli apostoli». I primi cristiani, innamorati di Gesù, volevano sapere tutti i particolari di lui e della sua vita, anche i più insignificanti. Cosa importava, infatti, sapere che i grossi pesci raccolti nella “pesca miracolosa” erano 153, oppure sapere che l’erba sulla quale si sono seduti coloro che hanno goduto della moltiplicazione dei pani era verde, o che la veste di Gesù era inconsutile… per l’amore nulla è banale. Ma, soprattutto, gli apostoli han detto cose del cuore: che cosa pensava Gesù, qual era la sua ansia, qual era la sua intimità col Padre, com’era commosso di fronte alle nostre sofferenze.
Il Vescovo va un po’ in crisi pensando a che cosa dire agli amici di una parrocchia di città: «Gli dico le cose che ho imparato a scuola? Un po’ sì, servono anche quelle. Gli devo dire qualche progetto? Certo. Ma soprattutto loro vogliono sapere com’è il mio incontro con Gesù, qualcosa di inedito…». Non aggiungo niente – guai se lo facessi – alla Divina Rivelazione, però racconterò qualcosa di vissuto su Gesù. Questo mi interroga personalmente: «Io convivo davvero con Gesù? Sì, l’ho incontrato, ma dimoro con lui? Abito con lui? C’è qualcosa di nuovo nella mia convivenza con lui da spartire con i miei fratelli e con le mie sorelle?». Queste le domande che affollano la mente di un vescovo.
La Visita Pastorale mobilita anche voi, perché vi impone una riflessione, chiedendovi: «Che cosa ci sta a fare la nostra parrocchia al centro di San Marino? Qual è il nostro compito, la nostra mission? Che cosa ci sembra sia più necessario dire, testimoniare…». Sotto la spinta della Visita Pastorale la vostra comunità fa come – per così dire – un “tagliando”. Ai sacerdoti è pervenuto un questionario sul quale coinvolgere i Consigli pastorale e degli affari economici, proprio perché tutta la comunità faccia questa riflessione ed esca da questa settimana rincuorata e col desiderio di abitare la città con la gioia del Vangelo.
Il Vangelo di questa domenica è molto ricco di contenuti. Viene in ballo certamente un’urgenza che metterei in cima: la nostra formazione. C’è l’impianto catechistico che riguarda l’iniziazione cristiana da rinnovare, ci sono i giovani da riagganciare, ma ancora più necessario è ripartire dagli adulti.
San Marino è uno stato tra le nazioni, conosciuto e apprezzato, pertanto ha delle responsabilità di società, di politica, sulla famiglia. Anche per questo dobbiamo fare un passo avanti, sempre di più, nella conoscenza del Vangelo.
Auguri a tutti voi e buona settimana!

Omelia nella S.Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Acquaviva

Gualdicciolo, 21 gennaio 2018

Terza domenica del Tempo Ordinario

Gio 3,1-5.10
Sal 24
1Cor 7,29-31
Mc 1,14-20

(da registrazione)

Quando sono stato consacrato vescovo per tutta la formula di consacrazione, lunghissima, due diaconi mi hanno tenuto il libro dei Vangeli sulla testa. Quel gesto solenne sta a dire che tutti siamo “sotto il Vangelo”, perché tutti siamo scolari, cioè discepoli del Signore. Pertanto, la sfida più grande è riuscire a scuotere la nostra insicurezza. Per esempio, oggi dovrei palesarmi in mezzo a voi annunciando una grande notizia, una grande novità; probabilmente voi dissentireste, dicendo che in fondo è solo una cosa religiosa, che riguarda pochi. Invece, il Vangelo di Gesù è veramente una svolta nella storia, perché ci porta la promessa di una vita altra (e non solo un’altra vita, pur essendo importantissimo sapere che abbiamo davanti un’eternità di gioia). Gesù si è presentato come araldo messaggero di questa notizia straordinaria e di importanza decisiva. I suoi contemporanei lo percepivano perché vivevano un tempo di crisi, di grande difficoltà in tutto il mondo allora conosciuto. Si chiedevano: «Quando accadrà che finalmente Dio si prenderà la sua signoria su di noi, immergendoci nella sua realtà di amore, di vita, di futuro?». Se lo sono chiesti gli antichi, se lo sono chiesti al tempo di Gesù, ce lo chiediamo anche noi. E Gesù entra nella storia dicendo: «Sono io il centro della storia, convertitevi, credete al Vangelo» (cfr. Mc 1,15). La conversione di cui parla Gesù non è tanto l’impegno a migliorare il comportamento morale – quello è una conseguenza –, ma è una questione di “postura”: convertirsi significa girarsi, voltarsi verso Gesù.
Qual è la cosa principale per la nostra comunità? È l’incontro con il Signore Gesù. Si può essere beneficiati di cristianesimo, ma non avere ancora realizzato un incontro personale con lui. Un incontro personale, ma anche di popolo, insieme alla comunità in cui viviamo. Quali occasioni abbiamo per incontrare Gesù? Ci sono quelle non programmate, in cui Gesù ci incontra nel modo più insolito, più creativo. A volte si tratta di un’ispirazione, oppure dell’incontro con una persona; altre volte di un momento intenso di contemplazione, qualche volta di un momento di dolore. E in quel dolore, anziché trovare la disperazione, incontriamo il Salvatore. Poi, ci sono delle occasioni programmate e da programmare. Per esempio il momento della Messa domenicale. Forse non sempre accade qualcosa di straordinario dentro di noi. Però, se ci prepariamo e andiamo incontro a lui, il Signore si infilerà certamente in qualche angolo del nostro cuore, perché non desidera altro che darsi a noi. Inoltre – questo vale soprattutto per noi adulti – abbiamo bisogno di formazione, di catechesi tra noi adulti. Non per indottrinamento, ma per metterci con la nostra vita davanti al Vangelo. Moltiplichiamo queste occasioni! Ma ce ne sono altre. Penso ai due verbi che usa soprattutto Giovanni, l’apostolo che, insieme ad Andrea, è stato una giornata intera con Gesù, in occasione del loro primo incontro: dimorare, rimanere. Questo vale per chi ha già incontrato Gesù e vuole coltivare la comunione con lui. Penso soprattutto alla Confessione e alla direzione spirituale. La direzione spirituale è garantita dalla presenza del vostro parroco, ma ci si può rivolgere anche ad un altro sacerdote di cui si ha fiducia… Quello che è importante è che ognuno abbia il suo confessore col quale può aprirsi e sentirsi accompagnato nel cammino.
È stato proprio in un clima di gioioso incontro con la persona di Gesù che le due coppie di fratelli, Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni, hanno potuto dire: «Signore, veniamo con te». Gesù li ha chiamati una mattina sul lago; erano pescatori, impegnati nell’azienda ittica di famiglia. Gesù li ha guardati. È bello lo sguardo di Gesù! La preghiera, senza complicare troppo le cose, è quello sguardo. Santa Teresa d’Avila, grande maestra spirituale, nel cap. 26 del libro in cui racconta la sua vita spiega che cos’è la preghiera utilizzando almeno dieci volte la parola “sguardo”: «Noi guardiamo lui, lui guarda noi». In Simone, Gesù vede la roccia: Pietro. Guarda Andrea, persona modestissima, e vede in lui un preparatore delle persone all’incontro con lui. Incontra la peccatrice e vede in lei non solo i peccati, ma la sua chiamata alla santità. Quando va da Zaccheo non vede più solo un affarista, ma intuisce la generosità che si cela dentro di lui.
Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni hanno seguito Gesù e Gesù li ha fatti pescatori. Pescare significa prendere dal profondo e tirar fuori. Ognuno di noi è un pescatore: deve cavar fuori il meglio che c’è in ogni persona. In che modo? Con la stima, con l’ascolto, con l’accoglienza: in questo modo l’altro può dare il meglio di sé.
Permettetemi ora di dire una parola sul vostro santo patrono, Andrea. Compare in questo brano di Vangelo, ma anche in altri tre passaggi. In tutt’e tre troviamo una costante: Andrea è colui che porta a Gesù. Primo passaggio. Giovanni Battista vede Gesù che viene verso di lui e dice: «Ecco l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo» (Gv 1,29). Andrea segue Gesù e sta con lui tutto il giorno. Poi cerca suo fratello Simone e gli racconta: «Abbiamo trovato il Messia» e lo conduce da Gesù (Gv 1,41-42). Secondo passaggio. Molta folla seguiva il Signore sulla montagna. È ormai sera. I discepoli dicono a Gesù: «Dove compreremo del pane perché questa gente abbia da mangiare?» (Gv 6,5). E Gesù risponde: «Date loro voi da mangiare» (Lc 9,13). Filippo obietta: «Non abbiamo niente» (cfr. Gv 6,7). Invece Andrea dice: «C’è qui un ragazzo che ha cinque pani d’orzo e due pesci; ma che cosa sono per tanta gente?» (Gv 6,9). Andrea è un po’ sfiduciato, tuttavia accompagna il ragazzo da Gesù, è uno che favorisce sempre l’incontro con Gesù. Terzo passaggio. Un gruppo di greci sapienti è arrivato a Gerusalemme, forse per ricerca religiosa o per turismo. Avvicinatisi a Filippo gli rivolgono questa richiesta: «Signore, vorremmo vedere Gesù». Filippo va a dirlo ad Andrea e Andrea va da Gesù e lo informa (cfr. Gv 12,21-22). Dopo questa “anticamera”, Gesù dirà una delle parole più grandi, la sua autorivelazione: «Quando sarò innalzato dalla terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Gesù annuncia che diventerà punto di attrazione universale. Tutto questo attraverso Andrea.
Il mio messaggio, quello che vi consegno al termine della visita pastorale, è proprio questo: «Siate persone che portano a Gesù, come Andrea, il vostro patrono».

Omelia in occasione della Giornata della pace

1 gennaio 2018, San Marino (Basilica del Santo)

Nm 6, 22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

(da registrazione)

Eccellenze Capitani Reggenti, Signori Segretari di Stato,
Signori Capitani di Castello, Ambasciatrice
fratelli e sorelle,
grazie di aver accettato l’invito a trascorrere queste prime ore del nuovo anno nel raccoglimento, nella comune riflessione e nella preghiera. Auguri!
Ci fa da preziosissimo stimolo il messaggio di Papa Francesco in occasione della 51ª Giornata mondiale della pace, una giornata che si celebra ininterrottamente dal 1967, istituita dal beato Paolo VI.
Il messaggio è indirizzato a tutti gli uomini di buona volontà, perché ognuno è chiamato ad essere artefice di pace. Nello scorso anno, tra l’altro, ci eravamo soffermati su questo trinomio (tre sfumature): essere nella pace, fare la pace, essere pace. La pace comincia da noi, da me per primo. Grande pace sperimento, ad esempio, nel sacramento della Riconciliazione, perché mi sento abbracciato da Dio, fatto nuovo come un bambino. Avverto pace quando fluisce nell’anima un sentimento di benevolenza davanti al limite delle persone che mi passano accanto. È bellezza e gioia provare stima per un altro e pensarlo più buono e più sapiente di me.
La nostra Chiesa particolare di San Marino-Montefeltro si fa a sua volta messaggera e consegna le parole di papa Francesco a coloro che hanno responsabilità di governo – qui in San Marino e in Italia – e responsabilità civili, amministrative, educative, con un gesto solenne e significativo, adesso nella basilica del Santo Marino e, questa sera, nel santuario della Beata Vergine delle Grazie a Pennabilli. Il contesto è quello gioioso, pieno di speranza e di auguri del Capodanno. Per chi è credente è quello solenne che celebra Maria come Madre di Dio, madre di quel bambino che contempliamo nel presepio che è Dio, Verbo fatto uomo.
Papa Francesco nel suo messaggio esprime preoccupazione per le tensioni che lacerano l’umanità e prega per quanti soffrono a motivo delle guerre. Stupisce come nel suo messaggio, appena alla quinta riga, entri subito “in medias res” mettendoci di fronte a cifre inquietanti: 250 milioni di migranti, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. La cittadina di Goma, nel Nord Kivu (cittadina con meno di 300 mila abitanti) – mi è stato detto in questi giorni – ospita 1 milione di profughi. In Italia quest’anno sono arrivati 114 mila stranieri e 2850 sono morti in mare. Questi milioni di migranti e di rifugiati, come affermò Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace. Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che, in gran parte dei casi, è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta» (Angelus, 15 gennaio 2012).
Ecco il titolo del messaggio di quest’anno: “Migranti e rifugiati: uomini e donne in cerca di pace”.
Una caratteristica del messaggio, che appare evidente, è che si tratta di un testo controcorrente e parecchio coraggioso, perché dettato in un periodo carico di pregiudizi – lo dico senza animosità – e di volgarità, in un contesto ossessionato da identità chiuse che alimentano paure. È un messaggio decisamente alternativo – non piacerà a tutti – alternativo alle logiche del nemico, dello scarto, dell’indifferenza. Alternativo al sistema Caino, al sistema Erode, al sistema Pilato. Non voglio parlare in astratto, so che devo tanare il Caino che c’è in me, che mi fa dire «sono forse io il custode di mio fratello?» (Gn 4,9), scoprire l’Erode che c’è in me e l’ambiguità che gli fa dire: «Fatemi sapere dov’è il bambino, così andrò anch’io ad adorarlo» (cfr. Mt 2,8); mentre il retropensiero è di eliminarlo. Oppure il Pilato che c’è in me, l’indifferente, che «se ne lava le mani» (cfr. Mt 27,24).
Papa Francesco ci offre il progetto di una nuova cittadinanza. Nell’omelia della notte di Natale ha invitato ad avere una nuova immaginazione. Nel messaggio parla anche di sogno. Il suo è un invito a resistere e a respingere ogni forma di xenofobia e di razzismo, a ricostruire la grammatica della convivenza, ad attivare «la capacità di accogliere, proteggere, promuovere e integrare».
Il necessario realismo della politica non può diventare – cito – «una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza».
Come suo stile, Papa Francesco ama ricorrere alle immagini; gli servono per rendere performativo il suo pensiero, cioè per coinvolgere il lettore e per facilitare la memorizzazione di quello che dice. Ne evidenzio tre: lo sguardo, le mani, il cantiere.
Lo sguardo. Si tratta di uno sguardo contemplativo, che vede oltre, che vede in profondità, che non si ferma al “fotogramma”, usando un’immagine filmica. Ci sono delle meditazioni che ci innalzano, ci fanno vedere il mondo dall’alto, nel suo insieme, nella sua vocazione totale. È uno sguardo lungimirante, sapiente, fiducioso nella possibilità di «trasformare difficoltà avvertite come minaccia in opportunità per costruire un futuro di pace». Uno sguardo capace «di riconoscere i germi di pace che stanno spuntando».
Le mani. Sono le mani delle persone che arrivano e di quelle che accolgono, mani che si incrociano, magari timidamente. L’idea è che nessuno giunge a mani vuote e che ogni essere umano ha mani che portano, che ricevono, che scambiano doni.
«Che sarà mai di questo bambino?» (Lc 1,66), fu detto il giorno in cui nacque Giovanni Battista; interrogativo chi si pone per ogni bambino che nasce. Perché non si fa questa domanda per ogni bambino che arriva tra noi? E se ci fosse qualche Mozart, se ci fosse Galileo Galilei, oppure un Einstein? Certamente c’è Gesù Cristo.
Il cantiere. Non un cantiere qualsiasi, ma per costruire città dove si vincono la paura e la divisione, dove si lavora per realizzare la promessa della pace.
L’impegno a favore dei migranti – un’azione non qualunquista, ma prudente, concordata, elaborata con strategie di rispetto per tutti – non è altro che applicazione di principi che costituiscono un patrimonio comune dell’umanità, principi codificati nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, principi radicati nella nativa costituzione relazionale dell’essere umano (siamo fatti per l’incontro con l’altro, per lasciarci sorprendere dal dono di cui è portatore) e, per chi è credente, nella convinzione indistruttibile che ogni uomo è mio fratello perché figlio dell’unico Padre.
Per questi motivi, sul tema dei migranti, come su ambiente, armamenti e guerre, papa Francesco chiama i credenti e tutti gli uomini di buona volontà a «rendere il nostro mondo più umano», contrastando decisioni escludenti, portatrici solo di dolore, «per uomini e donne in cerca di pace».

Omelia S.Messa di ringraziamento (Te Deum)

Pennabilli, 31 dicembre 2017

Gen 15,1-6; 21,1-3
Sal 104
Eb 11,8.11-12.17-19
Lc 2,22-40

(da registrazione)

Questa sera mi metto di fronte a tutta la nostra Chiesa diocesana. Penso ai miei fratelli presbiteri, penso ai nostri sette monasteri. Oggi due ragazze, Marylou e Rita, hanno fatto il primo passo di ingresso nella comunità monastica delle Figlie Benedettine della Divina Volontà; sono salite sulla barca dietro a Gesù e si lasciano dietro tutto. Vanno incontro ad un grande amore, ad un grande futuro. E ho nel cuore i nostri giovani dell’Azione Cattolica che sono a Verona per una settimana di campo scuola. Ho in mente, soprattutto, i nostri ammalati. Prima di Natale ho avuto modo di fargli visita girando nelle corsie delle ospedali e nelle Case di riposo. Ricordo in modo speciale tutte le componenti della nostra Chiesa che è l’insieme dei discepoli che Gesù raduna attorno a sé.
A nome di tutta la Diocesi, dei miei fratelli presbiteri e diaconi, in unità con i nostri monasteri e con tutte le famiglie dico al Signore: Grazie. Perdono. Eccomi! Tre parole indicatissime per questo Capodanno. Alla fine della Santa Messa intoneremo il Te deum di ringraziamento per i doni ricevuti.
Una voce maligna dentro noi potrebbe insinuare questo dubbio: «Ringraziare? E tutto il male che c’è attorno a noi? E le disgrazie sempre in agguato? E i terremoti a ripetizione? E la siccità che ha messo in ginocchio l’agricoltura l’estate scorsa? E il bagaglio di sofferenze personali che ognuno di noi pudicamente custodisce? E le lacrime delle famiglie che si dividono? E gli amori traditi?».
Ha una sua pertinenza, ma è una voce maligna perché non coglie l’ampiezza, la larghezza, la profondità del mistero di luce che continua ad avvolgerci. Noi ci fermiamo su un “fotogramma” di pellicola, ma non vediamo tutto il film, non cogliamo l’intero: l’amore del Padre che ci tiene sul palmo della sua mano. Sembra una “frase fatta”, ma i santi, di fronte a queste parole, andavano in estasi, cioè fuori di sé dallo stupore, dalla gioia, dall’incanto. La mano del Signore è mano creatrice e conservatrice nell’essere (ricordate il grande affresco michelangiolesco nella Cappella Sistina, dove Dio tende la mano all’uomo, Adamo, che corrisponde timidamente); è mano salvatrice; è mano che ci fa da nido, ci protegge, ci avvolge; è mano che si è fatta visibile attraverso le mani di Gesù, mani che hanno curato, accarezzato, benedetto. Mani anche inchiodate per noi.
La preghiera ci educa a vedere l’intero del disegno di Dio, un disegno secondo il quale siamo destinati alla deificazione, perché la grazia santificante ci eleva, addirittura ci rende partecipi della natura divina. La preghiera ci fa vedere la bellezza del ricamo che è la nostra vita. La preghiera ci sostiene nel cammino verso un traguardo pensato e voluto per noi: il mistero pasquale! Ecco perché i travagli, le sofferenze e le lacrime. Per dirla con una metafora: è il miracolo della crisalide che diventa farfalla!
Enumero, poi, i tanti doni spirituali: i fiumi di Eucaristia (si fa di tutto perché anche nei piccoli borghi non manchi la celebrazione della Santa Messa), l’offerta di misericordia e di perdono, l’acqua della fonte battesimale che non cessa di infondere grazia, l’unzione del crisma per i nostri ragazzi che ricevono la Cresima e l’unzione risanatrice per i nostri infermi, l’effusione dello Spirito Santo per la missione degli sposi verso la famiglia (ci si sposa non solo per realizzarsi, ma anche per compiere una missione, per questo occorrono le risorse che dona il sacramento. Per diventare sacerdote sono necessari tanti anni di Seminario, per ricevere il sacramento del Matrimonio sono sufficienti soltanto otto incontri. Bisognerebbe parlarne di più, cominciare a dire la bellezza del matrimonio quando si fa catechismo e spiegarla agli adolescenti che devono conservarsi puri per esso), l’effusione dello Spirito Santo sui nostri ministri (quest’anno è stato ordinato un diacono).
Dice il profeta Isaia: «Ora – 2017! – così dice il Signore che ti ha creato, che ti ha plasmato: “Non temere, perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. […] Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima ed io ti amo. […] Non temere, perché io sono con te”» (Is 43,1-5 passim).
Capisco l’invito del Siracide: «Lodatelo più che potete. Ringraziatelo. Non è mai abbastanza. E, quando avete finito, ricominciate» (cfr. Sir 43,33).
Ascolto commosso il ringraziamento di Gesù, quando preso da una gioia profonda ha detto: «Ti ringrazio, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai svelato queste cose ai piccoli. Sì, Padre, perché così a te è piaciuto» (cfr. Lc 10,21).
Oltre alla gratitudine sentiamo di chiedere perdono? Per che cosa?
Credo che la nostra Chiesa debba chiedere perdono per l’ignoranza colpevole, perché si trascura la formazione di noi adulti. Potremmo sostare ad ascoltare e meditare i discorsi di papa Francesco e – perchè no? – scrivergli per dirgli che gli siamo vicini, che stiamo seguendo il suo magistero. Chiedo perdono a nome di tutta la nostra Chiesa perché sono ancora troppo chiuse “le pagine del libro delle Scritture”.
E chiedo perdono perché non facciamo sempre bella la nostra Chiesa, perché, se non è bella, non è attrattiva e tanti ne restano lontani.
Gesù ha detto: «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché anche loro diano gloria al Padre» (cfr. Mt 5,16).
Nel Te Deum canteremo – doverosamente – «miserere, miserere nostri, Domine! Fiat misericordia tua Domine super nos, et salvi erimus»!
Grazie, perdono, Eccomi! Il Signore è «colui che rialza», così viene chiamato nella Bibbia. «Egli dà forza allo stanco, moltiplica il vigore allo spossato. Anche i giovani faticano e si stancano – così scrive il profeta Isaia –, gli adulti inciampano e cadono; ma quanti sperano nel Signore riacquistano forza, mettono ali come aquile, corrono senza stancarsi, camminano senza affannarsi» (Is 40,29-31).
Eccomi! Quante volte questa parola è ripetuta nelle Scritture: ci sono padri, madri, pastori, giovani, profeti, creature semplici che dicono «eccomi» al Signore. Soprattutto «eccomi» è la Parola che svela l’animus di Maria, la Madre di Gesù: «Ecco, sono la serva del Signore» (Lc 1,38). La Madonna ha tre nomi: il nome che le hanno dato i genitori, Maria, il nome che le ha dato il Cielo attraverso l’angelo, piena di grazia, e il nome che lei si è data: la serva del Signore.
Il futuro, il 2018, sta davanti a noi come un rotolo sigillato, una pergamena che nessuno di noi può svolgere. Prendiamo questo rotolo dalle mani del Signore con fiducia, con abbandono di figli, consapevoli che il “sì” è sempre e comunque fecondo e creativo, apre nuove strade.
Per quanto riguarda il 2017 vogliamo ricordare la grande sfida, la triplice sfida che ci ha messi in cammino come operatori pastorali: il dopo-Gesù, la Pentecoste, è ancora più potente del prima, perché Gesù è vivo. La Pentecoste è ai primi minuti dell’aurora. La resurrezione è la forza che sta in mezzo a noi, dentro di noi, che ci rinnova. Nel 2017 è stato come vivere al tempo dei primi cristiani, con lo stesso fervore, con lo stesso entusiasmo, con la gioia del Vangelo tra la gente, nel mondo, come i Corinti di cui quest’anno stiamo studiando la pastorale. A Corinto si è annidata la famiglia di Gesù. Per questo ci siamo ripetuti tante volte quest’anno di abitare il nostro tempo, il più bello che c’è, perché è quello che ci ha dato il Signore.
Concludendo, penso con gratitudine al 13 maggio, quando tutta la Diocesi era presente per onorare la Madre di Dio, una partecipazione di popolo. E ora l’avventura, che non è soltanto del Vescovo, di accogliere la visita pastorale.
Grazie, Signore. Perdono. Eccomi!

Omelia nella Santa Messa di chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Faetano

Faetano, 12 dicembre 2017

Is 40,1-11
Sal 95
Mt 18,12-14

(da registrazione)

«Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e una di loro si smarrisce, non lascerà le novantanove sui monti e andrà a cercare quella che si è smarrita?» (Mt 18,12).
Il primo pensiero che mi è venuto in mente leggendo questo brano è che quel pastore è veramente “scriteriato”. Come si fa ad abbandonare novantanove pecore sui monti e ad andar giù per i greppi a cercarne una che ha voluto andare “per i fatti suoi”?
È giusto che Gesù ci interpelli: «Che ve ne pare?». Il comportamento di questo pastore è sorprendente e la conclusione di questa breve pericope evangelica è straordinaria: «Il Padre vostro celeste, Dio, l’Eterno, l’Altissimo, non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (cfr. Mt 18,14).
A conclusione della Visita Pastorale alla comunità di Faetano mi nasce in cuore questo invito: «Siate sempre più famiglia!». Lo siete già, ma siatelo sempre di più, perché non c’è mai la parola “fine”. «Se dici basta, sei perduto» (SANT’AGOSTINO, Sermo 169, 15 [PL 38, 926]). In particolare, nessuno di questi piccoli vada perduto.
Chi sono «questi piccoli»?
Il “piccolo” di cui parla il Vangelo è ciascuno di noi. Non dobbiamo perderci nello zapping degli impegni quotidiani: il nostro tempo è sempre così occupato. È necessario trovare dimora, almeno per qualche minuto ogni giorno, con noi stessi e con il Signore.
Ricordo un brano che mi hanno fatto tradurre ai tempi della scuola: era il racconto del rientro a Roma dell’imperatore Traiano dopo la conquista di Traci. L’imperatore arrivò a Roma sulla sua biga dorata e in città ci fu una grande festa. In mezzo alla folla una vecchietta implorava per sé un minuto di tempo all’imperatore. I centurioni la ricacciarono indietro, ma lei gridò più forte finché l’imperatore la sentì e le rispose: «Non vedi che non ho tempo?». «Ah, che delusione – disse l’anziana signora –, sei imperatore, ma non sei nemmeno padrone del tuo tempo!». Allora, trovare il tempo per la preghiera. In questi giorni ho visto una comunità che sa sostare nella preghiera, che sa dimorare nel tempo. Che sia sempre così!
Nessuno di questi piccoli vada perduto. Penso all’impegno che la vostra comunità mette per l’iniziazione cristiana. Voi ragazzi rappresentate a noi adulti un nostro grande dovere che è quello di dedicarci ad introdurre i più piccoli nella conoscenza di Gesù e nell’esperienza della Chiesa. Bisogna continuare a mettere ogni impegno senza stancarsi. Preziosissimo è il lavoro dei catechisti, ma è tutta la comunità che educa, a partire dal coro, dalle persone che svolgono servizi, dalla gioia che si sperimenta quando si entra dal portone della chiesa, quando si salgono i gradini. Tutto educa, tutto introduce nella conoscenza di Gesù. Guardo la vetrata della chiesa di Faetano. Senza la luce da dietro si vedono solo le ramificazioni; quando invece la luce la illumina si vede la bellissima immagine di San Paolo. Così è la Chiesa: se la si guarda da fuori la si può trovare noiosa, qualche volta scandalosa, ma se la si guarda illuminata la si vede bellissima, come riflesso di Gesù.
Occorre che l’impegno per l’iniziazione cristiana coinvolga le famiglie. Qui a Faetano ho incontrato molte famiglie giovani; bisogna inventare qualcosa per coinvolgerle. Sono sicurissimo che i catechisti, guidati da padre Ivo, sapranno escogitare qualcosa di nuovo; può essere qualche cena in più, l’ideazione di un percorso specifico per genitori…
Nessuno di questi piccoli vada perduto, mi fa pensare anche ai giovani. Impegniamoci ad inventare qualcosa perché si mettano in rete tra loro, facciano gruppo. Ci sono metodologie e anche contenuti che vengono preparati apposta per i giovani, per rendere più gradevoli e più fruibili certi fondamenti della fede.
Nessuno di questi piccoli vada perduto: pensiamo che tutti sono candidati, tutte le persone che fanno parte della comunità di Faetano. Non ci sono “bocce perse”!
È molto bello lo slogan del campo scuola che avete scelto quest’estate: «Erano un cuor solo e un’anima sola» (At 4,32). Come si fa per fare in modo che nessuno si senta perso? Non si tratta come i cowboy di lanciare il lazzo per catturare le persone e trascinarle in chiesa, ma farsi uno. Farsi uno vuol dire avvicinarsi, iniziare una conversazione, familiarizzare ovunque ci troviamo: in fabbrica, al supermercato, in coda allo sportello delle Poste, in ospedale, all’università… Pensare che ogni persona che incontriamo è un candidato, fa parte della famiglia. Come facciamo a farglielo sapere? Non c’è bisogno di dirlo apertamente; lo si respira quando c’è qualcuno che ci accoglie, ci dedica attenzione e ascolto. Farsi uno con tutti. Sentire che il problema dell’altro è mio. Non possiamo portare pesi superiori alle nostre forze, ma se il problema di chi mi sta attorno è anche un mio problema scatta il servizio, da non intendere come gesto paternalistico, dall’alto della mia autocoscienza verso l’altro che è in cammino, ma pensando che “se il tuo problema è mio, mi risolvo risolvendoti”.
Nessuno di questi piccoli vada perduto.
Per fare questo la comunità deve attrezzarsi valorizzando i ministeri. Pensiamo al dono grande che è padre Ivo in mezzo a voi. Ho gioito quando ho sentito la festa che gli facevano i bambini a scuola, gli impiegati nelle fabbriche e nelle aziende agricole, le persone per strada. Lui è fortunato perché molti laici collaborano con lui, mentre lui può essere san Francesco e Gesù in mezzo a voi. Poi il diacono Graziano, i catechisti, gli animatori. Nel video del campo scuola estivo ho potuto apprezzare che, accanto ad ogni bambino, erano presenti diversi animatori. È bellissima la diversità di ministeri in cui ognuno fa qualcosa, ma non occupa tutta la scena, come nei giardini si osservano tanti colori e tanti profumi, uno più bello dell’altro. In un giardino ci sono anche le radici, con cui in pochi si complimentano. Penso a quante nonne e nonni ho incontrato nelle case, con il rosario in mano, che si accordavano con padre Ivo per ricevere la Comunione eucaristica. Complimenti alle radici!
Oltre alla diversità di ministeri, è importante la strategia di fare gruppo. Il tono della vostra parrocchia è di tipo assembleare, ma ci sono problemi che toccano di più i genitori, altri che toccano di più i figli, problemi che toccano chi lavora, oppure i bambini, ecc. Occorre riservare momenti specifici per archi di età e per categoria, non dimenticando il collegamento con la diocesi, perché, insieme alle altre parrocchie, formiamo la Chiesa diocesana.
Infine, sottolineo la grande riscoperta del Concilio Vaticano II: i laici, a partire dalla riscoperta del Battesimo (mai cosa scontata!). Talvolta ci si dimentica di questo sacramento. È come dimenticarsi di avere addosso un gioiello, una perla preziosissima. Riscoprire il Battesimo: questo deve dare entusiasmo, coraggio. Anche se ho molto enfatizzato la parrocchia, ai laici spetta un grande compito: l’animazione delle realtà temporali, cioè il mondo del lavoro, la politica, la cultura… Se riuscissimo ad incidere sui mass-media, potremmo trasmettere bellezza e gioia. I laici sono l’anima nel mondo.
L’ultima parola che vi lascio è: curare la formazione, attraverso l’ascolto attento dell’omelia, una buona lettura, un buon programma televisivo, un momento di gruppo in cui leggere insieme un discorso del Santo Padre, il Catechismo della Chiesa Cattolica, ecc.
Pregate per il vostro vescovo e per tutti i sacerdoti. Vorrei fare una nomination particolare per le nostre suore, dono grande nelle nostre comunità, nelle corsie degli ospedali, tra i ragazzi dei gruppi che vengono per i ritiri nelle loro case. La presenza del SS.mo nel tabernacolo di queste case è possibile proprio per la presenza delle nostre suore.
Tanti auguri, andiamo avanti… a presto!