Omelia in occasione del funerale di mons. Pietro Corbellotti

Monte Grimano, 18 aprile 2018

2Cor 4, 14 – 5, 1
Sal 22
Gv 6,51-59

(da registrazione)

Il mio primo pensiero è rivolto ai miei fratelli sacerdoti: siamo una vera famiglia! La mancanza di don Pietro ci rende davvero più tristi.
Poi, il pensiero va ai familiari, ai parrocchiani di Monte Grimano Terme, di San Donato e di Montelicciano e a tutta la realtà dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero, al collaboratore e amico fraterno Giampiero Piscaglia e a tutti i collaboratori, i consiglieri e i consulenti.
Ho pensato di partire con la meditazione, prima di attardarmi sulle letture bibliche offerte dalla liturgia, delle seguenti parole del Vangelo di Marco: «Li chiamò per mandarli a predicare e perché stessero con lui» (Mc 3,13-14). È finita la lunga giornata di predicazione con parole e opere, la lunga giornata di don Pietro, una giornata spesa interamente per il Signore; ma adesso egli vive in pienezza la chiamata a stare con lui, una chiamata già iniziata, già in essere dal primo istante del suo cammino vocazionale, quando, da ragazzo, lasciò il territorio della Carpegna per entrare in Seminario. Ripensiamo così alla vita, alla morte e al sacerdozio di don Pietro; sacerdozio che il Signore pensa come svolto nello stare sempre con lui.
Quello di don Pietro è stato un sacerdozio a contatto con la gente, un servizio quotidiano, concreto, generoso, veramente umano e cristiano, verso tante persone. Oltre 54 anni proprio qui, a Monte Grimano, verso innumerevoli volti, tante famiglie, da fratello tra fratelli. Quanti incontri, quanti episodi, quanti ricordi potrebbero donarci anzitutto i parrocchiani di Monte Grimano; materiale prezioso, da non abbandonare all’oblio.
Un sacerdozio speso, per oltre trent’anni, a servizio di noi sacerdoti, ricoprendo l’incarico di presidente dell’Istituto diocesano Sostentamento Clero, prima come fondatore e poi guida, insieme al collaboratore e amico Giampiero Piscaglia. Compito, quello nell’Istituto, che don Pietro iniziò e svolse con grande dedizione e amore. E la sua opera non può che continuare a dare frutti importanti.
Non un prete da scrivania (l’ho visto poche volte seduto alla scrivania), eppure ugualmente immancabile in ufficio, addetto ai doveri del suo incarico. Mattine spesso iniziate ai piedi della Madonna delle Grazie, nel vicino Santuario a Pennabilli. Oggi sono presenti qui molte persone di Pennabilli; ho ricevuto le condoglianze del Sindaco, Mauro Giannini, che mi pregava di estendere ai presenti.
Don Pietro arrivava a Pennabilli dopo una lunga traversata di questo Montefeltro incantevole, ma severo e aspro nei mesi invernali. Sempre presente. Uso questo aggettivo dopo aver chiesto a varie persone un attributo che qualificasse la personalità di don Pietro. Alla fine, ne ho scelto uno, quello che ho sentito più mio: quello di essere presente. Presente, sempre “sul pezzo” – come si suol dire – con autorevolezza e, quando necessario, anche con autorità. Situazioni concrete, a volte interlocutorie, soprattutto con i custodi e gli affittuari dei beni della Chiesa, beni custoditi con diligenza, appunto perché non propri, ma della comunità. Mai esoso, soprattutto con chi realmente era in difficoltà, ma esigente, questo sì. Presente alla vita diocesana, vicariale e di presidio; immancabile agli incontri di formazione e di discernimento comunitario. Presente con i suoi appelli ripetuti alla cura del bene più prezioso che abbiamo, i nostri preti giovani; con le visite ai sacerdoti anziani e anche col farne memoria al Vescovo («Eccellenza, non si dimentichi!»). Immancabili le soste nella Casa del Clero a Rimini, dove diversi dei nostri confratelli sono stati e sono ospiti. Si faceva presente sempre con un dono, con una parola di simpatia, di incoraggiamento, di affetto, al punto da stupirmi, le prime volte (il mio primo approccio con lui mi parve un incontro con una persona piuttosto burbera). In realtà ho potuto constatare il suo animo semplice, delicato, grande. Ha voluto bene ai suoi vescovi, senza adulazione. Per quanto mi riguarda, devo dire di averlo fatto un po’ soffrire, quando gli ho chiesto, dopo tanti anni di fedele servizio, di lasciare l’incarico all’Istituto. Ne ho patito anch’io, ma poi, sia lui che io, siamo stati contenti per le soluzioni adottate. Io in particolare mi sono sentito incoraggiato dalle sue parole pronunciate appena qualche ora prima della sua morte, che a me pareva del tutto remota, ma forse che lui presentiva come vicina, imminente. Mi accolse con parole molto lusinghiere che non oso dire in pubblico, ma molto dolci. Invece, ho il dovere di riferire il suo saluto: «Mi raccomando, mi saluti tutti i preti», cosa che faccio con tutto il cuore.
Le letture bibliche che abbiamo ascoltate ci fanno rivedere la vita di don Pietro come il miracolo della vita cristiana. San Paolo: «Piano piano il nostro uomo esteriore si va disfacendo, ma quello interiore si rinnova di giorno in giorno… Quando verrà disfatto il nostro corpo, nostra abitazione sulla terra, riceveremo un’abitazione da Dio, una dimora eterna» (2Cor 4,16.5,1). Ecco, noi abbiamo assistito, in parte, a questa vicenda, abbiamo visto in don Pietro l’estenuarsi delle forze, ma il crescere dello spirito nella comunione con Dio. Abbiamo constatato, come si constata per ogni uomo, la fragilità della nostra natura, dell’abitacolo della nostra anima, ma insieme, accanto, il progredire dell’uomo interiore.
E poi sentite Gesù: «Io sono il pane vivo disceso dal cielo, se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6,48-49.54-56). Questo ritorno della dimora, della casa, dell’abitazione mi ha fatto tanto pensare, tra le righe, anche alla sua ultima vicenda del restauro della palazzina Carboni a Pennabilli; un progetto che ha seguito, che ha amato profondamente e che ha consegnato, con un sorriso straordinario, il pomeriggio del 4 febbraio, quando insieme abbiamo tagliato il nastro e siamo entrati nella nuova sede dell’Istituto. Ma quello che promette Gesù a don Pietro e a tutti noi è molto di più, non si può neanche paragonare. Le parole di Gesù valgono per ogni credente, dal pane della Parola, portato dal Signore, al pane della vita, da lui lasciato nel Sacramento. Pane che è promessa di vita, attuazione di reciproca inabitazione, pegno di resurrezione. Parole che sono per ogni fedele, per tutti noi, ma soprattutto per ogni sacerdote, perché il prete è associato a Cristo, immedesimato con lui: agisce in persona Christi, ripete e prolunga Cristo, ripresentandone il prodigio stupendo. Egli, il sacerdote, per la vita del mondo sfama generazioni di uomini. La Chiesa, d’altronde, non ha altro pane per la fame delle anime. Artefice di questa moltiplicazione nel tempo e nello spazio dell’Eucaristia è ogni sacerdote, è stato don Pietro. Noi celebriamo sul suo altare, grandezza e potenza sovrumana di questo uomo, fragilità e debolezza da un lato, sublimità e poteri dall’altro. Il sacerdote, nel sacramento della Riconciliazione, perdona i peccati. Viene da ricordare quello che dicevano i contemporanei di Gesù: «Chi ha dato una tale autorità agli uomini e li ha resi degni di ricevere il sacramento del pane di vita per il tempo presente e per il futuro?». Debolezza umana e forza divina. Così il sacerdote, così don Pietro.

Omelia nella Celebrazione eucaristica in occasione dell’insediamento dei Capitani Reggenti

Basilica di San Marino, 1 aprile 2018

Signori Capitani Reggenti,
Signori Segretari di Stato,
Eccellenza carissima,
Eccellenze tutte,
Cari fratelli e sorelle,
Buona Pasqua!

1. La prima volta che andai a Gerusalemme insieme ad un gruppo salii, di buon mattino, verso il Santo Sepolcro. Era ancora buio. Con tanti pellegrini si pregava, con tanta emozione. Poi gli occhi mi caddero su una iscrizione che mi sembrò ricacciare tutti noi indietro, lontano. Era una frase che ricacciava indietro non solo noi, ma i milioni di pellegrini, gli antichi crociati, i tantissimi visitatori. Eccola: «Non est hic»! Parole dell’Angelo di Pasqua, parole che proseguono così: «Perché cercate tra i morti colui che è vivo?» (Lc 24,5). Gesù è vivo! Questa è la testimonianza dei cristiani, della Chiesa.

2. La Pasqua celebra la contemporaneità dell’evento della risurrezione di Gesù dai morti. È la sua entrata nella vita, una vita ormai non circoscritta né dal tempo né dallo spazio. Stupore di una vita immortale, meraviglia di una presenza, anzi di una onnipresenza tra gli uomini! Questo è il centro essenziale della fede cristiana.
Della risurrezione fanno fede i primi testimoni che hanno visto, toccato, incontrato Gesù Risorto. Con la forza del suo invio, hanno intrapreso un cammino incredibile fino agli estremi confini della terra, un cammino giunto fino a noi attraverso la Chiesa. A cosa varrebbe tanta fatica, tanto amore, tanta lotta? A cosa varrebbero il martirio, la missione di tanti cristiani, se Cristo fosse cercato tra i morti e illusoriamente creduto vivo?
Ma Cristo è risorto. È veramente risorto. Cristo è vivo, veramente vivo!

3. Cristo non va cercato tra i simboli di una esistenza migliore, cui guardare con desiderio, cui generosamente ispirarsi. Vago presentimento. Cristo non va cercato tra i grandi personaggi benefattori, filosofi, taumaturghi, viventi nel ricordo dei loro pensieri, delle loro imprese, dei loro meriti. Cristo non va cercato – perdonate l’insistenza – e confuso con simboli e miti, buoni ed in sé esemplari, ma astratti, lontani, viventi al pari di un’idea. Semmai va cercato nei luoghi degli affetti che generano vita, la vita della comunità, prossimità fra gli uomini.

4. La liturgia e i santi Padri vedono e cantano la risurrezione di Cristo come una seconda nascita.
Tant’è vero che nella liturgia pasquale, come in quella del Natale, si canta il Salmo 2: «Io l’ho costituito mio Signore sul Sion, mio santo monte… Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato. Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini del mondo» (Sal 2,6-8). Come uscì dal grembo di Maria senza violare i segni verginali, così Cristo uscì dalla tomba di Gerusalemme senza toccare i sigilli posti dai soldati. Ma là, nella nascita di Betlemme, il Verbo fatto carne nacque alla vita mortale; qui, nella risurrezione, l’uomo Gesù nasce alla vita che non finisce. La novità è che la risurrezione è entrata nel mondo. Dio ha fatto irruzione nella nostra storia.

5. Qual è la prima parola pronunciata dal Risorto? Quella che gli sta più a cuore? Quella più urgente, necessaria, utile e bella? Eccola: «Pace a voi!» (Gv 20,19). Nella liturgia questa parola ritorna almeno una quindicina di volte. Ad un certo punto è previsto che chi è presente alla celebrazione scambi un segno di pace. Il Risorto ci offre la sua pace perché ne diventiamo costruttori. La pace è la somma di tutti i beni possibili, interiori ed esteriori, spirituali e materiali, presenti e futuri. La pace è desiderata, invocata – ahimè – negata a tante genti, ancora oggi in frantumi in tanti posti del mondo. La Repubblica di San Marino, piccola e nobile fra le nazioni, sente come propria questa missione. Nella sua storia quasi bimillenaria ha vissuto nella pace, anche in momenti in cui altre piccole entità politiche andavano alla conquista, cercavano espansioni, pretendevano tributi, esigevano trionfi.
La pace è la sua missione anche oggi. Anzi, vorrebbe considerarsi come artigiana di pace, offrendo spazi di libertà per l’incontro, il dialogo, la mediazione. Non ha ambizioni, né mire, né rivendicazioni, se non quella di fare la pace, fare pace, essere pace. Propositi di una Repubblica consapevole del suo destino. Missione di tanti sammarinesi che professano la fede in Gesù Cristo Risorto. E tutti nel solco tracciato dal fondatore, San Marino. Auguri!

Omelia nella Veglia pasquale

Cattedrale di Pennabilli, 31 marzo 2018

Mc 16,1-7

Carissimi,
buona e santa Pasqua!
Questa notte è la madre di tutte le notti. È da questa notte che si irradia per tutto l’anno liturgico lo splendore della certezza che Gesù è risorto, è vivo. In tutte le chiese della nostra Diocesi si celebra la Veglia pasquale, ma la cattedrale – al di là dello splendore di come tutto viene organizzato, di come tutto viene preparato nei canti e nei fiori – è il luogo dove l’apostolo ci fa certi della risurrezione di Gesù.
Qual è il compito del Vescovo? È annunciare la risurrezione di Gesù. Egli è un successore degli apostoli e, attraverso le sue labbra e il suo cuore, aggiunge a tutti i cristiani la certezza, necessaria perché la risurrezione è il fondamento della nostra fede. È stato bello che in cattedrale, da domenica fino a questa notte (e domani), si sono susseguite proposte di meditazione, temi, appuntamenti: la Domenica delle Palme, le Quarant’ore, il Giovedì santo, il Venerdì santo e questa notte. Parole che sono anche ritornate: accogliere, amare, seguire. I tre verbi ci hanno condotti in questi giorni santi; verbi programmatici per la vita cristiana, per tutti i cristiani. Possiamo veramente dirci cristiani se non accogliamo il Signore nella sua risurrezione? Possiamo dirci cristiani se non gli apriamo il cuore, se non corrispondiamo concretamente al suo amore? Ci invita alla cena, si fa nostro servo, ci lava i piedi. Possiamo dirci cristiani se poi non ci mettiamo a seguirlo? A volte si dice: «Sono credente ma non sono praticante». Vi pare sia un’affermazione plausibile? Il cristiano accoglie, ama, segue Gesù! E Gesù è risorto. Se non fosse così, il nostro riunirci questa notte avrebbe del patetico.
Dove trovare Gesù Risorto? Gesù è vivo nella Chiesa. È la Chiesa che ne conserva la memoria, le parole, i sacramenti, che raccoglie e custodisce i frutti della sua presenza, i segni della sua prova. Cerchiamolo nella Chiesa. Vorrei prevenire, attutire la contestazione che può salire dentro di voi: «Ma la Chiesa, i preti, i cristiani hanno fragilità, incongruenze, limiti umani… si ricordano bene gli errori della storia». Ecco il grande miracolo: la Chiesa, nonostante le sue fragilità dovute agli uomini, è stata fedele al messaggio di Gesù. Allora, accogliamo Gesù, amiamolo, seguiamolo.
Incontriamo Gesù vivo anche quando ci facciamo prossimi a chi è povero, malato, solo, in difficoltà, a chi resta indietro. L’ha detto lui: «Avevo fame e mi hai dato da mangiare, ero forestiero e mi hai ospitato… Quando mai, Signore? […] Ogni volta che hai fatto questo ad uno solo dei miei fratelli più piccoli, l’hai fatto a me…» (Mt 25,40).
Incontriamo Gesù vivo nella preghiera che è rapporto con lui (altra cosa il recitar preghiere), da cuore a cuore. La preghiera così intesa «non consiste nel molto pensare o nell’elaborare altissimi concetti, ma nel molto amare» (Santa Teresa d’Avila, Fondazioni, 5.2). «La preghiera è uno slancio del cuore, un semplice sguardo gettato verso il Cielo, un grido di gratitudine e di amore, nella prova come nella gioia» (Santa Teresa di Lisieux, Manoscritti autobiografici C, 25 R). Il cristiano prega e va alla preghiera comune.
Accogliere, amare, seguire il Signore. Ma c’è un altro verbo che completa l’itinerario. È il verbo vivere ed è il mistero che stiamo celebrando in questa notte: Gesù è risorto e vivo, ha fatto scaturire la luce, ha fatto scaturire l’acqua, ci fa vivere di lui. Noi siamo fatti per la vita, per una vita piena, per sempre. Se la morte ci fa paura (è normale, l’ha temuta anche Gesù), la superiamo con la certezza della risurrezione. Questa vita che viviamo quaggiù prende gusto e sapore, speranza e audacia dalle parole del Risorto e dal Pane spezzato trae alimento per il cammino. Vivere. Nella risurrezione di Gesù tutto in noi riprende vita: corpo e anima, razionalità e sentimento, fragilità e talenti. Il cristiano vive con pienezza, con gioia la sua vita. Non è vero che la religione incupisce, tarpa le ali, inibisce. Anzi, il cristiano impara dalla risurrezione che ne vale sempre la pena, anche quando sperimenta fallimenti e cadute. Ricomincia. Riapre il discorso. Riparte. La risurrezione è il suo stile. L’Alleluia è la sua parola d’ordine. Buona Pasqua!

Omelia nella Liturgia della Passione del Signore

Cattedrale di Pennabilli, 30 marzo 2018

Is 52,13- 53,12
Sal 30
Eb 4,14-16; 5,7-9
Gv 18,1- 19,42

Domenica mattina a Pennabilli si sono sentite delle grida: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore»! (Mc 11,9). E tanti pennesi e tanti ospiti che erano qui hanno vissuto la prima tappa della vita spirituale, l’accoglienza: accogliere il Signore.
Ieri sera, memori di quanto sta scritto: «Se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20), siamo stati a cena con Gesù. E abbiamo fatto un altro “scatto” nella vita cristiana. Se il primo era accogliere, ieri sera era amare. Ci siamo trovati seduti a tavola, in alto, e Gesù in ginocchio, in basso, a lavarci i piedi. È ancora davanti agli occhi quel fotogramma: lo sguardo di Gesù verso di noi dal basso verso l’alto, e il nostro sguardo dall’alto verso il basso, dov’era lui che si è fatto servo. Comprendiamo che la tappa successiva della vita cristiana è amare. A tanto amore, il nostro amore. A tanto dono, il nostro dono. A tanta offerta, la nostra offerta. E questa sera che cosa stiamo vivendo? Questa sera viviamo una terza tappa della vita cristiana: seguire Gesù. Seguirlo fino in fondo. Non alludo soltanto alla parola: «Venite dietro a me, prendete la vostra croce, camminate sulle mie orme». Seguire Gesù perché? Seguire Gesù dove? Sappiamo la nostra condizione umana com’è… L’eredità del peccato è il male che è entrato nel mondo. Che cosa fa Dio? Manda il suo Verbo. Dio poteva salvare l’umanità in tanti modi diversi: la fantasia di Dio è infinita. Ha scelto la strada di valorizzare l’uomo. Ha fatto diventare uomo il suo Figlio, perché fosse l’uomo a salvare l’uomo. Gesù-uomo è morto per noi. Quel “per noi” ha tanti significati. La morte di Gesù è una possibilità per la nostra morte, per trovare un senso. Quale possibilità? Possibilità di salvezza, di salvare noi e gli altri. Ha un significato di redenzione. Pensiamo alle tante esperienze di morte. Si muore a noi stessi resistendo al peccato, accettando di stare da parte, perdonando, amando (quando si ama si fa spazio all’altro). Tutti questi “morire”, uno dopo l’altro, non sono altro che una possibilità che ci viene offerta di dare un senso alla croce con l’amore. Accogliamo Gesù. Amiamo Gesù. Seguiamo Gesù.

Omelia nella S.Messa in Coena Domini

Cattedrale di Pennabilli, 29 marzo 2018

Es 12,1-8.11-14
Sal 115
1Cor 11,23-26
Gv 13,1-15

1. Dopo tanto desiderio, dopo tanta preghiera, domenica scorsa – domenica delle Palme – sono risuonate le grida: «Ecco il re d’Israele: andategli incontro». E noi siamo usciti per andare incontro al Signore, abbiamo udito il lieto annuncio: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mc 11,10). Abbiamo accolto anche noi, tutti insieme, nel cuore, il nostro Dio.

2. Ma l’accoglienza non è che uno dei movimenti del nostro spirito. Quali altri movimenti ci vengono proposti in questa settimana santa, in particolare in questa sera di ineffabile intimità? Non c’è che una risposta, a mio avviso. Per un Dio che si è fatto uomo, che ha dato tutto, lasciandoci se stesso, la risposta si concretizza nel contraccambiare il dono. E se il dono è amore, la risposta è amore. Egli non fece altro che amare.

3. «Dopo aver amato i suoi, li amò sino alla fine» (Gv 13,1): espressione che indica la natura dell’amore, amore che ama in continuazione («dopo aver amato i suoi»), in forme sempre nuove, inedite, sorprendenti, per concludersi («li amò») con un atto di amore riassuntivo, inaudito, che rinnova e porta all’estrema conseguenza il precedente.
Egli non fece altro che amare. E noi, altro non dobbiamo fare che amare. All’amore, l’amore. Al dono, il dono.

4. Anche il nostro amore dev’essere «sino alla fine». È la prima delle note caratteristiche dell’amore di Gesù. Un amore sempre in sviluppo, dinamico e, quando occorre, anche esternamente travolgente. Un amore che non ha bisogno di parole; si manifesta anche nel silenzio.

5. Un’altra nota circa questo amore: è un amore che non dice mai basta. Un amore – a volte non pare – vittorioso, sempre vincitore, sempre stravincente (cfr. Rom 8,37). Un amore fedele; ma, nella sua fedeltà, non monotono, mai arrivato, perché sempre nuovo, sempre bello, sempre più bello. Un amore la cui misura – così dicono gli esperti dell’amore divino (cfr. Gv 3,14) – è quella di essere senza misura. Un amore che ha come meta il più, il meglio, il sempre, il tutto, la libertà. Potessimo davvero amare così! Amare sino alla fine.

6. Ma anche il cammino dell’amore incontra le sue difficoltà. Il Vangelo, ad esempio, ci attesta la ritrosia di Pietro. L’amore è esigente, categorico, definitivo: «Se non ti laverò, non avrai parte con me» (Gv 13,8). Un amore che vuole tutto, che vuole subito. Un amore che non vuole incontrare ostacoli, impedimenti, diaframmi. Un amore che domanda di arrendersi. Un amore, allora, il cui corrispettivo è l’abbandono totale, confidente, sicuro. Un amore il cui partner è un altro amore che si concede, si lascia invadere. Se il nostro amore fosse così, ci sarebbe più facile l’adempimento del comandamento di Gesù: «Se mi amate, osservate i miei comandamenti» (Gv 13,15).

7. Un’altra nota caratteristica di questo amore è l’imitazione. L’amore rende simili. Fossimo, davvero, presi da Cristo, dalla sua verità, dalla sua missione, lo imiteremmo spontaneamente, liberamente, perché allora l’amante diventerebbe l’amato. Contempliamo Gesù nel nostro cuore. Prima di sedere a tavola con gli amici, egli ama concretamente: si toglie la veste, indossa un grembiule, versa acqua, lava i piedi… Fermiamo nel cuore l’immagine di Gesù in ginocchio davanti a ciascuno di noi. Si sta accingendo a lavarci i piedi. Ci guarda con immensa tenerezza. Lui si è abbassato, noi siamo collocati in alto. «Non voi avete scelto me – dice Gesù – io ho scelto voi» (Gv 15,16). Che il suo sguardo e il nostro restino sempre in questa atmosfera di amore, in questa reciprocità. Così sia.

Omelia nella S.Messa crismale

Cattedrale di Pennabilli, 29 marzo 2018

Is 61,1-3.6.8-9
Sal 88
Ap 1,5-8
Lc 4,16-21

Che gioia, cari fratelli, ritrovarci tutti insieme in questo giorno. Sono lieto di dare a ciascuno il mio saluto più cordiale nel giorno che ricorda il “Natale” del nostro sacerdozio; lieto di celebrare con voi la Messa crismale che, attorno agli oli santi dei sacramenti del nostro ministero, richiama ognuno a rinnovare, singolarmente e insieme, gli impegni dell’ordinazione. Sono lieto, in modo speciale, di vederci uniti a formare un solo corpo, un solo presbiterio, e che si attui la preghiera di Gesù: «Perfetti nell’unità perché il mondo sappia, Padre, che tu mi hai mandato» (cfr. Gv 17,21.23).
Rivolgo un saluto carissimo ai fedeli che sono presenti, alle suore, alle monache che sono unite a noi spiritualmente, come gli eremiti della nostra Diocesi. Rivolgo un saluto particolare alle sorelle dell’Istituto “Figlie di Nazareth” che, da una settimana appena, vivono a Sant’Agata Feltria e hanno riportato in questi luoghi, in spirito, padre Agostino da Montefeltro. Saluto in modo speciale i ragazzi che sono qui a rappresentare le centinaia di amici che nel corso dell’anno, dopo la Santa Pasqua, riceveranno il sacramento della Cresima.
In questo clima di gioia e di unità è il caso di anticipare, soprattutto per noi sacerdoti, l’inno che si canterà alla Messa in Coena Domini: «Congregavit nos in unum Christi amor». È Cristo Gesù che ci ha unito con la grazia dell’Ordine Sacro. È Cristo che ci invita ad amarci e a saldare così la nostra fraternità: «Ubi caritas et amor, ubi caritas est vera, Deus ibi est!». Antifona che fa eco alla parola del Signore: «Dove due o tre sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e che conferma l’affermazione conciliare: «Nella persona dei vescovi, ai quali assistono i sacerdoti, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo, Pontefice Sommo» (LG 21).
Gesù, il cui calice noi benediciamo, non è forse colui che opera la comunione con il suo sangue? Gesù, il cui pane noi spezziamo, non è forse colui che opera la nostra comunione con il suo corpo? «Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti, infatti, partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,17).
È con questi presupposti che la Chiesa di San Marino-Montefeltro può crescere «ben ordinata per essere tempio santo nel Signore; in lui anche voi venite edificati insieme per diventare abitazione di Dio per mezzo dello Spirito» (Ef 2,21-22). E in questo momento vogliamo che il nostro augurio e la nostra unità sia significata al nostro papa Francesco, al papa emerito Benedetto XVI verso il quale, noi in particolare, dobbiamo tanta gratitudine.
Non rimane che «accoglierci gli uni gli altri, ospitarci nel cuore gli uni degli altri, come Cristo ha accolto noi» (cfr. Rom 15,7). Non rimane che esortarci alla collaborazione, con un senso di generosità, di prontezza, come quando, nella pesca miracolosa secondo il racconto di Luca, per la quantità del pesce preso i discepoli «fecero cenno ai compagni dell’altra barca che venissero ad aiutarli ed essi vennero… » (Lc 5,6-7). Cerchiamo non i nostri interessi, ma quelli di Gesù (cfr. Fil 2,21), che non ha voluto piacere a se stesso (cfr. Rom 15,3), ma «ha amato la sua Chiesa e ha dato se stessa per lei» (Ef 5,25).
Dunque, unità: fa parte del progetto di Dio, non stiamo parlando di qualcosa di moralistico. È la missione di Gesù: «Riunire i dispersi figli di Dio» (Gv 11,52), è dono della Pentecoste, è frutto dell’Eucaristia, è per noi forma della partecipazione all’unico sacerdozio. Dunque, unità come dono!
Ma l’unità è anche un impegno concreto.
Nella prospettiva secondo Matteo l’impresa dell’evangelizzazione è indicata come una itineranza: «Euntes docete…» («Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato…» Mt 28,19-20); nella prospettiva giovannea la missione viene indicata come unità: «Uniti perché il mondo creda» (Gv 17,21).
Ce lo siamo ripetuti tante volte: perfino il nostro incontrarci con fedeltà per lo studio, per la preghiera, per la riflessione pastorale non è rubato all’apostolato, alla parrocchia. Quando manchiamo a questi appuntamenti senza un serio motivo, non infliggiamo una ferita soltanto al nostro presbiterio, ma togliamo forza allo slancio missionario. C’è una gerarchia nei nostri doveri sacerdotali. Ebbene, quello di trovarci in comunione, in comunità, è tra i primi (prima della benedizione delle case!). Che bello, anche per i fedeli, saperci, il venerdì, riuniti in preghiera, concordi nello studio, solleciti nella programmazione e… a pranzo insieme. Di questo tipo di “assenza” i fedeli non ci rimprovereranno e, se lo facessero, potremo replicare che la nostra unità è per loro. È per la causa del Vangelo che facciamo “Cenacolo”! Del resto, è proprio il Cenacolo la nostra casa-madre: dal Cenacolo si parte e si torna. Come il movimento del cuore.
Ci sono, dunque, momenti in cui l’unità è visibile, momenti come questo, sublime e commovente. Lo sono i momenti a cui accennavo (con severità), ma ci sono anche quelli meno visibili, altrettanto importanti: pregare gli uni per gli altri (tutti preghiamo il breviario, all’incirca alla stessa ora… è come un ricamo sulla Diocesi, come i cori stereofonici di Bach che salgono dalla Val Marecchia, dalla Val Foglia e Val Conca, da San Marino), farci spazio nel cuore per un’autentica simpatia (ricordate il grido di Paolo: «Fatemi posto nel vostro cuore» 2Cor 7,2). Non tutti abbiamo avuto la stessa formazione e gli stessi maestri, non tutti abbiamo le stesse sensibilità… Che testimonianza sarebbe far brillare l’unità in tutti i suoi multiformi colori, giacché l’unità non è uniformità. «Guarda come si amano!», sarebbe il sussurro della Diocesi.
Ci sono poi tanti altri aspetti dell’unità a cui, per ragioni di tempo, accenno appena. Farci visita (quando siamo malati, ma anche in altre circostanze), interessarci delle necessità senza essere invadenti, renderci disponibili nella collaborazione. E poi c’è la correzione fraterna, così difficile da praticare – quanta prudenza esige – perché presuppone un “di più” di amore, la volontà di un bene maggiore per la persona, anzitutto, ma anche per le altre persone, che potrebbero risultare scandalizzate. Comporta anche un “mettersi nei panni del fratello”. La correzione fraterna rifugge dalla condanna, è medicina, è aiuto, ha orrore delle indiscrezioni, non lascia tracce (neppure sui cellulari!).
Ecco come sant’Agostino parla dell’amicizia nelle Confessioni: «E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo».
Per parte mia non devo che ringraziarvi per la vostra benevolenza; a volte ha la forma della pazienza (più che giustificata!), altre volte la forma dell’incoraggiamento (davvero desiderata), altre volte della simpatia. Vorrei dirvi anch’io il mio affetto. Una dichiarazione che un po’ mi imbarazza per il timore sia indiscreta e per il rischio, poi, di essere smentita dalle mie tante mancanze, sviste, superficialità.
Unità tra di voi, unità col vescovo, unità anche con i nostri fedeli, i laici. Già nella prima parte della Visita Pastorale ho toccato con mano – insieme, ahimè, al ridimensionamento della partecipazione alla vita di Chiesa – la ricchezza di laici che vivono un’intensa vita spirituale, di preghiera, di amore al Signore e alla Madre di Dio. Diversi di loro non temono di esprimere la loro fede in situazioni e ambienti difficili (qualche volta ostili): scuola, fabbriche, farmacie e ospedali… Alcuni hanno trovato la via della “rivincita”, cioè «mettere amore dove non c’è amore» (come dice san Giovanni della Croce). E ci sono i laici più vicini, i nostri collaboratori: alcuni sono davvero preparati culturalmente (talvolta più di noi), professionalmente, ma soprattutto in umanità (la vita di famiglia è una grande scuola di umanità). Allora non possiamo trattarli da semplici esecutori (pretendere l’unità in questo senso), sottoposti al nostro arbitrio, ai nostri puntigli, alle intemperanze del nostro cattivo carattere. Come prepariamo, ad esempio, gli incontri del Consiglio Pastorale Parrocchiale e del Consiglio degli Affari Economici?
La parrocchia alla quale siamo stati mandati (io dico la Diocesi per quanto mi riguarda) non ci appartiene, non è il nostro “reame”. C’è l’eredità di chi ci ha preceduto, il rispetto per la sua tradizione, l’equilibrio fra le diverse anime, il comune riferimento all’intero presbiterio, senza punte di singolarità, al vescovo, al magistero del Santo Padre e della Chiesa. Siamo come un’arpa: ricordate l’immagine di sant’Ignazio di Antiochia a proposito dell’unità. San Paolo direbbe: «Non fatela da padroni» (cfr. 2Cor 1,24).
La pratica dell’unità, se per un verso è un dono che appartiene alla mistica, per un altro verso richiede ascetica. C’è un lavoro su noi stessi, una costante vigilanza e – con l’aiuto di Dio – un superamento dell’individualismo. C’è una radicalità, non solo nella povertà, nella castità, nell’obbedienza, ma anche nell’unità: consiste nel morire a noi stessi. Ma non vorrei che l’espressione ci traesse in inganno. In rilievo non è il morire, ma l’amore; in rilievo non è lo scendere, come seme, nell’oscurità della terra, ma il portare frutto, la germinazione. Se l’unità è una realtà così grande, se è stata ottenuta a caro prezzo da Gesù, buttiamoci generosamente in questa impresa. «Quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32). L’Innalzato innalza ciascuno di noi con lui. Ciascuno di noi è innalzato con l’Innalzato. Ognuno dica nella fede, con generosità e con gioia: «Sulla croce c’è un posto vuoto: è il mio. Davanti Gesù, dietro, accanto a lui, il mio posto!». Ci accompagni, ci sia vicina, ci unisca, lei, Maria, la madre dell’unità: la Regina del Cenacolo. Così sia.

Omelia nella Domenica delle Palme

Cattedrale di Pennabilli, 25 marzo 2018

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Mc 14,1-15,47

Chissà che cosa c’è nei vostri cuori… Solo Gesù lo sa. Chiedo di mettere tra parentesi – per un po’ – preoccupazioni, pensieri, afflizioni, distrazioni, per essere uniti a Gesù.
Si prova ogni volta una grande emozione nel leggere la Passione. Ecco, tutti insieme siamo venuti incontro al Signore. C’è chi tra noi ha una fede ardente, c’è chi fa fatica a credere, c’è forse chi è un po’ annoiato (viene per abitudine), c’è chi è qui per tradizione e c’è chi aspettava da tempo questo giorno. C’è chi, come Maria di Magdala, non sa staccare occhi e cuore dal suo Signore. E c’è chi, come Nicodemo, guarda da lontano. Ma siamo un’unica famiglia, un solo popolo. Chi pensa di essere “un po’ più avanti”, tenga per mano chi segue. Chi crede di essere ai margini, si ricordi che il Signore, con il suo sguardo amorevole, lo cerca, lo snida per invitarlo ad un rapporto personale con lui, a tu per tu. «Ecco il tuo re viene – abbiamo sentito leggere –, seduto sopra un puledro d’asina» (Gv 12,15). La gran folla che era venuta per la festa, udito che Gesù veniva, prese i rami di palma e uscì incontro a lui. E noi? Lasceremo passare Gesù invano?
Andiamogli incontro, accogliamolo, perché Gesù viene con tanta bontà. Lui prende l’iniziativa e si avvicina a noi. E vedete con quanta umiltà, perché bussa alla porta del cuore con tanto desiderio. Accogliamolo con affetto e gratitudine, con gioia e speranza. Lasciamolo entrare, lasciamogli prendere possesso del nostro animo.
A tutti penso sia accaduto di vivere l’attesa, forse nascosta e intima, di venire a contatto con lui ed eventualmente di essere pronti ad abbracciarlo. Ecco, è giunto il momento! Il Signore è qui, la sua grazia è tutta per noi. Lui è tutto per noi. Accogliamolo.
Che cos’è la vita cristiana se non un accogliere, giorno per giorno, colui di cui abbiamo bisogno, colui che è la nostra vita, la nostra pienezza. Sappiamo discernere la sua venuta? Sappiamo riconoscere il suo passo? Sappiamo distinguere la sua voce? Gesù viene a noi spesso in modo discreto, quasi nascosto. Ricordate l’incontro del giardiniere con la Maddalena? Ricordate i due discepoli di Emmaus? Il viandante che si affiancò a loro era Gesù. Ricordate la pesca miracolosa dopo la Risurrezione? I discepoli non l’avevano riconosciuto sulla spiaggia. Gesù è nascosto nei tratti e nei panni dei poveri, dei piccoli, dei profughi, dei malati, di chi è sconfitto, di chi non ce la fa. Nulla fa intuire la sua identità. Soltanto la fede la svela. Solo la sua parola ci istruisce: «Chi accoglie anche uno solo di questi piccoli nel mio nome accoglie me» (Mt 18,5). La vita cristiana si fa grande quando incomincia dagli ultimi, quando si china sui piccoli. Ma c’è un altro modo della venuta di Gesù in noi: è il silenzio. Quel silenzio da cui oggi si tende a sfuggire, specialmente il silenzio che portiamo in noi stessi, che volentieri scansiamo, di cui abbiamo paura. Il Signore viene nel silenzio. E noi abbiamo paura che egli ci scopra a noi stessi, abbiamo timore che lui cambi i nostri programmi, abbiamo paura che ci strappi a noi stessi. Ci apre davanti strade nuove, strade non facili, ma che portano sicuramente alla felicità.
Ecco, andiamogli incontro, domandiamogli di vincere le nostre paure. Domandiamo di saper accogliere, di saper aprire le porte dei nostri cuori a lui, giorno per giorno, momento per momento. Dice il Salmo: «Quanto è grande la tua bontà, Signore! La riservi per coloro che ti temono, ne ricolmi chi in te si rifugia» (Sal 30,20). E il Signore ripete: «Ecco sto alla porta e busso, se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20).
Accogliamo il Signore, eccolo. Oggi viene, è alla porta del nostro cuore, bussa: apriamogli! E chi non vorrà cenare con lui il Giovedì Santo, amandolo, e chi non vorrà tenergli compagnia il Venerdì Santo, seguendolo. E chi non vorrà celebrarlo risorto, il Sabato Santo, nella Veglia pasquale, vivendo con lui. Poi, domenica, annunciandolo. Eccolo: «Osanna, benedetto colui che viene, il Re» (Gv 12,13).

Omelia V domenica di Quaresima

Belforte, 18 marzo 2018

S.Cresime

Ger 31,31-34
Sal 50
Eb 5,7-9
Gv 12,20-33

In un teatro ha colpito la mia attenzione un cartellone con l’invito a partecipare ad una conferenza per i genitori. Il titolo era: «Che cosa farò da grande». Qualcuno, provocatoriamente, ha corretto il titolo in: «Che cosa farò di grande». Questa semplice correzione mi fa pensare con gioia ai dieci ragazzi che stanno per ricevere la Santa Cresima. Che cosa faranno di grande?

Ci troviamo di fronte ad un brano di Vangelo di autorivelazione di Gesù come Messia Salvatore. Farò soltanto tre sottolineature.

1. «Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21).

Un gruppo di Greci – i Greci, insieme ai Romani, facevano parte delle forze che colonizzavano la Palestina – si è interessato al maestro Gesù. Essi si avvicinano a due apostoli che portano un nome greco, Andrea e Filippo, e dicono: «Vogliamo vedere Gesù». Un desiderio che anche noi abbiamo provato o proviamo. Qualcuno potrebbe dire di aver visto film bellissimi su Gesù; qualcun altro inviterebbe a guardare il volto di Gesù come l’hanno dipinto i primi artisti o quelli del Medioevo o del primo Rinascimento (Giotto, Masaccio, ecc.). Con tutto il rispetto per i grandi artisti, sappiamo bene che Gesù non è una figurina, ma una persona viva. Come si fa ad incontrare Gesù, come si può vederlo, sentirlo, toccarlo? Dov’è Gesù?
È qui! Voi, uniti insieme, meritate la presenza di Gesù. Lui ha detto: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Dunque, Gesù è qui, in mezzo a noi. Vuoi vedere il suo volto? Con gli occhi non lo vedrai, ma sentirai il suo calore, il battito del suo cuore, la forza della sua parola.
Gesù si fa presente anche in sette segni carichi di mistero: i sacramenti. Voi potrete dirmi: «Quando, durante la Santa Messa, alzi in alto l’ostia e noi guardiamo, vediamo soltanto il pane». Quand’ero un giovane sacerdote mi capitava di osservare attentamente il pane mentre spezzavo l’ostia e dicevo: «Signore, perché non riesco a vederti tra le briciole del pane… Però so che sei presente». Nella mia città, Ferrara, si conserva la memoria di un miracolo eucaristico emozionante. Nel 1171 un sacerdote di nome Pietro, mentre era in viaggio da Verona a Roma, si fermò a Ferrara e, quando spezzò l’ostia durante la celebrazione della Messa, da essa sprizzò sangue. Ancora oggi nella piccola volta, trasformata poi in una bellissima basilica, possiamo vedere le macchie lasciate dal sangue sprizzato da quell’ostia.
«Vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21).
Sapete come hanno fatto i Greci, i Romani, i Galli, i Celti a vedere Gesù? Hanno visto come i cristiani si volevano bene. «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

2. «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24).

Gesù dice che la sua vita è come quella di un chicco di frumento destinato a cadere per terra nel buio di un solco, nell’umidità della terra, ma che porterà molto frutto.
Per i ragazzi. Ho scritto una volta per i miei alunni una piccola drammatizzazione. Avevo immaginato che tre chicchi di grano erano usciti dal sacco dov’erano imprigionati, sacco che il contadino portava sulle spalle. Perché volevano uscire? Uno di essi desiderava respirare aria pura. Allora saltellò fuori dal sacco e si adagiò sul terreno, ma, dopo un po’ di tempo, mentre era sulla strada arrivò una gallina e lo mangiò. Addio libertà!
Un altro chicco di frumento desiderava prendere il sole e arrivò fino alla spiaggia. Dopo mezza giornata di esposizione al sole, si seccò completamente.
Il terzo chicco pensò fosse meglio tornare con gli altri chicchi; vide il solco profondo, umido, poco attraente, ma si tuffò. Ha scelto di rischiare, si è fidato.
La piccola storia dei tre chicchi di frumento finisce con la sorpresa della vita scaturita da quei chicchi.
Attenzione: Gesù non mette in rilievo “il morire”, ma “il portare frutto”; non sottolinea il sacrificio, ma la fecondità. Non si ottiene nulla di ricco, di bello, di splendido nella vita, se non attraverso il dono di sé, l’impegno, la fatica.

3. «La mia anima è molto turbata» (Gv 12,27).

Gesù, ai Greci che erano venuti per incontrarlo, dirà: «Attenzione amici, non crediate che il Messia sia come immaginate voi. Il Messia sarà innalzato da terra, sarà un Messia crocifisso. Non crediate che la mia gloria sia quella mondana; la mia gloria è fare la volontà del Padre. Inchiodato sulla croce diventerò il punto di attrazione universale» (cfr. Gv 12,32). Gesù aggiunge: «La mia anima è molto turbata» (Gv 12,27). Non bisogna togliere i turbamenti dalla vicenda umana di Gesù. Pensiamo a quando Gesù è andato nella casa di Giairo, dove si piangeva per la morte della sua bambina (cfr. Lc 8,41-42): Gesù si era commosso. Così alla tomba dell’amico Lazzaro (cfr. Gv 11,35). La gente lo vide piangere: «Guarda come lo amava» (Gv 11,36). E, nel Getsemani, quando sente il peso di quello che sta per succedere, arriva a gridare: «Padre, allontana da me questo calice» (Mc 14,36) e suda sangue, dice l’evangelista Luca (cfr. Lc 22,44).
Il turbamento di Gesù viene incontro alle nostre paure, alle nostre fatiche, alle nostre lacrime. Gesù ha paura, ma non è rinunciatario; la sua è la paura del coraggioso.
Invito ciascuno a portare a casa una delle tre frasi su cui riflettere durante la settimana. «Vogliamo vedere Gesù», per incontrarlo davvero; oppure «Come il chicco di frumento ha bisogno di cadere per terra per portare vita»; o «La mia anima è turbata», pensando che anche Gesù ha versato lacrime, ha sudato, faticato, ma ha detto «sì» e da quel «sì» siamo nati noi.

Messaggio per la Giornata internazionale della donna

Giovedì 8 marzo la comunità diocesana di San Marino-Montefeltro partecipa con la preghiera e la riflessione alla Giornata internazionale della donna. Un’iniziativa particolare si è svolta ieri sera, 7 marzo, in preparazione alla Giornata: si è trattato di una veglia tenutasi a Pennabilli alle ore 21 presso il celebre monastero agostiniano “della Rupe”. Di seguito pubblichiamo un messaggio-riflessione del Vescovo Andrea Turazzi.
Abbiamo dato un tema alla Giornata in continuità con gli anni scorsi: «Quale uguaglianza?», «Quale dignità?», «Quale bellezza?».
Quest’anno: «Quale gioia?». Facciamo notare la forte provocazione contenuta nello slogan: in questi anni è andata crescendo la piaga orribile del femminicidio; è di questi mesi la denuncia di ogni forma di abuso, ultima emergenza dopo quella di ataviche discriminazioni.

«Quale gioia?».

Giornali, social e media alzano la voce della protesta, della denuncia e dell’accusa. E Dio ci scampi dall’ipocrisia. Nella Giornata della donna si terrà in Italia una giornata di sciopero. Noi ci siamo, con la riflessione e la preghiera. L’interrogativo «Quale gioia?» dice la nostra volontà di far pensare; pensare nel nostro cuore, pensare insieme. Si tratta di una presa di coscienza e di un cambiamento di mentalità indispensabile. Noi lo facciamo insieme a tutti, uomini e donne che hanno a cuore la dignità della persona umana, di ogni persona. La nostra preghiera è richiesta di perdono, invocazione di aiuto, lode a Colui che creò l’uomo a sua immagine: «A immagine di Dio lo creò, maschio e femmina li creò» (Gn 1,27).

«Quale gioia?».

Anzitutto la gioia della donna: gioia per la sua altissima vocazione; gioia per la sua straordinaria capacità di amare e di essere sorgente inesauribile nel dono di sé; gioia per il suo essere nel grembo ricamatrice di bambini, collaboratrice del Creatore; gioia perché apre la danza nelle lotte di liberazione come Miriam (cfr. Es 15,20) e intona il Magnificat come Maria (cfr. Lc 1,46ss).

«Quale gioia?».

La gioia dell’uomo che alza un grido di stupore dinanzi a colei che gli è stata regalata nel sonno, unica capace di colmare la sua solitudine (cfr. Gn 2,23). Gioia dell’uomo che considera la donna delizia dei suoi occhi (cfr. Ez 24,12) e che per lei lascia padre e madre (cfr. Gn 2,24).

«Quale gioia?».

La gioia di Dio di fronte all’opera delle sue mani e alle opere che la donna compie nella storia dell’umanità, storia di salvezza. La gioia di Dio che viene al mondo attraverso la carne della donna e la canta come sposa, sposa di lui, sposo innamorato. Gioia di Dio che riveste la donna di sole, la corona di stelle e pone la luna sotto i suoi piedi (cfr. Ap 12,1). Dio è pieno di gioia per Maria e in lei per tutte le donne.

Omelia III domenica di Quaresima

Pennabilli (monastero Agostiniane), 3 marzo 2018

S.Cresime a 5 giovani della parrocchia di Sant’Agata Feltria

Es 20,1-17
Sal 18
1Cor 1,22-25
Gv 2,13-25

Ecco un’adorabile “imboscata” che la Provvidenza del Signore ha preparato per voi: ricevete il sacramento della Cresima nel pieno della giovinezza e della maturità. Preciso: la Cresima non è una benedizione, è un sacramento, cioè azione che Cristo Signore compie su di voi, un’azione efficace, anche se va al di là del sentire, del vedere, del racchiudere.
Anche se sentirete un profumo, quello del crisma, è solo un’allusione al profumo di un bacio che il Signore stampa sulla vostra anima: tornerete diversi da come siete venuti. Anche se vedete davanti a voi un vescovo (ministro della Cresima), è proprio un successore degli apostoli a cui il Signore ha dato il compito di donare lo Spirito Santo mediante l’imposizione delle mani. Anche se siete racchiusi in questo luogo così suggestivo (il monastero delle Agostiniane), l’azione che il Signore compie su di voi ha il potere di mandarvi in mezzo al mondo per essere testimoni di lui e del suo Vangelo.

2.

Ecco davanti a voi infinite strade e possibilità. Nessuno vi obbliga a prendere questa o quella. C’è chi riesce a navigare su questa indeterminatezza, ma credo non sia felice e neppure veramente libero. Un’allusione a questa situazione è ben raffigurata da un film (fantascientifico) uscito nel 2012 in Italia, Mr. Nobody. Ricorre spesso nella sceneggiatura del film l’immagine di una selva di binari che si incrociano. Infinite strade, infinite soluzioni. Paradossalmente una libertà che non si esprime. È proprio della libertà scegliere, decidere, preferire. Voi avete scelto, avete deciso, avete preferito. Dal mare sconfinato dell’indeterminatezza vi dichiarate cristiani e volete esserlo ben sapendo che si tratta della scelta impegnativa che è l’adesione ad una persona. Forse qualcuno, o più di uno di voi, ha già scelto la persona con cui vivere e fare famiglia. Scegliere è anche scartare, ma soprattutto scegliere è amare. Voi ci state dicendo che amate Gesù Cristo, che in lui trovate il senso della vita. Ok: non conoscete molto di lui (chi può dire di conoscerlo pienamente?); forse non capite neppure il sacramento che state per ricevere. Non preoccupatevi. Ascoltate quello che il Signore disse a Pietro quando non voleva lasciarsi lavare i piedi: «Quello che io sto per fare tu non lo capisci, lo capirai un giorno» (cfr. Gv 13,6-7).
La liturgia ci ha messo davanti il dono delle “dieci parole”. Preferisco dire “le dieci parole”, anziché “i dieci comandamenti”. La prima formula è più vicina alla Bibbia. Di solito per legge intendiamo regole e obblighi, necessari per il buon funzionamento della società e sanzionati da pene per chi trasgredisce. Nella Bibbia la legge (Torah) ha un significato più ricco: è la sapienza che spiega il nostro essere. Non nasce da una convenzione, ma da una esperienza di reciproca appartenenza e, prima ancora, nel contesto di un atto di liberazione. Come una battuta: vuoi sapere come funzioni? Chiedilo a chi ti ha fatto. Il Decalogo così inteso è Vangelo, cioè buona notizia per noi. È la nostra piena realizzazione ed esperienza di libertà.
C’è una sorta di aritmetica delle “10 parole”: il numero di 10 è ottenuto legando la seconda parola alla prima e facendone una sola: «Non avrai altro Dio all’infuori di me» e «non ti farai alcuna immagine…» e sdoppiando l’ultima riguardante il desiderio cattivo in due “parole”: «Non desiderare la moglie del tuo prossimo» e, al decimo posto: «Non desiderare la roba d’altri». Ma tutto il Decalogo può essere riassunto in due parole: «amare Dio» e «amare il prossimo». In questo gioco aritmetico si può anche arrivare ad una sola “parola” dalla quale tutto discende: «Io sono il Signore Dio tuo». La nostra verità, l’antropologia di Gesù, non è che questa: «Io sono tuo». E questo è motivo di gioia.
Il Signore donandoci il suo Spirito ci rende capaci di crescere in questo rapporto con lui, di corrispondere al suo amore, di stare nella sua volontà.
Per concludere possiamo anche dire, rispetto ai contenuti del Decalogo, che un primo grappolo di parole (le prime tre) si riferisce direttamente alla nostra relazione con Dio; il secondo grappolo si riferisce al grande dono della vita (onorare la sua origine nel padre e nella madre, non spegnere il suo essere nel presente, non insidiare l’intimità che la fa sbocciare); il terzo grappolo riguarda le parole che riguardano le nostre relazioni con gli altri. Preghiamo con le parole del Salmo che abbiamo cantato poco fa: «Gli ordini del Signore sono giusti, fanno gioire il cuore; i comandi del Signore sono limpidi, danno luce agli occhi» (Sal 18,8).