Omelia nella II domenica di Avvento

Mercatale, 9 dicembre 2018

Chiusura della Visita Pastorale a Mercatale

Bar 5,1-9
Sal 125
Fil 1,4-6.8-11
Lc 3,1-6

(da registrazione)

Un tempo l’incipit di questo brano evangelico mi pareva deludente. Un inizio così solenne, così circostanziato da un punto di vista storico, mi sembrava più adatto per introdurre il racconto della nascita del Redentore. «Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea… » (Lc 3,1). Questa lunga e solenne introduzione mi sembrava più pertinente se riferita al Messia, al Signore che viene. Ma mi sbagliavo. In realtà questo inizio solenne introduce un evento straordinario: «La Parola di Dio scende su Giovanni» (Lc 3,2). La parola che scende su Giovanni è Parola di Dio: è Dio che parla, che non lascia sprovvisto l’uomo dell’indirizzo di vita che gli è necessario. Ed è una Parola creatrice, come un giorno la Parola che disse e tutte le cose furono fatte (cfr. Gn 1,1-5).
Cari fratelli e sorelle di Mercatale, la Parola continua a scendere con abbondanza su ciascuno di voi e «come la pioggia e la neve scendono giù dal cielo e non vi ritornano senza aver fecondato la terra» (Is 55,10), così è di questa parola che opera in voi che credete. Questo è stato anche il tema dell’assemblea parrocchiale di ieri sera:

  1. Ascoltare, custodire, vivere la Parola;
  2. Credere alla Parola, accettare la sfida, non indietreggiare di fronte alle sue proposte.

Non lasciate il Sacro Libro nello scaffale della biblioteca o in fondo ad un cassetto. Mettetelo in vista nella vostra casa, su una credenza o su un mobile dignitoso, con un fiore accanto. Quella Parola faccia luce sui vostri passi.
Però la Parola è anche da studiare, da studiare insieme. La parrocchia – me ne sono reso conto abitando con voi una settimana intera – offre svariate opportunità. Anzitutto, la più importante, all’interno della Santa Messa, dove viene servita la duplice mensa: la mensa della Parola e la mensa del Pane eucaristico. Poi ci sono diversi momenti formativi: per l’iniziazione cristiana dei bambini e dei ragazzi, per i giovani, soprattutto per gli animatori dell’oratorio che ho avuto la fortuna di incontrare già il primo giorno (un incontro molto bello). Chiedo a voi animatori dell’oratorio: abbiate cura della vostra formazione personale. Sarebbe bello se teneste i contatti con l’Azione Cattolica Diocesana, soprattutto col settore giovani. È importante avere a cuore anche la formazione degli adulti e dei genitori alle prese con l’emergenza educativa. È stato molto utile l’incontro con i genitori, che hanno fatto un momento di lavoro di gruppo, proprio come voi ragazzi. Un gruppo ha scritto una lettera ad un ipotetico figlio, un altro ha raccolto appunti per un “Manuale del perfetto diseducatore”, facendo un po’ di autocritica; un altro gruppo ha scritto il decalogo dell’educatore. Sono emersi spunti molto interessanti, sicuramente da riprendere.
La Parola di Dio scende su ciascuno anche nella celebrazione dei Sacramenti. Penso, in questo momento, al sacramento della Confessione. La Parola di Dio ci offre uno sfondo sul quale distendere la Confessione, uno sfondo di speranza, di amore, di misericordia del Signore. La Parola di Dio ci dice di non temere e ci dà una griglia per fare la revisione di vita o esame di coscienza.
C’è, infine, la lettura attenta, meditativa della Parola. Il fruscio delle pagine della Sacra Scrittura che si sfogliano, richiama il fruscio di Dio che cammina nel giardino per incontrare Adamo (cfr. Gn 3,8).
Ecco, il Signore viene: siamo in Avvento. Diciamogli: «Parla Signore, il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9). Ecco lo stile col quale andare incontro alla “Parola fatta carne”. Gesù Risorto cammina in mezzo a noi. Quando ascoltiamo insieme la sua Parola il nostro cuore arde: proviamo anche noi l’emozione dei discepoli di Emmaus (cfr. Lc 24,32). Però bisogna ripetere dentro di noi: «Signore, sei tu che mi parli». Impegniamo tutta la nostra fede nel dirlo.
Qualche volta può accadere di pensare che la nostra condizione di cristiani del terzo millennio sia di svantaggio rispetto a quella dei primi discepoli del Signore. Loro hanno visto il Risorto, lo hanno toccato; Tommaso ha addirittura messo il dito nelle sue piaghe. Nei racconti pasquali c’è un dato ricorrente. I discepoli, ogni volta che incontrano Gesù Risorto, non lo riconoscono. Così è accaduto a Maria di Magdala: «Sei tu che hai portato via il Signore? Dimmi dove l’hai nascosto» (cfr. Gv 20,15). E non si rendeva conto che stava parlando con lui! Allo stesso modo, i discepoli di Emmaus hanno fatto chilometri in compagnia di un personaggio misterioso che chiede: «Perché siete tristi?». E loro: «Solo tu non sai quello che è capitato a Gerusalemme… » (cfr. Lc 24,17-18). Così per i pescatori sul lago. Hanno visto uno che aveva acceso un fuoco e gli diceva: «Andate, prendete il largo… ». «Ma abbiamo già pescato tutta la notte». «Andate, gettate la rete dall’altra parte della barca» (cfr. Gv 21,4-5).
Sarà la parola pronunciata da Gesù ad aprire i loro occhi. Gesù chiama Maria per nome. «Maestro, sei tu?», risponde lei. E in quel momento lo riconosce. Così accade ai discepoli di Emmaus. Quando entrano alla locanda mettono a fuoco: «Era Gesù che camminava con noi, che ci spiegava le Scritture!». E infine, anche i pescatori sul lago, l’hanno riconosciuto tirando su la rete piena di pesci: «È il Signore!».
Non è così diverso il nostro punto di partenza. Anche noi riconosciamo il Risorto, Gesù, quando ascoltiamo e viviamo la sua Parola.
«Andiamo incontro al Signore!», canta il coro. Ringrazio il coro per il servizio che svolge per la comunità, per il suo aiuto alla preghiera. Di tante voci, fa una voce sola, un canto solo. Il coro sostiene l’assemblea ma non la sostituisce. Dialoga con l’assemblea.
La Parola di Gesù vissuta creerà nell’intera comunità di Mercatale un sociale cristiano. La nostra società ha tanto bisogno di questo. E ognuno di noi, nel paese, in fabbrica, nelle istituzioni, nei centri commerciali, ecc. porta il suo pizzico di sale: «Voi siete il sale della terra» (Mt 5,13), dice Gesù. È un compito che ci mette un po’ di soggezione. Non guardiamo noi stessi, ma quello che il Signore farà.
Sono stato in tutti questi luoghi, fabbriche, istituzioni, scuole, centri commerciali, poste, ecc. e devo ringraziare per l’accoglienza sempre gioiosa. Il mio passaggio voleva essere un segno di cortesia, di considerazione, di stima, anche di incoraggiamento.
Oltre ai momenti bellissimi vissuti in parrocchia, ci sono stati gli incontri con gli anziani e gli ammalati. Ho visto le loro sofferenze e le loro preghiere. Quanto amano… e quanto sono amati: ho visto tanto affetto attorno a loro.
Poi applaudo a tutte le associazioni culturali, di volontariato, sportive, ecc. E che dire della banda musicale? Tenetela viva!
Avete delle sfide pratiche da affrontare con l’aiuto del Consiglio Pastorale e degli Affari Economici; prima fra tutte il superamento del distacco tra il centro storico e il nuovo quartiere residenziale: Mercatale è un paese unico! Poi, l’integrazione con i neocomunitari (non gli extracomunitari: cambiamo parola!). Ci sono tante possibilità di incontro. E infine, il favorire l’unità pastorale con le parrocchie vicine: occorre aver pazienza con gli orari; anche se le parrocchie attorno sono piccole (ricordate l’episodio di Giuseppe…), sono comunità che hanno tanta storia di fede: pensatevi come un’unica “base missionaria”.
Concludo parafrasando il Vangelo: «Nell’anno 2018, essendo Sommo Pontefice Papa Francesco e presidente della Repubblica Sergio Mattarella, sotto il ministero pastorale di don Alessandro Santini, la Parola di Dio è scesa su Mercatale». Evviva!

Omelia nella Solennità dell’Immacolata Concezione

Caprazzino, 8 dicembre 2018

Chiusura della Visita Pastorale a Caprazzino

Gen 3,9-15.20
Sal 97
Ef 1,3-6.11-12
Lc 1,26-38

(da registrazione)

Grazie per l’accoglienza che mi avete riservata, so che non riguarda tanto la mia persona quanto chi rappresento, il Signore Gesù. Come ha detto un bambino ai suoi genitori: «Ho capito chi è il Vescovo: è un amico di Gesù». Così ha sintetizzato la teologia della successione apostolica! La vostra accoglienza va a Gesù, di cui siamo perdutamente innamorati. Siamo suoi discepoli, lo seguiamo e siamo i destinatari di quella beatitudine che Gesù ha dedicato a noi parlando con Tommaso: «Beati quelli che crederanno in me senza avermi visto» (cfr. Gv 20,29).
Vi ringrazio anche per l’incoraggiamento che mi date con la vostra amicizia, aiutandomi a fare il vescovo.
Martedì sera ho incontrato gli amici del coro e del Consiglio Pastorale Parrocchiale e ho dato dei “voti”. Tutti “voti” pieni. La chiesa è tenuta bene: i fiori (sempre veri, vivi), le tovaglie splendenti, il canto ben eseguito, ad esprimere cuori che traboccano. Complimenti! Continuate così.
Come in tutti i paesi e le comunità ci sono le inevitabili incomprensioni; confido sappiate superarle. Siate uniti tra voi. Stiamo attraversando momenti non facili, anche nella Chiesa. Ci sono sempre meno sacerdoti. Forse il Signore vuole che la nostra Chiesa sia un po’ meno clericale, vuole che valorizziamo di più i laici e i ministeri laicali. Una volta i sacerdoti facevano tutto; erano preparati e intraprendenti, ma trattavano i battezzati come un generale tratta i suoi soldati. Si è scoperto pian piano – c’è voluta la grande lezione del Concilio Vaticano II – che il Battesimo costituisce i fedeli laici nella corresponsabilità. Un conto è la delega e un conto è la corresponsabilità. Un insegnante di religione mi ha raccontato che un giorno aveva detto ai ragazzi: «Fate un disegno col quale esprimere i vostri sentimenti spirituali più profondi». Un bambino aveva disegnato una barca in mezzo ai flutti del mare. L’insegnante chiese al bambino cosa c’entrasse con lui quella barca. Il bambino rispose: «Ho disegnato la Chiesa». E aggiunse: «La Chiesa mi appartiene!». Quel bambino aveva ragione. Faccio un appello a tutti voi: «Ognuno, per la sua parte, si senta corresponsabile».
Nella Chiesa “ad intra” ci sono vari ministeri: c’è chi legge la Parola di Dio, chi canta, chi lavora nel settore della carità, chi cura i bambini nella catechesi… Poi, ciascuno di voi, là dove vive e dove lavora, è la Chiesa. La Chiesa poggia su ognuno di noi. Ognuno di noi ha il compito di portare Gesù.
Oggi abbiamo la gioia di celebrare la festa dell’Immacolata. Vorrei incentrare l’attenzione sui nomi che diamo alla Madonna. Noi la diciamo “Madonna”, che vuol dire “mia signora, mia donna”. In realtà la Madonna ha tre nomi propri che sono tutti racchiusi in questa pagina di Vangelo. In ciascuno dei tre nomi vi sono i tratti di un’autentica spiritualità mariana.
Il primo nome gliel’ha dato la famiglia, il babbo e la mamma, san Gioacchino e sant’Anna. Un altro nome gliel’ha dato il Cielo: il nome con il quale l’ha chiamata l’angelo. Il terzo nome è quello che la Madonna ha dato a se stessa. Il primo nome è Maria, o Miriam. Gioacchino ed Anna pensando al nome della neonata hanno ricordato Miriam, la sorella di Mosè. Nella Bibbia ci sono tre episodi importanti riguardanti Miriam. Il primo fu collocato nella vicenda triste dell’uccisione dei primogeniti degli Ebrei. La mamma del piccolo Mosè lo sottrae agli aguzzini, nascondendolo in una cesta che abbandonerà alle acque del fiume Nilo. La sorella Miriam, stando sull’argine e tra le canne, segue premurosamente il cestello. È un’adolescente, ha dodici anni, però è già capace di “uscire da sé” per custodire il fratellino. Mimetizzandosi, vede quando la figlia del faraone raccoglie il bimbo e si offre per cercare chi potesse allattarlo. Così, la mamma di Mosè, senza essere riconosciuta, allattò il suo piccolo.
Nel secondo episodio Miriam ha ottantaquattro anni; gli Ebrei sono appena passati attraverso il mar Rosso. Miriam intona le danze e i canti in onore del Signore che ha liberato il suo popolo. Nel suo cuore di profetessa di 84 anni c’è ancora giovinezza. Talvolta, ci sono miniere di giovinezza anche nei cuori feriti dal dolore. Miriam è così: esplode in un inno di giubilo!
Terzo episodio. Durante la peregrinazione nel deserto Miriam muore e la Bibbia annota: «Miriam morì e non ci fu più acqua» (cfr. Nm 20,1-2). La presenza di Miriam accanto al profeta Mosè fu una presenza discreta: il condottiero è lui, ma Miriam c’è, semplicemente. Noi ricorriamo spesso alla Madonna. Sappiamo che solo a Gesù spetta l’adorazione; ma Maria, proprio perché madre di Gesù, è affidata a noi come sorella che veglia su di noi, come Miriam con Mosè. Noi siamo come Mosè, traballanti in un cestello tra le onde, ma sappiamo che sull’argine c’è lei, la sorella più grande, pronta ad intervenire. Come nelle nozze di Cana, quando venne a mancare il vino. Lei se ne accorge, è attenta, si preoccupa, si prende cura dei due ragazzi. La Madonna prevede, previene, predispone. È accanto!
Il secondo nome della Madonna viene pronunciato dall’angelo: è quello che festeggiamo oggi. Il suo nome è “kekaritomene”, in greco; “piena di grazia” in italiano. È il nome che gli ha dato il Cielo. Il Cielo si è stupito davanti alla bellezza di Maria. L’Immacolata, senza macchia perché preservata dal peccato originale. Oggi è la festa della bellezza di Maria, una bellezza che tracima nel suo volto, nel suo corpo, ormai risorto, in Cielo.
Veniamo al terzo nome. È quello che la Madonna ha dato a se stessa: «Io sono l’ancella del Signore». La Madonna ha cercato di fare la volontà di Dio. A volte protestiamo con la volontà di Dio, è comprensibile. Pensate a Gesù nel Getsemani, quando sudò sangue e pregò: «Padre mio, se è possibile, passi oltre da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Nei momenti difficili chiediamo al Signore la forza. C’è una volontà di Dio di “permissione”: continuiamo a credere al suo amore. C’è una volontà di Dio “significata”: i comandamenti, i doveri del nostro stato. Non parliamo di “rassegnazione alla volontà di Dio”, ma facciamo festa alla volontà di Dio! Dio vuole solo il bene, vuole solo la nostra pace, la nostra gioia. «Sia festa la tua volontà, come in cielo così sulla terra»!
Concludo con il mio grazie alla Madonna, contemplando i suoi tre nomi (uno più bello dell’altro): Miriam, cioè la sorella; “la piena di grazia”, ossia “la tutta bella”; l’ancella, pronta a fare la sua volontà.

Omelia nella I domenica di Avvento

Lunano, 2 dicembre 2018

Chiusura della Visita Pastorale a Lunano

(da registrazione)

1.

Cari fratelli e sorelle di Lunano,
avete risvegliato in me un sogno, il sogno di Gesù: il mondo unito. Nel sogno non c’è soltanto l’emergere dell’inconscio, quindi del passato, ma il sogno contiene sempre anticipazione e slancio. Sento Lunano, nel mio cuore, come un laboratorio, in cui i cristiani sono in prima linea per realizzare la preghiera di Gesù: «Che tutti siano una cosa sola (ut omnes unum sint)» (Gv 17,21). È il cuore del Vangelo.
Come si fa a fare un mondo unito? Da dove cominciare? Potremmo mandare una lettera al segretario dell’ONU? Incarichiamo i nostri governanti di farsi promotori di nuove iniziative? Il mondo unito lo costruiamo noi adesso, qui, stando insieme; lo costruiamo nella nostra famiglia, nella scuola, nella fabbrica dove andiamo a lavorare. Il mondo unito lo si costruisce attraverso rapporti veri.

2.

Continuate ad avere cara la famiglia.
Oggi entriamo nel tempo dell’Avvento. Gesù, quando è venuto al mondo, era povero, non aveva niente; è nato in un luogo di fortuna, in una grotta; è stato adagiato in una mangiatoia. Si è privato di tutto, ma non ha rinunciato ad avere una famiglia… e che famiglia!
Chiedo tutto il vostro impegno per la famiglia, a cominciare dalla vostra. Certo, la famiglia nasce dal torrente impetuoso che è l’amore tra un ragazzo ed una ragazza, felici di essere insieme e di fare un progetto per sempre, ma quel torrente impetuoso ha bisogno di argini, altrimenti si perde, diventa acquitrino. I cristiani fanno di tutto per tenere unita la famiglia, per proteggerla, per farla sempre più bella.
Penso al sacramento del matrimonio; se ne parla poco. La teologia del matrimonio è bellissima. Mi è capitato di parlarne ad un incontro in modo così esaltante che una coppia di fidanzati mi ha chiesto perché non mi fossi sposato.

Dico sette cose sulla famiglia (sarebbero molte di più).

  1. La famiglia è cellula fondamentale del vivere sociale: con questa affermazione siamo d’accordo tutti, indipendentemente dall’appartenenza politica. La famiglia è il primo mattone della costruzione sociale.
  2. È diritto di ogni bambino nascere in una famiglia. Tra i componenti della famiglia è importante creare quella realtà affettuosa che è indispensabile per una crescita sana.
  3. La famiglia è una indiscutibile risorsa economica. In una famiglia ci si appoggia gli uni agli altri, si condividono le spese.
  4. La famiglia è un sostegno per chi è fragile. Una delle cose più belle che don Bruno mi ha fatto vivere questa settimana è stato l’incontro con i nonni. Ho visto anche la sofferenza, portata con dignità.
  5. La famiglia ha il compito della trasmissione dei valori. I valori fondamentali non si imparano sui libri o su Google, si trasmettono con la vita. In questo la famiglia è una grande risorsa. Il più grande filosofo non vale quanto una mamma, quanto un papà.
  6. La famiglia è convivenza delle diversità. In famiglia le diversità si armonizzano: chi è maschio e chi è femmina, chi ha un’opinione politica e chi ne ha un’altra, chi va in chiesa e chi non ci va… In famiglia si impara a tenere unite le diversità.
  7. Soprattutto la famiglia è un’invenzione divina. L’uomo e la donna lasciano la loro casa per essere una carne sola e fondare una nuova famiglia (cfr. Gn 2,24).

 

3.

Don Bruno, questa settimana, mi ha fatto vivere la “Chiesa in uscita”, mi ha fatto sentire cosa vuol dire “avere l’odore delle pecore”, come dice il Santo Padre, accompagnandomi in tante fabbriche. Dobbiamo dire grazie perché il lavoro c’è e ci sono abbastanza prospettive per il futuro per i nostri giovani.
Cosa pensiamo al mattino quando andiamo a lavorare? «Uffa, anche oggi…». «Menomale che è venerdì e per due giorni non vado… ». Quello che si dovrebbe pensare quando si esce di casa, mentre si dà un bacio ad una santa immagine per chiedere protezione, è che si va a lavorare per amore. Ed è Dio che ha voluto che l’uomo sia impresario con lui, quando ha detto: «Ecco la terra, soggiogatela… riempitela» (cfr. Gn 1,28).
Anche Gesù ha lavorato nella casa di Nazaret e ci ha insegnato come affrontare la fatica. Anche gli animali lavorano: le rondini fanno dei nidi bellissimi, capolavori di ingegneria; le api sono straordinarie con la loro organizzazione sociale; i castori intrecciano dighe che sono opere eccellenti. Ma l’uomo, nel lavoro, sa mettere in gioco la libertà, il cuore, l’intelligenza. In fabbrica si lavora insieme, si socializza e, talvolta, si prova nostalgia, come a scuola. Ricordo come, da ragazzo, al primo giorno di vacanza mi mancavano i miei compagni di liceo.
Mi rivolgo ai giovani. Cari ragazzi, quando ci siete ci date una grande gioia. Quando mancate la vostra assenza pesa. Grazie di esserci! Voi chiedete spesso che la Chiesa si aggiorni. Ci sono cose che la Chiesa non può cambiare perché le ha dette Gesù. Gesù ha detto che sarà presente nel pane consacrato, la Chiesa non può dire che è solo un simbolo. Gesù ha detto che dobbiamo perdonare settanta volte sette; anche se si fa fatica a perdonare, non possiamo non avere la tensione al perdono. Così quando ha detto che il matrimonio è indissolubile e che ci si sposa tra uomo e donna, non dobbiamo pensare diversamente seguendo le mode. È il mondo che deve innalzarsi, non la Chiesa smentirsi.
Un invito ai ragazzi: fate atti d’amore. Come si fa a misurare la gradazione d’amore? Qual è il termometro? È il sacrificio. Per un atto d’amore bisogna sempre scomodarsi, fare spazio all’altro. E, se uno ama, non sente il sacrificio.
Concludo ringraziando per questi giorni. Ho capito di più la mia missione, ho capito chi è il vescovo e la grazia della successione apostolica. Un bambino ha detto con i suoi a casa: «Ho capito chi è il vescovo: è l’amico di Gesù». È vero, il vescovo ha una particolare intimità con Gesù (senza clericalismo). E cosa deve dire quando gira per il Montefeltro? Siate più buoni? Deve dire solo questo: Gesù è risorto ed è vivo in mezzo a noi!

Omelia XXXIV domenica del Tempo Ordinario Solennità di Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’Universo

Pennabilli (Cattedrale), 25 novembre 2018

Conferimento dei ministeri

Dn 7,13-14
Sal 92
Ap 1,5-8
Gv 18,33-37

(da registrazione)

Oggi, in tutta la Chiesa, da un capo all’altro del mondo, risuona un’unica acclamazione: «Gesù, nostro Re!». Profumi d’incenso, cori possenti… Ma adesso Gesù, fissando negli occhi, con amore, ciascuno di noi, fissando negli occhi la sua Chiesa domanda: «Dici questo da te oppure altri ti hanno persuaso?». È una parola, quella che suggerisce Gesù, che mette in crisi, una parola che apre i cuori alla verità. «Chi sono io veramente per te? Oltre le frasi fatte, le liturgie convenzionali e gli slanci. Se mi elimini dalla tua vita speri di regnare più tranquillamente nel tuo piccolo feudo oppure senti la mia regalità come una tua possibile liberazione?». In verità la sovranità di Gesù è un antidoto alla brama di potere, di contare, di apparire che cova in ogni essere umano. «Il mio regno non è di questo mondo (Gv 18,36)», dice Gesù. Questo non significa che Cristo è Re di un altro mondo, ma che è Re in altro modo.
Consentitemi un approfondimento. L’evangelista Giovanni riferisce gli atti processuali culminanti prima con l’incoronazione di spine di Gesù e poi con la sua crocifissione. L’umanità incredula presentata da Pilato e dai Giudei lo sbeffeggia come re per burla. In realtà è Dio che lo sta incoronando. Il brano può essere letto da un punto di vista storico e da un punto di vista teologico. Storicamente Pilato ha fiutato un pretendente politico che potrebbe sconvolgere gli equilibri della realpolitik romana. A Pilato non importano le complicate questioni religiose riguardanti il Messia. Lo preoccupa l’indiziabilità politica di Gesù sulla base delle accuse mossegli dal potere giudaico. «Dunque tu sei re?» (Gv 18,37). Si fronteggiano da una parte colui che detiene il potere e la spada e dall’altra il prigioniero disarmato. Che fa Gesù? Gesù non si smarca, ma vuole aiutare il governatore a capire l’accusa. Conferma di essere re, ma in modo assolutamente eterogeneo rispetto ai sospetti di Roma e anche rispetto alla grossolana accusa dei Giudei. Il suo regno non è di questo mondo, ma cambierà il mondo perché un’altra è la verità della storia. A questo punto Pilato è ancora più confuso: di quale regalità si tratta? Gesù è un re senza corte, senza esercito, senza appoggi politici, senza un seguito se non un gruppo di straccioni. Una regalità evanescente, legata esclusivamente alla verità. Ma che cos’è la verità? Pilato dovrà concludere per l’innocenza politica di Gesù, anche se firmerà l’atto di condanna.
Dal punto di vista della teologia, la lettura di fede degli atti processuali scorge nei fatti il realizzarsi del progetto di salvezza del mondo che ha in cuore Dio. L’accusa è vera: Gesù è Re, ma è Dio che lo incorona. Gesù è Re, perché viene da Dio. Il suo primo trono fu una mangiatoia, l’ultimo una croce. E da questa non ha voluto scendere. Il regno di Gesù non è una delle tante società esistenti, seppur potrebbe essere la migliore, ma la suprema rivelazione che la comunione con Dio è possibile per ogni uomo, a qualunque realtà politica appartenga. Non abbia paura Erode, non tema Pilato; la regalità di Gesù rivela quanto Dio ami l’uomo. Il suo è il regno dell’amore, l’amore che serve l’altro, che lava i suoi piedi, che fascia le sue ferite, che sostiene nel laborioso cammino. Il regno di Dio è lo spazio dove non solo Gesù ma tutti possiamo essere re, perché liberi di amare, ossia di rendere felice l’altro.
Nel momento della condanna ad una morte orrenda Gesù resta libero di amare, non si lascia sommergere dalla negatività, continua a trasformare il male dell’ingiustizia nel bene del perdono. La stessa libertà è di fronte a noi come programma di vita. Liberi di servire.
Cari amici, care amiche, oggi venite presentati per essere istituiti ministri, come lettori, come accoliti o come incaricati ministri straordinari della Comunione. È molto bello quanto sta per accadere questa sera nella nostra cattedrale. Stiamo per accogliere e benedire il vostro desiderio di corrispondere a quella che vi è sembrata un’intima chiamata del Signore: «Vuoi regnare con me, cioè servire?». Siete accompagnati dalla buona testimonianza dei vostri parroci, dalla vostra comunità, incoraggiati da tanti amici e dal favore della vostra famiglia. Attesto come sia provvidenziale che questa liturgia si celebri proprio oggi, solennità di Cristo Re.
Carissimi, vi assicuriamo la nostra preghiera, vi auguriamo un ricco ministero sotto la guida dei vostri parroci e di chi vi segue per incarico del Vescovo, il diacono Graziano. Dite, con gioia nei vostri cuori, a Cristo, che è Re di cuori: «Io sono tuo». Gesù Risorto vi accompagni e sia la vostra forza. Così sia.

Omelia nella XXXIII domenica del Tempo Ordinario

Scavolino, 18 novembre 2018

Giornata del ringraziamento

Dn 12,1-3
Sal 15
Eb 10,11-14.18
Mc 13,24-32

(da registrazione)

Il Vescovo deve sentirsi a casa sua in ogni assemblea; in un’assemblea di metalmeccanici all’interno di una fabbrica, oppure con un gruppo di insegnanti, ma, essendo figlio dell’ortolano di Stellata di Bondeno, in quest’assemblea mi trovo ancor di più a mio agio, perché fin da bambino partecipavo alle Giornate del ringraziamento al Signore per i doni della terra. Abbiamo ricordato le persone in difficoltà, in questi giorni, a causa del maltempo. Stavolta è capitato altrove, altre volte è successo da noi: fa parte della natura. Questo ci insegna la solidarietà e ci invita a camminare di più insieme.
Quando la Sacra Scrittura parla del creato lo fa sempre con un tono di grande ammirazione e soprattutto di stupore per la varietà delle creature che vivono in esso. Fin dalla prima pagina della Bibbia viene sottolineato come Dio benedica la molteplicità, la diversità, la pluralità di quello che produce la terra. «E la terra produsse germogli, erbe che producono seme secondo la propria specie e alberi che fanno ciascuno frutto con il seme, secondo la propria specie. Dio vide che era cosa molto buona» (cfr. Gen 1,12)». La stessa meraviglia per la diversità esplode anche nel Cantico delle Creature che il coro ha intonato all’inizio della celebrazione: «Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra matre terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti flori et herba». La varietà della vita è dunque un dono prezioso, un valore intrinseco che va tutelato.
Dobbiamo avere molta gratitudine per papa Francesco per la sua enciclica Laudato si’. Importante il primo documento sull’evangelizzazione, Evangelii Gaudium, ma era una tematica soprattutto intraecclesiale; bellissima l’esortazione apostolica Amoris Laetitia che parla dell’amore nella coppia e nella famiglia, ma l’enciclica Laudato si’ è veramente universale, dedicata a tutta l’umanità.
Qual è il problema che viviamo oggi? L’Italia dei mille borghi e dei mille campanili ha saputo resistere all’emergenza che è il contesto della globalizzazione commerciale che oscura la varietà delle specie, specializzando la coltivazione in un settore o in un altro. L’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) ha lanciato un appello: negli ultimi cinquant’anni il 75% della biodiversità delle colture è andata perduta; si è perduta la genetica delle piante. Questo è molto grave. La biodiversità è stata sottoposta a grandi interessi commerciali. Però, la nostra agricoltura, i nostri ambienti – in Italia soprattutto – ha saputo far fronte. C’è stato l’impegno e la riscoperta delle biodiversità; si è avuto un atteggiamento di protezione verso i semi più antichi, le piante e i frutti dimenticati. Questo ha fatto sì che quest’anno (2018) è stato dichiarato l’anno del cibo italiano. Lo dico con gratitudine al Signore, ma anche con riconoscimento per l’agricoltura italiana che ha saputo essere a favore della biodiversità.

Abbiamo potuto ascoltare, nel Vangelo di Marco, una piccola e breve apocalisse, ma molto drammatica. Direi – se mi consentite – che mai come questa pagina di Vangelo mostra come l’interpretazione dipenda dall’angolatura con cui viene letta. Ammettiamo di essere di quelli che al mondo stanno bene, che hanno posto solide radici e hanno davanti un futuro garantito. Per loro questo Vangelo diventa un forte richiamo, come a dire: «Stai in guardia perché tutto passa. Apri bene gli occhi e considera ciò che conta veramente, finché sei in tempo». La vita stimata del pianeta Terra è di circa 4,5 miliardi di anni. Quello che Gesù dice è molto reale: quando nel sole terminerà l’idrogeno, elemento fondamentale per innescare le reazioni termonucleari responsabili della maggior parte dell’energia emanata dalle stelle, il nostro sistema collasserà. La vita stimata è di circa 4,5 miliardi di anni, ma è possibile che la Terra muoia anche prima per cause imprevedibili oppure perché distrutta dall’umanità. Allora Gesù ci mette in allerta, invitandoci a considerare quello che vale veramente nella nostra vita. Ho fatto un accenno al sistema solare, ma nell’anima quante volte viviamo dei crolli, quante volte una luce si spegne, quante volte un universo interiore si sbriciola e stiamo male.
C’è un altro modo di leggere questa pagina. Per chi è dentro una grande tribolazione e si sente come ghiaia messa dentro alla betoniera enorme che è la storia, questa pagina di apocalisse può suonare come una riscossa, come una promessa. «Vedranno il Figlio dell’uomo venire sulle nubi con grande potenza» (Mc 13,26). Ognuno può dire: «Viene per me!».
Due modi di leggere, due categorie di persone che alla luce di questa pagina reagiscono in modo diverso, ma probabilmente tutt’e due le situazioni ci appartengono, pertanto possiamo far nostre tutt’e due le interpretazioni. Un’apocalisse che ci mette in guardia, ci dà il senso del nostro limite, ci ricorda che siamo friabili, fatti di materiale deperibile, e ci invita alla saggezza di puntare su ciò che rimane. Dall’altra parte, quando siamo nella prova, nella difficoltà, veniamo spinti a guardare avanti con speranza.
Vorrei concludere con un brevissimo accenno a come Gesù fa parlare le piante. «Guardate il fico (una pianta che vale per tutte)… ». Sembra quasi che le leggi dello Spirito siano specchiate nella creazione e ogni essere vivente, perfino un granello di polvere, è un messaggio di Dio. La sapienza dell’albero: «Quando i suoi rami si fanno teneri – dice Gesù – e mettono le foglie (piccole gemme che l’albero spinge fuori da sé, da dentro a fuori, come un piccolo parto), voi sapete che l’estate è vicina (cfr. Mc 13,28). In realtà le gemme annunciano la primavera piuttosto che l’estate, ma in Palestina, al tempo di Gesù, la primavera era brevissima; anche questo ci sta ad indicare che egli è vicino, è alle porte. Da una gemma, da una lezione che possiamo toccare con mano, impariamo il futuro di Dio che sta alla porta e bussa e non viene con un dito puntato, minaccioso, ma viene con un abbraccio, un germoglio di vita. Vieni, Signore Gesù!

Omelia nella XXXI domenica del Tempo Ordinario

Belforte, 4 novembre 2018

Dt 6,2-6
Sal 17
Eb 7,23-28
Mc 12,28-34

(da registrazione)

Oggi in Italia si ricorda la fine della Prima Guerra Mondiale, cento anni fa. Ognuno di noi ha qualche nonno o bisnonno che ha combattuto e, in molti casi, ha lasciato anche la vita. «Una inutile strage», disse papa Benedetto XV: 18 milioni di caduti. Abbiamo un dovere di riconoscenza verso di loro. Abbiamo il dovere di fare memoria. Preghiamo per tutti. Oggi faremo una grande invocazione per la pace.

Ho molte cose da dirvi alla fine di questa settimana trascorsa in mezzo a voi.  Quando penso a Belforte all’Isauro la prima immagine che mi viene in mente sono le chiavi attaccate alle porte. Le chiavi attaccate alle porte dicono fiducia. Belforte è un borgo nel quale ci si offre aiuto reciproco e il conoscersi bene è la prima risorsa insieme alla collaborazione tra municipio e parrocchia, tra istituzioni educative e associazioni, fino alla realtà che ho visitato poco fa: “Belfare” (geniale il nome!). Le chiavi attaccate alle porte mi hanno fatto ricordare che in una parrocchia soppressa della nostra diocesi, l’ex chiesa parrocchiale di Santa Flora in Sapigno (Anno Domini 1674), nella canonica è scolpita sulla porta una frase molto significativa: «Porta patens esto nulli claudatur honesto egenos vagosque induc in donum tuane concordia fratrum quovis muro tutior (Porta sii aperta, non chiuderti all’onesto. Fa’ entrare nella tua casa poveri e viandanti. La concordia dei fratelli è più sicura di qualsiasi muro)». A proteggere la casa e a darle sicurezza è l’amore che vi si vive.
L’adorazione e la preghiera hanno fatto da sfondo alla visita del Vescovo, in particolare durante il tempo della visita ai malati. Grande è il valore della preghiera: come le mani alzate di Mosè mentre il popolo combatte (cfr. Es 17,8-16). Dobbiamo recuperare la preghiera, soprattutto in famiglia. Due sono stati gli appuntamenti con maggior partecipazione. Al campo santo ho notato raccoglimento e devozione. Il primo messaggio che ho lasciato è la santità da cercare nella vita ordinaria, tra le persone a noi vicine, non in modelli astratti, ideali o sovrumani. Così, un laico può incontrare santi sul posto di lavoro, un vescovo nelle sue Visite Pastorali, un parroco nella benedizione alle famiglie, un paziente in un medico di ospedale e viceversa. Belforte ha l’onore di custodire la casa della Serva di Dio Maria Francesca Ticchi. È nata qui, è vostra concittadina, fa parte di voi, è cresciuta come le vostre bambine, poi, divenuta grande, ha chiesto con lo stratagemma di una bugia di poter consacrarsi direttamente al Signore. Una bugia perché si è spacciata per sua sorella un po’ più grande, che aveva lo stesso nome, con la complicità del parroco, perché non aveva l’età canonica per andare in convento. Gli innamorati sono pronti a tutto!
Il secondo messaggio, che ho dato nella cappella del cimitero, è stato un invito a riflettere sui Novissimi, cioè “le ultime cose”: morte, giudizio, inferno, paradiso. Un discorso sulla fine? In verità è stato un discorso sul fine della nostra vita, perché la domanda fondamentale è: «Per chi vivo?». Oggi abbiamo tanti idoli, tante sirene che ci condizionano e rischiano di schiacciarci nell’immanenza, nelle cose materiali. Recuperiamo la dimensione spirituale! Questo è stato oggetto del confronto con i membri del Consiglio pastorale. Provocatoriamente ho detto: «A Belforte come va con la fede?». La risposta è stata: «Gli anziani l’hanno mantenuta e la tengono salda, sono un esempio per tutti». In effetti, ho fatto visita a molti anziani e ho trovato persone di fede e di preghiera che ricevono ogni mese la visita del parroco che porta loro Gesù Eucaristia. «Noi adulti – hanno aggiunto – abbiamo tante distrazioni: impegni, lavoro, ambizioni, ecc. I giovani danno l’impressione di abbandono completo della pratica religiosa». Che fare? Anzitutto bisogna partire dal positivo che è in ognuno, perché ogni persona che viene al mondo nasce con una scintilla divina. Siamo fatti di Cielo e non può il cuore non aprirsi alla bellezza, alla bontà, alla verità: cos’è questo se non apertura a Dio? Da parte nostra – è stato detto – dobbiamo offrire ai giovani testimonianza pratica, esperienze forti, comunicazione che catalizza; occorre mettersi a livello dei ragazzi, cercare di accompagnarli, di ascoltarli e di suscitare in loro domande. Poi, essere vicini a loro in quella grande provocazione che è il dolore che, prima o poi, in un modo o in un altro, arriva e può dischiudere l’intelligenza, la coscienza e il cuore.
Ho incontrato scuole, istituzioni e associazioni e in quei contesti si è detto che la politica è «una forma alta della carità». Che altro è la politica se non ricercare il bene comune, mettersi a servizio di tutti, partecipare? E il volontariato che cos’è se non “fare volentieri”, con passione. Ringrazio per la cortesia, anzi per l’amicizia con la quale sono stato accolto nel Consiglio comunale, nelle scuole elementari e all’asilo nido.
Grazie anche della considerazione e del tempo che mi è stato dato durante la visita alle vivaci aziende di Belforte che assicurano lavoro e sono un presidio sul territorio.
Quanti incontri in questi giorni… Volti, nomi, situazioni. Vorrei, se fosse possibile, abbracciare tutti. Lo farò certamente con la preghiera. Ricordo i ragazzi e le frasi di Vangelo che mi hanno saputo dire quando ho chiesto loro: «Qual è la frase più bella del Vangelo?». Così ricordo gli sposi; insieme abbiamo meditato sul matrimonio come sacramento che aggiunge un valore inestimabile all’amore umano e dà forza a quella che è una vera e propria missione, la vita di famiglia.
Con un gruppo di adulti ho vissuto e meditato la pagina del Vangelo di Marco che racconta la risurrezione di Gesù: donne che vanno al sepolcro dove era stato posto Gesù, donne capaci di affrontare il dolore e l’oscurità della tomba e, proprio lì, l’annuncio della risurrezione: «È risorto! Non è qui». Se Gesù non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede (cfr. 1Cor 15,14). È proprio perché lui è vivo che ci riuniamo in assemblea come questa mattina, l’assemblea grande parrocchiale a Belforte o le assemblee delle chiese di Viano e di Torriola (almeno una volta ogni quindici giorni) o le assemblee occasionali a Campo, ma un’unica realtà parrocchiale, un unico cuore attorno al nostro don Franco del quale ho potuto conoscere da vicino la bontà, lo spirito sacerdotale, l’ospitalità. Sono stato una settimana in casa con lui: vitto, alloggio, lavoro pastorale e preghiera insieme, la sera e la mattina. Grazie don Franco!

Infine, ci portiamo a casa l’insegnamento dal Vangelo di oggi, un Vangelo che dobbiamo vivere per non essere “lontani” dal Regno di Dio, perché Gesù elogia così lo scriba che gli dice la sua frase di Vangelo: «Non sei lontano dal Regno di Dio, beato te» (cfr. Mc 12,34). Che Gesù lo possa dire anche di noi! Ecco: «Amare Dio con tutto il cuore… e il prossimo come se stessi» (Mc 12,30-31). La novità sta nell’unità di quelli che appaiono come due comandamenti distinti: amare Dio e amare il prossimo. Sono un unico comandamento. Dio non si presenta come concorrente dell’uomo. Sarebbe così se si dovesse scegliere fra l’amore per lui e l’amore per il prossimo. Ma – avete sentito – lo scriba adopera la congiunzione “e”, non la disgiuntiva “o”. Ed è anche la testimonianza che ci offre Gesù. Lui ha un grande amore per il Padre; questo amore lo trattiene sul monte a lungo a pregare e gli fa alzare gli occhi al cielo prima di gesti importanti, ma, nello stesso tempo, Gesù va ad incontrare malati, a soccorrere poveri e peccatori, a radunare folle disperse come pecore senza pastore. Dunque, un’unica fedeltà: a Dio e all’uomo.
Come messaggio per la Visita Pastorale vi lascio questa consegna: «Amare sempre, amare tutti, amare per primi». Così sia.

Omelia nella Solennità di Tutti i Santi

Pennabilli (Cattedrale), 1 novembre 2018

Ap 7,2-4.9-14
Sal 23
1Gv 3,1-3
Mt 5,1-12

(da registrazione)

La Prima Lettura è una pagina impegnativa tratta dall’Apocalisse, un libro di profezia per capire la storia, pieno di immagini. L’Apocalisse scrive di angeli ai quali è dato il potere di «devastare la terra»; effettivamente la storia ci appare caratterizzata da cuori assediati dal male, innocenze deturpate, coscienze ambigue, alleanze infrante, orizzonti oscurati, ingiustizie celate e ipocrisie palesi… Tuttavia – questo è il messaggio centrale dell’Apocalisse – c’è un angelo che sale da Oriente, che grida la fine di questa devastazione. Il compito di questo angelo è imprimere sulla fronte degli uomini il sigillo di Dio: un tau. Il tau è una lettera dell’alfabeto ebraico a forma di croce. Gesù un giorno dirà che ogni discepolo deve portare il tau, cioè la croce. Chissà se Gesù non alludesse tanto al suo supplizio sulla croce, ma al compiersi di una pagina del profeta Ezechiele, il profeta sfortunato (come spesso accade ai profeti) che deve assistere alla distruzione di Gerusalemme. In visione scorge uno scriba vestito di bianco mandato da Dio a perlustrare la città e a mettere il segno del tau sulla fronte di quelli che in questa dissoluzione, nonostante tutto, continuano ad avere fiducia in Dio: «Uomini che sospirano e piangono per tutti gli abomini che vi si compiono» (Ez 9,4). Probabilmente Gesù pensava davvero a questa pagina del profeta Ezechiele. Ma il numero dei salvati di cui parla l’Apocalisse è 144.000, un numero iperbolico (12 per 12 per 1000), un po’ come le stelle che Abramo aveva l’incarico di contare (cfr. Gn 15,5), tanti sono coloro che vengono salvati da questa devastazione. Detto in termini più semplici è il trionfo della grazia, dell’amore del Signore, della prossimità efficace di Dio, dono soprannaturale che supera le umane capacità percettive. Eppure la grazia trasforma l’uomo, rendendolo figlio di Dio, fratello di Gesù, dimora dello Spirito Santo.
Oggi è il giorno dei santi, e il nostro sguardo punta dritto sull’Agnello, l’Agnello immolato di cui parla l’Apocalisse (cfr. Ap 14,1). Da lui scendono fiumi di vita, colate di Cielo che ci avvolgono, ci trasformano, ci fanno santi. Allora si accorciano le distanze, viene esaudita l’invocazione dei discepoli: «Padre, sia festa la tua volontà, come in cielo così in terra» (cfr. Mt 6,10). La terra e le stelle esauriranno le loro scorte, questo mondo finirà, ma la fine della mondanità è segnata da un’altra unità di misura: avanza il Regno di Dio, la signoria di Dio. Quando due o tre sono uniti nel nome di Gesù questa signoria è già instaurata, presente (cfr. Mt 18,20). Quando si offre e si accoglie il perdono il nuovo già germoglia. Quando si vincono le seducenti tentazioni del male, si assapora già la gioia vera: le beatitudini!
Ci sono santi canonizzati; nell’urna esposta possiamo vedere le reliquie di santi martiri raccolti nelle catacombe. Quando si fonda una chiesa e si pone in essa un altare, occorre – è un uso antichissimo dei primi cristiani – mettervi le reliquie dei martiri e dei santi. Tanti sono i santi canonizzati. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Papa Francesco ne hanno canonizzati molti: bisogna aggiungere pagine al Messale! Questo è un segno fortissimo in un momento in cui la Chiesa sta soffrendo per scandali ed esempi cattivi. E invece in tutti i continenti crescono grappoli di santità. Poi, ci sono miliardi di santi che non vengono canonizzati, non diventano famosi, non vengono posti nelle nicchie, non appaiono nei dipinti dei grandi artisti, ma sono autentici testimoni della santità. E – quel che vale – sono notissimi a Dio.
Lunedì 9 aprile scorso è stata pubblicata la terza esortazione apostolica di papa Francesco dal titolo “Gaudete et exsultate”. Sono due parole che appaiono nel Vangelo delle beatitudini, in particolare nella beatitudine legata ai perseguitati, a quelli che patiscono per la fede. Gaudete et exsultate: godete e siate nella gioia. La lettera del Santo Padre ha come argomento la chiamata alla santità nel mondo contemporaneo. La santità – afferma papa Francesco – va cercata nella vita ordinaria, tra le persone a noi vicine. Può accadere che un laico incontri i santi nel luogo di lavoro; un vescovo ne incontri nelle sue visite pastorali; un parroco nella benedizione delle famiglie; il Papa nella Curia Romana… La santità non va cercata in modelli ideali, astratti, sovrumani. Anche se ci sono santi difficilmente imitabili, come San Francesco d’Assisi o come San Pietro d’Alcantara (addirittura criticato da Santa Teresa d’Avila per l’asperità delle sue penitenze). Essi sono icone, modelli di cui dobbiamo imitare lo spirito, ma non dobbiamo copiare i loro modi di fare. Papa Francesco fa comprendere come la santità non sia frutto dell’isolamento, ma si sperimenti nel corpo vivo del popolo di Dio. Quindi invita a non cercare vite perfette, senza errori. Anche i santi hanno le loro caratteristiche, i loro piccoli difetti di carattere. I santi sono persone che, anche tra imperfezioni e cadute, hanno continuato a credere e a fidarsi. Così sono piaciuti al Signore. La Beata Angela da Foligno in una sua esperienza mistica trascritta dal direttore spirituale si rivolse a Gesù con queste parole: «Perché devo sempre cadere e rialzarmi, perché non mi fai santa subito?». Gesù le ha risposto: «Angela, mi piaci così, quando cadi e ti rialzi». Possiamo tutti diventare santi, dobbiamo coltivare questo desiderio. La santità mette insieme umiltà e grandezza; si può applicare ad un lavoratore normale, a una nonna o a un papa: è la stessa santità. Auguri!

Omelia nella XXX domenica del Tempo Ordinario

Frontino, 28 ottobre 2018

Chiusura della Visita Pastorale alle parrocchie di Frontino, San Sisto, Monastero

Ger 31,7-9
Sal 125
Eb 5,1-6
Mc 10,46-52

(da registrazione)

Venerdì sera ho incontrato i bambini e i ragazzi con le loro catechiste. Ho rivolto loro alcune domande; ho chiesto di raccontare qualche parabola di Gesù, i miracoli che ha compiuto e, infine, ho chiesto se ricordavano qualche frase del Vangelo. Hanno raccontato molte parabole e miracoli, mentre hanno fatto fatica ad enunciare qualche frase. Mi è capitato di fare la stessa esperienza nelle parrocchie con gli adulti e mi sono accorto che tutti facciamo fatica a ricordare frasi. Le frasi che si ricordano di più sono quelle che si sono vissute. Quando viviamo una parola di Gesù, quella parola si imprime nella mente, nella memoria e nel cuore.

Oggi, il racconto del Vangelo di Marco ci fa imbattere in un disperato, un miserabile di cui non si dice neppure il nome; si ribadisce solo chi è suo padre: è «figlio di Timèo, Bartimèo (che significa “figlio di Timèo”)» (Mc 10,46), però del padre non si sa nulla. L’uomo è solo, ai margini della strada, cieco; ha un mantello che mette davanti a sé perché la gente vi getti qualche spicciolo. È ai margini della strada, ai margini della società, ai margini della vita, campa per miracolo, come gli uccelli nel cielo…

Ci sono, davanti a lui, tre reazioni. La prima è la reazione di quelli che gli passano davanti. Erano quelli che stavano con Gesù, che guardavano Gesù, che volevano ascoltare Gesù, ma di fronte a questo cieco sono del tutto indifferenti. È come se dicessero: «Sei nato cieco, è un problema tuo, non mio». Tra loro c’erano gli apostoli, i discepoli, le donne, tanta gente sorpresa da Gesù e interessatissima a lui, come possono essere oggi i vescovi, i sacerdoti, gli aderenti all’Azione Cattolica o alle Confraternite, il Terz’Ordine francescano, ecc. Tutte persone in ascolto di Gesù, ma – ahimè – incapaci di stupirsi, di commuoversi per quel cieco che sta ai margini della strada e che grida. È interessante questa “patologia spirituale”. Come fanno ad amare Gesù che non si vede, se non amano il prossimo sofferente che si vede. È uno dei problemi della vita cristiana: amare Dio e non accorgersi del prossimo che sta accanto. Mi viene in mente la frase della Divina Commedia: «Non ragioniam di lor, ma guarda e passa» (Dante Alighieri, La Divina Commedia, Inf. III,51). Tante volte siamo così.

C’è una seconda reazione ed è la reazione di quelli che si accorgono di questo cieco che grida, che è disperato e solo. Tutti sanno il nome del padre, ma il padre non c’è. Sta affrontando la sua disgrazia in totale solitudine. Lo vedono e gli dicono: «Sta’ zitto! Perché fai del chiasso?» (cfr. Mc 10,48). Non volevano che gridasse perché disturbava. Come a dire: «Hai questo destino, prendine atto e sta nel tuo cantuccio». Questo atteggiamento capita anche a noi, alla Chiesa di oggi, ai sacerdoti. Chi è, in fondo, il cieco ai margini della strada che grida la sua disperazione? È l’uomo di oggi; è la nostra gioventù. Tante volte noi non consentiamo ai giovani di esprimersi e scarichiamo su di loro valanghe di divieti, di proibizioni, di regole. Loro hanno la percezione che noi siamo di quelli che dicono: «Sta’ zitto, sta’ buono… ». Magari noi non lo facciamo con questa intenzione e, sicuramente, servono anche le regole. Ma non dobbiamo impedire che la creatura, anche la più sfortunata, la più lontana dalla fede, sbocci, si apra. C’è una gradualità nella vita cristiana, un cammino da compiere, pertanto occorrerebbe che quelli che vanno dietro a Gesù fossero persone che non giudicano, che non condannano, che non mettono subito davanti regole, ma che incoraggiano.

Racconto un fatterello di quando ero parroco. Una domenica alla Messa vidi un giovanotto elegante in fondo alla chiesa. Non l’avevo mai visto prima. Al termine della celebrazione sono andato a presentarmi. Mi ha detto che era appena venuto ad abitare a Ferrara. Era un ingegnere della Montedison. Gli chiesi come mai fosse venuto proprio in quella chiesa. Mi disse che non era praticante, ma era entrato per caso e una signora gli era venuta incontro con un bel sorriso, lo aveva accolto e gli aveva dato persino il foglietto per seguire meglio la Messa. Si sentì di rispondere alla cortesia con cortesia. Poi vide tanti ragazzi che cantavano. Gli piacque subito quella comunità. Allora gli dissi che tutti i martedì sera si teneva in parrocchia l’incontro dei “giovani adulti” e lo invitai a partecipare. Il martedì seguente venne; ci siamo conosciuti, ha iniziato a frequentare la parrocchia e ha chiesto di poter ricevere la Cresima. È stato molto bello. Se quel giorno fosse entrato in chiesa e non lo avesse considerato nessuno o se il parroco lo avesse sgridato perché non veniva mai alla Messa, credo che non avrebbe mai più messo piede in parrocchia. Invece, quell’accoglienza spontanea gli ha permesso di iniziare un cammino.

Il terzo tipo di reazione è quella di chi va dal cieco e gli dice: «Coraggio, alzati, ti chiama!» (Mc 10,49). Magari tutti avessimo questo atteggiamento! Non è il grido del povero cieco che suscita in loro questa reazione positiva, ma è l’atteggiamento di Gesù, che, quando passa, sentendo il grido: «Gesù, Figlio di Davide, abbi pietà di me», si ferma, si avvicina, cerca il rapporto. Gesù fa in modo che la persona venga fuori dall’anonimato, dalla realtà amorfa che è la folla; cerca di guardarlo negli occhi e si interessa di lui. «Che cosa vuoi che io ti faccia?» (Mc 10,51), gli dice. E il cieco chiede la vista.

La finale è sorprendente. Il cieco recupera la vista e Gesù dice: «La tua fede ti ha salvato» (Mc 10,52). Ma quale fede? Il cieco non ha fatto nessuna professione di fede formale; non faceva parte del gruppo dei discepoli, non era un seguace di Gesù. Solo in virtù del rapporto personale che Gesù stabilisce, butta via il mantello e comincia a seguirlo per la strada. Da mendicante solo, sfortunato, lungo una strada, diventa discepolo. C’è una metamorfosi, un cambiamento: è opera di Gesù, ma è opera anche della testimonianza di quelli che, vedendo Gesù che cercava il rapporto, sono andati dal cieco e gli hanno detto: «Coraggio, alzati, ti chiama!».

Vi lascio tre parole. La prima: essere prossimi. Il prossimo non è l’altro: sono io che mi devo fare prossimo.
La seconda è mettere in evidenza il positivo, essere di quelli che non inibiscono, che non frenano ma incoraggiano.
Racconto un ultimo episodio. Ho fatto da postulatore della causa di un santo parroco. Ogni parroco, dopo un funerale, ha il compito di scrivere nel registro dei defunti il nome e il cognome del defunto e i suoi dati personali. Nei registri dei funerali, a piè di pagina compare la voce “annotazioni”. In quello spazio, il parroco, se lo desidera, può annotare una breve descrizione del defunto. Don Dario – così si chiama quel parroco – era solito mettere in evidenza di ogni persona una caratteristica positiva; ad esempio, sebbene sapesse che una persona non veniva mai in chiesa, che era conosciuta come gran bestemmiatore, contadino sui monti attorno alla sua città, di lui scrisse: «Uomo molto attaccato alla sua famiglia», oppure sebbene conoscesse la fama di gran bevitore di un signore del paese, di lui trovarono scritto che era un «gran lavoratore». Di ognuno sapeva vedere il positivo.
Terza parola: offrire la nostra testimonianza, essere persone che invitano, che testimoniano non con le parole ma con la vita. Anche per noi è stato così, anche noi siamo dei ciechi, ai margini, ma c’è stato qualcuno che ci ha incoraggiato e ci ha detto: «Coraggio, alzati, chiama te!».

Omelia nel conferimento della cura pastorale della parrocchia dei Santi Pietro, Marino e Leone di San Marino Città a don Marco Mazzanti sdb

XIX domenica del Tempo Ordinario

Is 53,10-11
Sal 32
Eb 4,14-16
Mc 10,35-45

Gesù accondiscende alla preghiera di Giacomo e di Giovanni: «Che cosa volete che io faccia per voi?» (Mc 10,36). Gesù è disposto ad esaudirli. I due apostoli, fratelli, ci fanno sorridere per il loro candore: «Vogliamo sedere nella tua gloria uno a destra e uno a sinistra». Nella Bibbia la gloria di Dio non è la fama o la celebrità, ma la presenza luminosa, attiva e potente di Dio. La gloria, ad esempio, si è manifestata nello splendore del Sinai, il santo monte, poi nella nube lungo i sentieri dell’Esodo. I Salmi cantano i cieli che proclamano la gloria di Dio. Potremmo dire che la gloria è l’essenza stessa di Dio nel suo manifestarsi come presenza amorosa accanto al suo popolo e, quando è necessario, contro i nemici. Ma l’evangelista Giovanni, un giorno, dopo la lezione impartita dal Maestro, spiegherà che la gloria di Dio ha preso forma: la forma dell’umanità di Gesù, che è il sacramento dell’incontro con Dio. Dio adesso ha il volto di Gesù, non è qualcosa di inimmaginabile. Dunque, la gloria è mistero, presenza, prossimità… Ecco la gloria di Dio: il sorprendente modo di fare di Dio!
I discepoli, ancora in cammino, hanno equivocato; hanno pensato la gloria alla maniera umana. Ma la lezione è chiarissima, lampante: «Chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti» (Mc 10,44). Nonostante la gelosia che i due fratelli Giacomo e Giovanni hanno scatenato nel gruppo, ci riescono simpatici. Con fierezza, infatti, dichiarano a Gesù che sono pronti a tutto, anche a bere il calice. Fierezza nel proponimento e insistenza fiduciosa nella loro preghiera: «Vogliamo che tu ci conceda quello che ti chiediamo». Non aveva detto Gesù: «Chiedete e otterrete»? (Mt 7,7). Pregare non è pretendere che Dio faccia quello che vogliamo noi, ma disporsi a fare quello che lui vuole da noi, come insegna la preghiera del Padre Nostro: «Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra» (Mt 6,10). Così ha pregato Gesù nel Getsemani: «Abbà, Padre, tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non come voglio io, ma come vuoi tu» (Mt 26,39). Gesù parlando di un calice allude alla Passione; un calice amaro di tutto il fiele che è nel mondo.
Impariamo un’altra cosa: la gloria di Gesù è nel dono della sua vita. Una vita “rapita” per chi lo uccide, ma “donata” nell’interpretazione che dà Gesù. Da qui l’insegnamento del Signore sull’autorità. Autorità come servizio. Dio si è posto non sopra ma davanti; Gesù si pone ai nostri piedi e li lava: ci guarda dal basso! Il padrone fa paura, il servo no: il Vangelo sancisce la fine della paura di Dio. Il padrone esige e pretende per sé, il servo si impegna e vive per un altro. Il padrone si serve degli altri, Gesù fa sua la nostra causa. Il padrone giudica e castiga, Gesù perdona e soccorre. Il padrone vuol vedere i frutti, il Signore è seminatore.
Autorità che fa crescere. Fa sì che ognuno dia il meglio di sé, metta in gioco i suoi talenti. L’autorità vera non è mai autoritarismo, ma autorevolezza! Sa vedere il positivo e promuove… come don Bosco!
Autorità come dono di sé. «Il figlio dell’uomo è venuto per servire e dare la sua vita»: il parroco dirige, insegna, è competente, ma nello spirito del servizio e nella dimenticanza di sé per fare posto. Ora comprendiamo il senso evangelico del “potere”: il potere di amare.

Siamo qui questa sera per compiere un gesto che ricorda le investiture che si facevano nell’antichità. Consegnerò delle chiavi a don Marco. Le chiavi possono essere simbolo di potere. Un giorno Gesù disse a Pietro: «A te darò le chiavi… » (Mt 16,19). Così anche agli apostoli: «In verità vi dico, tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in Cielo e quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche nei Cieli» (Mt 18,18). Si tratta del potere come lo intende Gesù, come servizio, come dono di sé, come calice.
Consegnerò a don Marco due chiavi, la terza dovrete consegnarla voi, anche a nome di coloro che non sono presenti questa sera. La prima chiave che gli darò è quella della chiesa, della vostra chiesa, che vi accoglie e che vi sta tanto a cuore, che è il vostro gioiello, la vostra fierezza, il luogo a voi più caro. È la casa che accoglie i bimbi nel giorno del loro Battesimo, i fanciulli per la Prima Comunione, gli adolescenti per la Cresima. È spalancata per la Messa domenicale, per le feste della comunità e della famiglia, per i matrimoni. Tutti raduna per accompagnare i defunti al cospetto di Colui che accoglie misericordioso. Ma questa chiesa è di pietra ed è solo un segno; le pietre vive siete voi, che con la Parola di Dio e con i sacramenti avete sempre più autocoscienza di essere il popolo di Dio, il Corpo di Cristo, il Tempio dello Spirito Santo. In questa chiesa, il parroco, in mezzo a voi, anzitutto prega, adora, con voi, per voi. A don Marco dico: «Abbi cura di tutti, facendoti aiutare dai Consigli pastorale e degli affari economici per il discernimento comunitario ed amministrativo». A voi dico di corrispondere al vostro parroco, di collaborare, sì da essere tutti insieme «un cuor solo ed un’anima sola» (At 4,32). Per vivere quella sfida che si chiama sinodalità.
Consegnerò un’altra chiave: quella del Tabernacolo (il luogo dove conserviamo l’Eucaristia). Insieme con la Parola, l’Eucaristia ci fa comunità, ci fa famiglia. Il parroco custodisce il Tabernacolo come il cuore della Chiesa, cuore della comunità. L’Eucaristia è tutto per la Chiesa, tutto per il cristiano, perché è Gesù. Adoratela, onoratela, contemplatela insieme al vostro parroco.
C’è una terza chiave: non posso dartela, caro don Marco. È la chiave che possono darti solo i tuoi parrocchiani: la chiave dei loro cuori. Ognuno di voi ha la chiave del suo cuore: consegnatela, pieni di fiducia, al vostro nuovo parroco. Con la chiave che metterete nelle sue mani lui potrà entrare in voi, ascoltare le vostre confidenze, accogliere le vostre domande.
Tra poco accompagnerò don Marco al confessionale e metterò sulle sue spalle una “sciarpa” color viola; si chiama stola: è il segno della potestà di rimettere i peccati, ma anche di consolare, di guidare coscienze, di sostenere con la direzione spirituale.
Sono certo, don Marco, che i tuoi parrocchiani, con fiducia e schiettezza, metteranno nelle tue mani la chiave dei loro cuori; incontreranno, attraverso di te, la misericordia del Padre e non dovranno temere nel confidare fragilità e dubbi. Darai tanto a loro, ne sono certo. E altrettanto riceverai da loro. Crescerà, giorno dopo giorno, l’affezione. E, del resto – si sa – il cuore è il cuore: ha i suoi ritmi e i suoi tempi, ha bisogno di ricevere e di dare. Tu, don Marco, prenderai «l’odore di queste pecore» e loro da te prenderanno la sicurezza che la tua fede e la tua personalità sapranno infondere.
Ti affido un altro compito. Ti chiedo di avere a cuore le vocazioni: tutte, quelle religiose, quelle missionarie, quelle contemplative e quelle al sacerdozio. E a tutti chiedo di avere cara la vocazione al sacerdozio. Abbiamo tanto bisogno della presenza del sacerdote. Ce ne accorgiamo di più quando non c’è. Il sacerdote ci dà l’Eucaristia, tiene unita la comunità, pronuncia a nome di Gesù le parole che ci sono indispensabili: «Io ti perdono… da tutti i tuoi peccati». Così sia.

Omelia nella S. Messa di Chiusura della Settimana in onore della Madonna delle Grazie

Ferrara (Cattedrale), 14 ottobre 2018

Ester 8,3-8.16-17
Sal 66
Ef 1,3-6.11-12
Gv 2,1-11

Eccellenza carissima,
ti ringrazio molto dell’invito; è molto bello per  me essere qui questa sera, anche se non posso fare la tenda, perché sono missionario. Lo desideravo tanto da bambino e ora mi è possibile, vado in missione. Permettimi, prima di commentare la Parola di Dio, di lasciar partire un pensiero verso i tanti fratelli e sorelle, amici, maestri, a cui continuo a voler bene, e anche a quanti non ritrovo; per ultimo il carissimo don Marcello, parroco di Bondeno.

Oggi la Chiesa è in grande festa per sette nuove canonizzazioni. Tra i nuovi santi, Papa Montini. Le persone più mature ricordano certamente la sua persona, le tempeste che ha dovuto attraversare. Mi verrebbe quasi da chiedere se è stato più martire Paolo VI o San Oscar Romero. Prego con voi per il Santo Padre, il Pietro di oggi, Papa Francesco. Vorrei che gli fossimo vicini, come Maria sotto la croce che l’umanità sta vivendo nelle guerre, nei profughi, nei tanti poveri nel mondo, nelle difficoltà e nelle disunità che patisce la Chiesa. Grazie Santo Padre. Vediamo in te il volto misericordioso di Gesù e sentiamo il tuo desiderio di costruire ponti, di sciogliere nodi e catene che riducono le energie sul cammino verso la fraternità. La società di oggi vive tanti cambiamenti e sente, Santo Padre, il dono della tua parola. Vede in te la bussola che nella verità del Vangelo sine glossa porta ad accogliere, sprona al coraggio di affrontare le sfide, si alza per difendere la vita fin dal primo concepimento e anche nel saper vedere nelle inquietudini un motore educativo nello spirito del dialogo con tutti. Penso al Sinodo dei giovani che si svolge in questi giorni. Si sta rivelando sempre di più un Sinodo sugli adulti, perché il problema pare che siamo proprio noi adulti.

La liturgia di questa sera ci fa leggere una pagina del libro di Ester, un libro della Bibbia scritto per tempi difficili come i nostri. La protagonista, Ester, è una ragazza orfana che porta scritta nella sua storia la sofferta realtà della diaspora giudaica (l’esilio). La sua vicenda, ambientata nei sontuosi palazzi del re di Persia, assomiglia – spero che gli esegeti non mi sgridino – alla fiaba di Cenerentola: anche qui c’è un capovolgimento delle sorti. In breve: la splendida regina Vasti si rifiuta di comparire davanti al re che vuole mostrare al popolo e ai capi la sua bellezza. «È un oltraggio», gridano i saggi di corte. Si deve immediatamente sostituire l’orgogliosa regina. Viene bandito allora un concorso di bellezza: la più bella sarà regina al posto di Vasti. Anche la piccola Ester – il suo nome significa “Stella” – viene iscritta dallo zio che l’ha presa a casa sua da quando è rimasta sola e orfana. Il re rimane conquistato dalla sua bellezza e la vuole regina, accanto a lui. Intanto a corte un potente ministro del re, Amàn, sta organizzando un programma di sterminio degli Ebrei. Lo zio di Ester riconosce provvidenziale l’elezione della nipote: il Signore vuol servirsi di lei per salvare il suo popolo (Ester come Mosè!). E così accade: il popolo è salvo e lo zio di Ester viene esaltato mentre il cattivo ministro viene punito. Per i Giudei era spuntata una luce, una stella: ci fu letizia, esultanza, onore. La liturgia ci fa vedere nella provvidenziale intercessione di Ester il ruolo di Maria presso il Signore che l’ha voluta come tenerissima madre e regina, accanto a Lui e accanto a noi. Perché ricorrere a Maria? Forse che il Signore ha bisogno d’essere convinto? Sarebbe puerile pensarlo. L’Onnipotente vuole piuttosto coinvolgere la creatura nel suo piano d’amore e Maria in esso ha un posto singolare. La preghiera e il coraggio della piccola Ester sono figura della tenerezza e dell’amore di Maria. A Ferrara la chiamiamo: Madonna delle Grazie. Ho visto il bellissimo manifesto con tutte le immagini di Maria nel nostro territorio; una più significativa dell’altra, ognuna legata anche ad un evento fondatore della devozione in quel mondo. Ci fu un tempo in cui un’immagine di Maria stava all’ingresso della Cattedrale. Era chiamata la “Madonna del cantone”. I ferraresi, prima di salire verso il Signore, in questa infinita cattedrale, sostavano davanti a lei: erano certi che le cose erano fatte, si erano rivolti a lei… Non fu così anche alle nozze di Cana? La premura di Maria spostò in avanti le lancette dell’ora di Gesù!

Cana. C’è una festa di nozze; ce lo racconta l’evangelista Giovanni: una festa di paese, con tanti invitati. E lì viene proclamato il Vangelo dell’amore sponsale: Maria è sposa ed è attenta a quello che accade attorno a lei: un’attenzione servizievole e premurosa. Spicca il suo senso pratico. Previene l’imbarazzo degli sposi novelli. Anche qui c’è ancora una parola della madre verso il figlio Gesù: «Non hanno vino» (Gv 2,3). Sa che nella vita di ognuno l’amore può venir meno come il vino delle nozze. L’amore sulla terra è a rischio. La diminuzione, il venir meno, il tramontare sembrano una costante per le esperienze umane. Maria, a Cana, non si rassegna; sente che le cose possono andare diversamente: dal debole al forte, dal poco al tanto, dall’acqua al vino, dalla fragilità alla santità. Gesù, allora, interviene. Sarà il suo primo miracolo. Ma c’è una parola della Madre anche per i servi – e per noi – indaffarati tra i tavoli del ricevimento: «Fate tutto quello che lui vi dirà» (Gv 2,5). Nel racconto è prefigurata la vocazione di Maria ad una maternità universale: parlerà al suo figlio di noi e parlerà a noi di lui. Maria, Madre delle Grazie, prega per noi.