Omelia nella Solennità dell’Epifania

San Leo (Cattedrale), 6 gennaio 2019

Is 60,1-6
Sal 71
Ef 3,2-3.5-6
Mt 2,1-12

(da registrazione)

È sempre bello celebrare l’Eucaristia nella cattedrale di San Leo, ma è bello soprattutto vedere i vostri volti, la vostra partecipazione, accompagnata e incoraggiata dal coro che dà slancio alla preghiera.
Abbiamo sentito l’annuncio della Pasqua, sarà il 21 aprile, centro di tutto l’anno liturgico. Il Natale e tutte le altre feste non sono altro che una espansione, un approfondimento, un riverbero della grande festa della Pasqua. L’Epifania, in modo particolare, è il preludio della Pasqua di Gesù che si manifesta a tutti i popoli della terra. Abbiamo ripetuto nel canto: «Ti adoreranno, Signore, tutti i popoli della terra» (cfr. Sal 71). Il profeta Isaia intravvedeva, tanti secoli prima, l’invasione di Gerusalemme – non un’invasione minacciosa – di uno stuolo di cammelli e dromedari provenienti da Madian e da Efraim, portatori di doni, oro e incenso, per proclamare la gloria del Signore. L’Epifania è festa pasquale in cui si compiono le attese dell’Antico Testamento. È una festa missionaria. In ogni comunità si invitano persino i bambini ad aprirsi ad una prospettiva missionaria. È anche festa dei bambini, contro tutti gli Erode di turno che vedono i bambini come clienti interessati o, peggio, gli Erode che violano la loro purezza. In questo giorno diciamo ai bambini che li amiamo davvero, li rispettiamo, li ascoltiamo e vorremmo fargli il dono più grande: l’amicizia di Gesù!
Il Vangelo racconta come i Magi, maestri di astronomia, giungano a Betlemme e, pieni di gioia – così dice il Vangelo –, onorano Gesù come Signore e Salvatore. Eppure, i Magi, come i pastori, non sempre sono stati ben visti.
Che cos’hanno in comune i pastori e i Magi? Il fatto di mettersi in cammino. «Andiamo fino a Betlemme», si dicono l’un l’altro. I Magi giunsero da Oriente, da lontano. Il Signore si fa trovare da quelli che lo cercano. La ricerca di Dio esige un esodo personale, faticoso e a tratti doloroso, perché bisogna rimettere in discussione se stessi, le proprie convinzioni, i pregiudizi, le abitudini, le priorità.
Chi è colui che non trova il Bambino Gesù? Erode. Non perché non cerchi il Cristo. Lo cerca eccome! Consulta i suoi esperti, incarica i Magi di una missione ricognitiva, ma è troppo attaccato al suo palazzo, al suo trono. Lo cerca, ma sconvolto – dice il Vangelo – dalla paura di dover cambiare. Sente minacciato il suo potere che lo fa ricco e rispettato. Che hanno ancora in comune pastori e Magi? Hanno in comune la saggezza di lasciarsi guidare. I pastori non giungono a Gerusalemme perché buoni, ma perché sono obbedienti alla voce degli angeli. Così i Magi non sono partiti dalla loro terra per spirito di avventura, ma perché hanno visto la stella e l’hanno seguita fedelmente.
Ecco una parola per noi. Chi ha la presunzione di essere l’unica guida di se stesso, oppure di cercare Dio da solo, non trova nulla. Se avremo l’umiltà di lasciarci guidare – la stella è il Vangelo, gli angeli sono le nostre guide – avremo la gioia di trovare e potremo dire con sant’Agostino: «Quaesivi et inveni (ho cercato e ho trovato)».
Vi consegno due verbi: prendeteli come parola di vita, che vi accompagni tutta la settimana: «Alza il capo e guarda». Due verbi bellissimi. Ricordo distintamente il discorso che Benedetto XVI tenne sulla piazza di Pennabilli, quando venne il 19 giugno 2011. Adoperò una metafora adatta al cuore e all’intelligenza dei giovani. Parlò di finestre aperte sull’infinito. Vorrei concludere con un commento un po’ singolare al Salmo 8, lode cosmica a Dio che sale anche dalla bocca dei bambini e dei lattanti. Un midrash dice: «Come mai l’autore del Salmo chiama a raccolta le creature della natura, nomina le stelle, gli animali e non nomina il sole? Perché Davide lo compose nel cuore della notte, nella notte d’Oriente quando il cielo, nella sua oscurità, rivela l’infinità delle stelle. Davide si era alzato, svegliato dalla brezza che accarezzava l’arpa che teneva nella sua stanza. Andò alla finestra. “Oh, il cielo!”. Il cielo appariva in tutta la sua bellezza: le stelle, le ombre, gli animali che si muovevano nel bosco. Davide prese l’arpa e compose il Salmo 8». L’autore del midrash conclude, in modo un po’ bizzarro, dicendo: «Se comperate una casa, o la prendete in affitto – mi raccomando – prendetela con finestre grandi». Un’allusione alla nostra ricerca di infinito, al nostro sguardo che deve essere ampio. Ecco la fatica dello studio per gli studenti, per tutti noi un invito a buone letture, all’attenzione verso le creazioni artistiche, ad imparare a ragionare criticamente su quanto vediamo in televisione, al turismo intelligente. Il turismo intelligente – come qui a San Leo – è una bella finestra aperta all’infinito. Ancora di più lo studio serio delle Sacre Scritture, come fate nella vostra parrocchia. «Alzate il capo e guardate». Così sia.

Omelia nella Solennità di Maria Ss.ma Madre di Dio

San Marino Città (Basilica del Santo), 1 gennaio 2019

Giornata Mondiale della Pace

Nm 6,22-27
Sal 66
Gal 4,4-7
Lc 2,16-21

(da registrazione)

Risplende davanti a noi, la Madre di Gesù, venerata dai cristiani e amata da tutti; madre e sposa dolcissima, riconosciuta dall’umanità come Colei che realizza il compito di congiungere Cielo e terra. Nel centro del presepio porge ai pastori, che vanno a Betlemme, Gesù, il Messia. A Lei il compito di unire sogno e realtà. «Oh se tu squarciassi i cieli e scendessi», cantava e sognava il popolo di Israele (Is 64,1). Con l’obbedienza di Maria l’invocazione è stata esaudita. Il Verbo si è fatto uomo nel suo grembo: «Il nato da donna» (Gal 4,4). Attraverso lei il Cielo e la terra ormai sono legati con il filo mirabile e tenacissimo della speranza. Unire attese e realtà, aspettative e realizzazioni, non è forse, in qualche modo, il compito di politici, amministratori e quanti si spendono per il bene comune?
Voglio pensare alla loro come ad una missione, una risposta ad una chiamata, una vocazione. Invito i politici presenti a riconsiderare l’ispirazione iniziale che li ha spinti a questo servizio, a ripensarne i motivi ed eventualmente a rafforzarli o purificarli, e a rispondere con rinnovato entusiasmo alla chiamata.
Non mi rivolgo solo a loro, ma a tutti, perché a tutti è chiesto di fare la propria parte per il bene comune e per il bene più grande: la pace. Siamo qui a pregare per la pace, a pregare cristianamente per la pace, non perché non ci sia più niente da fare e non sia rimasta che questa “risorsa estrema”, ma perché la preghiera rafforza i nostri propositi di costruttori di pace.
La Giornata Mondiale della Pace che oggi celebriamo fu voluta e istituita da san Paolo VI, 52 anni fa (era il ’68!), «come augurio e come promessa (all’inizio del calendario che misura e descrive il cammino della vita umana nel tempo) che sia la pace, con il suo giusto e benefico equilibrio, a dominare lo svolgimento della storia a venire».
Titolo del Messaggio di questo 2019: «La buona politica per una vera pace». Come dire: il potere a servizio della giustizia e della speranza. Un sogno? I politici autentici sono persone che sanno sognare e sognano coi piedi ben piantati per terra. Sognano, perché hanno ideali, fanno progetti, prefigurano il futuro. Coi piedi per terra, perché nel servizio al bene comune e alla pace non c’è posto per le promesse impossibili da mantenere, per i numeri manipolati ad arte, per “la malizia” di progetti insostenibili. «Il bravo politico – è stato scritto – è, o almeno dovrebbe essere, l’uomo che colma le distanze, l’ingegnere dei bivi che si incontrano, l’idealista che sa fare i conti con la vita quotidiana. Immerso nel presente senza esserne travolto, visionario eppure guidato dalla ragione, pragmatico ma con il coraggio della sfida».
Nella Giornata di riflessione e di preghiera per il mondo della politica, che celebreremo in onore di san Tommaso Moro il 22 giugno prossimo, prenderemo esempio da un impegnato nella politica per la pace, il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.
Nel suo Messaggio per la pace papa Francesco «chiama la politica (e chi la interpreta) al servizio, o meglio al dovere, della pace. Quella artigianale, che cresce poco alla volta grazie all’impegno reciproco di tutti, che rifiuta l’intransigenza e la rabbia sterile, che conosce le fragilità umane e se ne fa carico». Di seguito – nel suo Messaggio – papa Francesco elenca le virtù umane di una politica al servizio dei diritti umani e della pace (cfr. n.3): la giustizia, l’equità, il rispetto reciproco, la sincerità, l’onestà, la fedeltà. Virtù nelle quali si possono ritrovare i politici di qualunque appartenenza culturale o religiosa. Poi, papa Francesco smaschera e condanna i vizi da cui può essere minacciata la buona politica (cfr. n.4): la corruzione, la negazione del diritto, il non rispetto delle regole comunitarie, l’arricchimento illegale, la giustificazione del potere mediante la forza, la xenofobia e il razzismo, il rifiuto di prendersi cura della Terra, il disprezzo di coloro che sono costretti all’esilio.
Segnala, infine, come la buona politica promuova la partecipazione dei giovani e susciti fiducia nell’altro. «Fiducia dinamica – scrive –, che vuol dire: “Io mi fido di te e credo con te” nella possibilità di lavorare insieme per il bene comune». Bisogna resistere al clima di sfiducia che si radica «nella paura dell’altro o dell’estraneo e si manifesta attraverso atteggiamenti di chiusura o nazionalismi che mettono in discussione quella fraternità di cui il mondo globalizzato ha tanto bisogno» (cfr. n.5).
Dunque, no alla guerra e alla strategia della paura. Il Papa conclude ricordando la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, un grande progetto di pace, di cui ricorre il 70° anniversario. «La pace, in effetti, è frutto di un grande progetto politico che si fonda sulla responsabilità reciproca e sulla interdipendenza degli esseri umani» (cfr. n.7).
«Artigiani della pace»: lo saremo tutti con la conversione del cuore! Pace con se stessi, rifiutando intransigenza, collera e impazienza; pace con l’altro: il famigliare, l’amico, lo straniero, il povero, il sofferente, osando l’incontro e l’ascolto; pace con il creato, riconoscendo il dono di questa nostra terra così bella e la parte di responsabilità che spetta a ciascuno di noi. Un magnifico programma!
Rinnoviamo il nostro “sì” sull’esempio della Madre di Dio, Regina della Pace. Così sia.

Omelia nella celebrazione del “Te deum” di fine anno

Pennabilli (cattedrale), 31 dicembre 2018

VII giorno fra l’ottava di Natale

1Gv 2,18-21
Sal 95
Gv 1,1-18

(da registrazione)

Vorrei che Pennabilli sentisse la responsabilità di essere il “centro diocesi”. Sono accadute tante cose in questo anno. In modo particolare penso alle due assemblee diocesane, quella di chiusura dell’anno pastorale sul tema “Tra la gente con la gioia del Vangelo” e quella di inizio anno tutta dedicata al kerygma, alle ordinazioni diaconali e alle professioni religiose, all’immissione di nuovi ministri… Avvertiamo anche il peso di situazioni difficili. È un po’ come nel presepio: è notte – e non si può accorciare la notte –, ma si possono accendere luci. Una luce è stata accesa a Betlemme e lì, a Betlemme, Dio ha cominciato un giorno nuovo. Dio non plasma più l’uomo con la polvere dall’esterno, come fu in principio, ma lui stesso si fa polvere plasmata, Bambino di Betlemme. C’è un ammirabile scambio: Dio è diventato di carne e, da allora, c’è una scintilla del Verbo, in ogni carne. Qualcosa di Dio è stato comunicato in ogni uomo. Dobbiamo dire grazie perché c’è santità, almeno incipiente, in ogni vita. Non si deve più dire: qui finisce l’uomo, là comincia Dio; qui finisce la terra, là comincia il Cielo, perché ormai, Cielo e terra si sono abbracciati. Dio e l’uomo si sono uniti e, almeno in quel Neonato, uomo e Dio sono una cosa sola. Dopo il suo Natale, il Natale del Signore, viene ora il tempo del nostro Natale. Infatti, Cristo è nato perché ognuno di noi rinasca, nasca di nuovo e nasca diverso. La risurrezione di Gesù è la grazia per la nostra risurrezione.
Dice il Vangelo che alcuni pastori vegliavano nella notte. La nostra notte non è meno oscura della loro. Tuttavia, accade anche per noi quello che è accaduto a loro, l’annuncio di un avvenimento: «Vi annuncio una grande gioia: è nato per voi il Salvatore» (Lc 2,10-11). E la gloria del Signore li avvolse di luce.
I pastori hanno ascoltato quell’annuncio e si sono messi in cammino: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento». Hanno osato. Mi piacerebbe mescolarmi tra loro e, per così dire, sentire il loro chiacchiericcio a proposito di questo viaggio nella notte. Qualcuno dice: «Ci sono buoni motivi per non metterci in strada: buio, pericoli, briganti, perché rischiare? Poi, forse, si tratta di una burla». Qualcun altro soggiunge: «Perché faticare, perché fare tanta strada? Stiamo bene qui, al riparo nel nostro ovile. Perché lasciare il certo per l’incerto? E per trovare che cosa? Un bambino? È la cosa più naturale del mondo; ogni bambino che nasce è un miracolo». Insisto nell’immaginare il dialogo fra i pastori. Qualcuno aggiunge: «E se, come dicono, quel bambino è il Signore, come presentarsi a lui? È prudente tornare sui nostri passi. La sua santità ci confonde; quella disarmante povertà contesta le nostre bramosie». Qualcun altro aggiunge ancora: «Se quel bambino è davvero il Messia, l’Agnello pasquale, ci indicherà sentieri aspri, in salita». Sì, vorrei dire a loro e dico a tutti noi: «Verranno giorni, per noi cristiani e per quanti stanno con lui, nei quali si dovrà tirar fuori tutta la grinta possibile per seguirlo. Bisognerà fare una scelta di campo, decidere da che parte stare. Non basterà più l’appartenenza scontata, non reggeranno più le adesioni a lui senza radici profonde». Ancora una domanda al termine di questo anno: «Chi sei per noi, Signore Gesù?». Per te ci mettiamo nuovamente in cammino. Accompagnaci nel nuovo anno che si apre. Così sia.

Omelia nella S. Messa per la festa della Santa Famiglia

Ferrara (chiesa della Sacra Famiglia), 30 dicembre 2018

1Sam 1,20-22.24-28
Sal 83
1Gv 3,1-2.21-24
Lc 2,41-52

(da registrazione)

Nel brano del Vangelo che è stato proclamato c’è la prima registrazione di una parola pronunciata da Gesù. La prima parola di Gesù, secondo Luca, entrata nel Vangelo canonico è una domanda: «Perché mi cercavate?». Gesù ama molto interrogare e, in questo, dimostra un’arte squisita, perché stimola ad intervenire. Nei Vangeli ci sono tante altre domande di Gesù, in contesti diversi. Ad esempio, Gesù provoca i farisei dicendo: «Il battesimo di Giovanni è dal cielo o è dalla terra?» (cfr. Mt 21,25). A proposito del tributo: «Di chi è l’iscrizione?» (Mt 22,20). Ai discepoli chiede: «Che cosa cercate?» (cfr. Gv 1,38). A Maria di Magdala: «Chi cerchi?» (Gv 18,4). E al cieco Bartimeo domanderà: «Cosa vuoi che io ti faccia?» (Mc 10,49). Agli apostoli, dopo il discorso di Cafarnao: «Volete andarvene anche voi?» (Gv 6,67).
Tutto questo vale anche per noi che vogliamo metterci a seguire Gesù. Gesù ci fa domande. Ci educa attraverso le sue domande. Dobbiamo prevederle: lasciamoci mettere in questione volentieri, non si tratta di un esame, ma sono necessarie per andare in profondità. «Perché mi cercate?» (cfr. Gv 6,25-26). Si potrebbe pensare che già il cercare Gesù, di per sé, sia una cosa meritevole e buona, soddisfacente, sufficiente. Ma c’è, nella domanda di Gesù, anche un velo di rimprovero, come per risvegliarci. In effetti, ci sono modi e modi di cercare, ci sono motivazioni e motivazioni per cui cerchiamo Gesù. Anche Erode cerca il bambino, ma per ucciderlo. Lo cercano i beneficiati dopo la moltiplicazione dei pani, per avere il pane assicurato a buon mercato. Ci sono anche quelli che lo cercano per curiosità, per vedere qualche sua performance miracolosa, ma ci sono quelli che lo cercano con umiltà e soltanto per amore. Penso, ad esempio, alle donne la mattina di Pasqua, quando vanno al sepolcro e vengono rassicurate da un angelo che indovina lo scopo del loro pellegrinaggio all’alba. «Il crocifisso che voi cercate non è qui. È risorto! Cercatelo altrove» (cfr. Mt 28,5). Sono stato qualche giorno fa a Napoli nella cella in cui viveva uno dei più grandi geni dell’umanità, san Tommaso d’Aquino, grande teologo e filosofo medioevale. Aveva due segretari a disposizione quando dettava la teologia e la filosofia… Nella sua cella c’è un’icona dalla quale – si racconta – gli giunse la voce di Gesù: «Tommaso, tu hai scritto molto bene di me. Che cosa vuoi?». E Tommaso: «Nulla, Signore, voglio soltanto te». Questa risposta è bellissima. Provando a rispondere alla domanda che Gesù ci fa: «Che cosa cercate? Perché mi cercate?», vorrei rispondergli con voi: «Ti cerchiamo, Signore, per averti, per conoscerti di più e intimamente, per amarti, per avere la certezza, sempre crescente, che tu sei vicino a noi. Non ti consideriamo un “babbo natale”, cioè uno al quale si ricorre per avere salute, benefici, successo, vantaggi». Lui ci risponderebbe: «Per questi vantaggi va a cercarti altri dei. Io sono disteso sulla paglia, dentro ad una mangiatoia di legno; morirò attaccato ad un legno, ma sono con te, nella vita, nella tua famiglia». Queste domande e queste risposte vanno e vengono proprio all’interno delle nostre famiglie. Famiglie reali. C’è chi in famiglia non vede l’ora di andarsene e magari scappa da casa. C’è chi in famiglia lamenta solo la stanchezza. C’è chi tira a campare perché l’amore non c’è più, è sbiadito. C’è chi è alle prese con responsabilità educative impossibili. C’è chi teme di essere di peso. Poi, ci sono le difficoltà esterne alla famiglia: l’assedio di una cultura che la compatisce, le politiche famigliari insufficienti, il pensiero che dalla crisi si esce meglio da soli che con persone a carico. Ricordo che un anno avevamo come motivo della nostra festa parrocchiale questo slogan: «Famiglia, culla di Dio». Uno slogan suggestivo. Certo, Dio ha infiniti altri modi, luoghi, spazi nei quali manifestarsi, fare domande, attendere risposte, farsi presente. Ma nella Bibbia la rivelazione di Dio si intreccia spesso con storie di famiglie. Anzi, la Bibbia stessa, come un album, è piena di immagini che testimoniano le storie di Dio con le famiglie, da quella di Abramo fino a quella di Maria e Giuseppe. Anche la mia famiglia, come ogni famiglia, con le sue debolezze e le sue crisi, è un luogo privilegiato nel quale il Signore rinnova il dono della sua presenza. E noi siamo qui, questa sera, proprio per questo, per fare festa alla creazione divina che è la famiglia. All’inizio Dio creò l’uomo e la donna, una carne sola, per formare una famiglia e, da allora, non ha mai smesso di stare accanto all’uomo e alla donna che formano una famiglia. Il Signore fa delle relazioni famigliari addirittura il paradigma della sua manifestazione. Dio si dice, in alcune pagine della Bibbia, sposo. In altre, addirittura, madre, in altre ancora padre. Da allora, ogni famiglia, abbraccia il Signore nei bambini che nascono: «Chi accoglie uno di questi piccoli – dice Gesù – accoglie me» (Mt 18,5). Una casa aperta e solidale, che offre amore ed ospitalità, anche senza saperlo, accoglie il Signore (cfr. Ebr 13,1). La famiglia, lo ripeto, è culla di Dio, perché dove c’è amore, c’è lui. «Dove due o più sono uniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20). Sua delizia è abitare con i figli degli uomini (cfr. Prv 8,31).

Omelia nel Natale del Signore – Messa del giorno

Pennabilli (Cattedrale), 25 dicembre 2018

Is 52,7-10
Sal 97
Eb 1,1-6
Gv 1,1-18

(da registrazione)

Non saremmo qui a celebrare il Natale se la Pasqua non ci avesse certificato la messianicità di Gesù. «Egli è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente. Dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, sedette alla destra della maestà nell’alto dei cieli, divenuto tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato». Con queste parole l’autore della Lettera agli Ebrei descrive la grandezza sfolgorante del Messia. Possiamo leggere i Vangeli dell’infanzia con la lente di ingrandimento pasquale. C’è una corrispondenza, a volte letterale, nelle narrazioni pasquali e natalizie. Per esempio, lo stesso legno: il legno della mangiatoia e il legno della croce; i “tre giorni” nei quali Gesù viene smarrito nel tempio e i “tre giorni” della sua sepoltura, ma soprattutto l’annuncio della gioia: «Vi annuncio una gioia grande» (Lc 2,10), dicono gli angeli ai pastori; sono le stesse parole pronunciate alle prime luci dell’alba del giorno della Pasqua. Poi, il dramma del Bambino accolto dai piccoli, ma rifiutato dai potenti. Sono solo alcune delle tantissime corrispondenze.
Oggi ci viene data la possibilità di abbracciare con un solo sguardo l’intero mistero di Gesù attraverso la lettura del Prologo del Vangelo di Giovanni, senza dubbio uno dei testi più belli che siano mai stati scritti. Prendiamoci il tempo di leggere e rileggere ogni versetto e di lasciarcene impregnare intelligenza e cuore. In poche righe Giovanni condivide con noi il frutto di ciò che ha contemplato nel corso della sua vita, a partire dal primo incontro con Gesù. Anzitutto il mistero luminosissimo, accecante, della comunione intima in Dio, Padre, Figlio e Spirito Santo: il Figlio, suo Verbo fatto carne, mandato per l’umanità, mandato ad «abitare in mezzo a noi» (lett. «piantare la sua tenda tra noi» con tutti i rimandi all’Esodo) e a farsi rivelatore e interprete del «Dio che nessuno può vedere» (cfr. Gv 1,18). Nessuno lo ha mai visto: lui ce l’ha rivelato. E noi non smettiamo di ricevere da lui «grazia su grazia» (Gv 1,16). Eccedenza del suo amore! Che questo Vangelo sia nostra luce per ogni giorno! Gustiamolo interiormente.
Giovanni non racconta l’episodio della Natività. Se dovessimo stare alla lettura solo del quarto Vangelo non festeggeremmo il Natale in questo modo (con il presepio, i pastori, ecc.). Giovanni riassume il Natale in una sola formula: «Il Verbo si è fatto carne» (Gv 1,14). Ci mette di fronte ad un paradosso che va al di là di ogni immaginazione e di ogni umana aspettativa. Noi normalmente cerchiamo di farci grandi; Dio, nell’evento del Natale, sceglie di rimpicciolire. Un capovolgimento: lui che è Dio si fa carne, materia, corpo, cioè limite. Da questo momento in poi egli è qui, a Betlemme e non a Nazaret, per le vie della Galilea e non a Gerusalemme; ha una data di nascita e di morte, ha dei tratti somatici particolari e una figura che lo circoscrive. Questa fede è il genio sconvolgente del cristianesimo. Gesù dice: «Io sono qui; mi potete toccare, abbracciare o uccidere. Sono completamente disponibile. Non si dovrà più dire che io sono un’ombra, che non so cosa vuol dire vivere. Anch’io prendo dall’Alto la carica per smuovere questo corpo fragile, opaco, limitante. Sudo e sanguino per l’angoscia, mi contorco per il dolore fino a rendere il mio corpo come uno straccio che non è più possibile indossare. E tutto questo per amore. Solo per amore».
Nell’incarnazione Dio, per così dire, si specchia sulla nostra umanità: egli si fa a nostra immagine. Allora piange, ha paura, conosce la fame. Non ha evitato ma “sposato”, indissolubilmente, la nostra realtà. Così ci ha aperto una via di piena umanità. Prima dell’incarnazione si discorreva molto della sua grandezza, meno dell’uomo. A Natale risplende la vera grandezza di Dio che è farsi piccolo. Ma a Natale viene proclamata anche la grandezza dell’uomo: una piccolezza innalzata in questo Dio incarnato. Così diceva Leone Magno ai cristiani: «Considera, o uomo, la tua dignità» (San Leone Magno, Disc. 1 per il Natale, 1-3; PL 54,190-193). Portiamoci a casa quello che Paolo, pieno di stupore, diceva ai discepoli di Roma: «Se Dio è per noi – e il Natale dice questo – chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio figlio, ma lo ha dato per tutti noi, non ci darà forse ogni cosa insieme con lui?» (Rm 8,31-32).
Cari fratelli e sorelle, ecco il fondamento della nostra speranza. Ecco con quali occhi guarderemo d’ora in poi il nostro prossimo e il mondo attorno a noi. Buon Natale!

Omelia nel Natale del Signore – Messa della Notte

San Leo (Cattedrale), 25 dicembre 2018

Is 9,1-6
Sal 95
Tt 2,11-14
Lc 2,1-14

(da registrazione)

Stiamo cantando le meraviglie del Signore: il Signore è grande. Ma il segno che ci è dato è quello di un bimbo. Gesù nasce in un clima di tensione, di disagio, di povertà. Nasce al tempo del censimento che, allora, significava umiliazione nazionale, inasprimento fiscale (il censimento era fatto per riscuotere le tasse), lunghi viaggi (bisognava andare nei luoghi della propria origine), scarsità di alloggi (tanto che Giuseppe è costretto a portare Maria a partorire in una stalla). I primi a riconoscerlo sono rozzi pecorai, malvisti dalla società di allora, inabili persino a testimoniare. Vien detto loro che troveranno il Messia nella forma di un fragile neonato, che tra l’altro diverrà profugo. Perché questi accenti?
Il Natale confligge con tante situazioni. Anzitutto il Natale cristiano confligge con il Natale comune: cenoni, regali, viaggi, ecc. Esso non ha nulla a che fare con il Natale di Gesù. È un momento di euforia dopata per dimenticare la crisi. «Buon Natale» – si dice –, auguri a raffica. Sia ben chiaro: non ho nulla contro le luci e contro i pranzi famigliari. Il problema è che si festeggia senza il festeggiato. Questo è il primo motivo di conflitto.
Poi, il Natale di Gesù confligge con una certa forma di religiosità, precisamente quella che da Dio si aspetta fortuna, salute, successo. A questi il Bambino di Betlemme dice: «Quelle cose chiedetele ai vostri dei, non a me. Come potrei concedervi queste cose? Nasco in una stalla, morirò su una croce». Qualcuno di voi mi dice: «Ma allora sei un Dio da poco, un Dio inutile: che ce ne facciamo di te, se non sai darci le cose che contano e che ci stanno a cuore?». La prima risposta è che Gesù non è Babbo Natale. La seconda la lascio dire a Pierre Claverie, uno dei monaci di Tibhirine, in Algeria, ucciso dai fondamentalisti e, insieme agli altri compagni, beatificato il 7 dicembre scorso. A chi gli domandava: «Perché rimanete in Algeria? Per fare che cosa?», lui rispondeva: «Noi siamo qui a causa del Messia crocifisso. Non abbiamo nessun interesse da salvare, nessuna influenza da mantenere, nessun potere e nessun privilegio da difendere. Siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, asciugandogli la fronte. È, in fondo, la risposta del Bambino di Betlemme. «Non servo a nulla – dite voi – ma sappiate che quando vivete momenti di tensione, siete bastonati dalla vita, vi sentite in uno stato di confusione, io vi sono vicino, sono l’Emmanuele che vi è accanto e vi tiene per mano». Inoltre, il Natale confligge anche con una teologia sbagliata dell’incarnazione. A volte si dice: «La Parola di Dio deve essere presa là dove si trova e incarnata nella realtà della mia vita». Sforzo encomiabile, ma teologicamente scorretto, perché le cose stanno diversamente. Il Mistero del Natale ci ricorda che «tutto è stato fatto per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui» (cfr. Gv 1,3). Se crediamo che la realtà è creata dalla Parola di Dio non dobbiamo applicare un bel niente alla realtà, semmai tirar fuori dalla realtà la Parola per farla nostra. Gli antichi parlavano dei “semi del Verbo”. «Tutto è stato creato per mezzo di lui e nulla esiste senza di lui». Ogni realtà, ogni cammino degli uomini, ogni cultura contiene “semi del Verbo”. Se applicare sa di sforzo, scoprire sa di stupore, di meraviglia. È Natale!
Anche quest’anno gli artisti si sbizzarriscono a fare il presepio o le tradizionali icone della Natività. Ci sono i pastori, gli animali, i piccoli borghi, i magi, il bambinello.
Alla fine della Messa si è soliti metterci davanti al presepio. Molti diranno la loro ammirazione per ciò che li colpisce di più: un villaggio lontano, una realistica riproduzione del tramonto, le mura di Gerusalemme, una finestrella illuminata, le stelle, Gesù nella mangiatoia. Voglio dirvi quel che mi piace del presepio. La prima cosa è il vedere che tutti i personaggi convergono verso la stalla della Natività. Pastori, magi, viandanti, casalinghe, pecorelle, tutti vanno verso Gesù. Persino nel presepe napoletano le tante figure, che sembrano poco interessate all’evento, sono sistemate in un movimento ascendente, quasi a spirale, che approda alla mangiatoia. Mi vengono in mente le parole di Gesù: «Innalzato da terra attirerò tutti a me» (Gv 12,32). Innalzato sul legno della croce, ma, prima ancora, sul legno della culla che la prefigura. Sono sicuro che Cristo ci sta attirando tutti, ci sta interiormente seducendo. Ho fiducia che un giorno tanti torneranno, anche se non so come, quando, dove… Il mio augurio è che, dopo aver guardato il presepio, ci mettiamo tutti in cammino con i pastori, in sincero e appassionato cammino verso Gesù.
La seconda cosa che mi colpisce del presepio è la Sacra Famiglia. I pastori sono guidati dagli angeli, i magi dalla stella, ma chi porge il Bambino sono Maria e Giuseppe. Gesù non lo si incontra solo, ma in una famiglia, che lo ha accolto e custodito. Gesù lo si trova non con un percorso solitario, ma grazie ad una comunità, piccola forse, povera, con dei difetti, ma essenziale. Il mio secondo augurio, allora, è che nella nostra ricerca di Gesù non abbiamo paura a bussare alla porta non di Betlemme, ma della nostra parrocchia. Lì potremo riscoprire la necessità e la bellezza della dimensione comunitaria della fede. Andiamo insieme verso Gesù! Così sia.

Messaggio di Natale

Una sosta prolungata davanti al presepio

Perché un messaggio a Natale?
Solo per una consuetudine?
Il messaggio vuole esprimere ad alta voce un desiderio, anzi un sogno, e quando in tanti sogniamo insieme, si dice che quel sogno diventi realtà.
Ma il Natale è in se stesso messaggio: parla da solo, si impone al mondo e nel cuore, sonoro e delicato, domestico e politico, cristiano ed universale.
Ecco il messaggio: quando nasce un bambino è il mondo che rinasce e respira con lui per la prima volta. C’è una parola che sostiene la speranza dell’umanità: «Ci è nato un bambino». Ogni nascita è una tregua: un nuovo sguardo sul mondo, ahimè, spesso in lotta.
Da sempre gli uomini indagano sul mistero che li avvolge. La scienza ha aperto orizzonti, squarci sull’infinito. Già gli antichi si chiedevano chi avesse fatto il cielo, il sole e la luna. Gli Egizi si domandavano che cosa ci aspettasse dopo la morte. I Babilonesi studiavano le stelle (sono diventati i primi astronomi) e che dire dei filosofi dell’antica Grecia?
La storia dell’umanità scorre parallela alla storia delle domande che l’uomo si fa a proposito di Dio: una ricerca infinita sino al grande colpo di scena. Dio, forse stanco di essere studiato come un libro, risponde a secoli e secoli di congetture. E la sua risposta non è fatta di parole, ma di un volto, il volto di un bambino!
«Quando i saggi sono al fondo della loro saggezza, gli conviene ascoltare i bambini» (Georges Bernanos).
L’umanità ha bisogno di incontrare Dio: un Dio così, che non fa paura. Lo contempliamo e ci disarma. Nel Bambino di Betlemme, Gesù, Figlio di Dio, vediamo l’infanzia da proteggere, la giovane famiglia sulla strada, l’annuncio della gioia che viene da dentro.
Sì, quel Bambino sta dalla parte della vita che nasce; di tutto si priva ma non di una famiglia. Ci sfida ad osare la gioia: c’è più gioia a dare che a ricevere!
Propongo una sosta prolungata davanti al presepio. Pur essendo indispensabili le scelte di una buona politica, il mondo più giusto e più ospitale che tutti sogniamo dipende da ciascuno di noi.

Buon Natale!

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella IV domenica di Avvento

La Fiorina (RSM), 23 dicembre 2018

Mi 5,1-4
Sal 79
Eb 10,5-10
Lc 1,39-45

(da registrazione)

Sussulti nel grembo, scoppi di “Evviva!”, benedizioni a raffica, gioia che colora la scena e proclamazione di beatitudini: è un Vangelo della gioia (Evangelii gaudium).
Mentre il Natale è ormai vicino, è come se un diapason stesse per dare il “la”, il tono alla festa. E la liturgia lo fa con il racconto della Visitazione, la visitazione di Maria, la fanciulla di Nazaret, gravida di Gesù, che va da sua cugina Elisabetta, anche lei in dolce attesa, alle prese con una maternità fuori tempo massimo. In realtà, è Dio che visita il suo popolo e lo fa attraverso Maria, che è come l’arca che contiene non il ricordo dell’antica Alleanza, ma il Principe dell’Alleanza, Gesù. Dio visita il suo popolo anche attraverso di noi. Ciascuno di noi, infatti, porta Gesù, come Maria, non nel grembo come fu per lei, ma con gli auguri, con un dono, con un sorriso, con il farci prossimi, col soccorrere, con l’interessarci gli uni degli altri. Sono tanti i modi di vivere la Visitazione. Può accadere che, a motivo di un dispiacere o di una malattia o di una esperienza di solitudine o di una preoccupazione famigliare o professionale, possiamo sentire questa gioia completamente estranea, perfino urtante. Che questo non sia un motivo ulteriore di tristezza: gli altri sono contenti, fanno festa, invece io non ci riesco! Che fare se siamo in questa situazione?
Per quanto possibile, se non ci sentiamo capaci di provare sentimenti di gioia e non riusciamo a sbloccare il cuore, lasciamoci “portare” dalla liturgia di questo giorno. Non dimentichiamo che anche noi, come Elisabetta, siamo stati colmati di Spirito Santo. Al di là del sentire e del vedere, lo Spirito abita in noi. San Paolo confortava i cristiani di Roma, che vivevano la persecuzione e non potevano certo essere allegri, dicendo che «lo Spirito viene in soccorso alla nostra debolezza» e «intercede per noi con gemiti inesprimibili» (cfr. Rom 8,26). A volte il pianto ci impedisce di esprimerci. Ma lo Spirito Santo grida per noi, più forte di noi.
Benedetta Bianchi Porro, la ragazza di Dovadola che verrà proclamata beata nel prossimo settembre, mentre il suo male progrediva, diceva: «Io sono come al solito, soffro molto, credo ogni volta di non farcela più, ma il Signore, che fa cose grandi, mi sostiene pietoso e io mi trovo sempre ritta ai piedi della croce».
La liturgia ci invita a non ripiegarci sui motivi di tristezza, ma a lasciarci portare dalla gioia del Vangelo. Riascoltiamo la dolce profezia di Michea: «E tu, Betlemme, così piccola… Eppure, da te uscirà il dominatore di Israele. Egli stesso sarà la pace» (cfr. Mi 5,1.4).
Invochiamo il Signore con le parole del Salmo che abbiamo proclamato: «Risveglia la tua potenza, Signore, e vieni a salvarci. Guarda dal Cielo e visita questa vigna (la nostra umanità)» (cfr. Sal 79).
Consideriamo come Gesù, entrando nel mondo, davanti al mistero della sua missione, dice: «Ecco, io vengo per fare, o Dio, la tua volontà» (Ebr 10,6). Gesù non sa cosa sta scritto nel rotolo. Senza pretendere di aprirlo, con totale fiducia, esclama: «Eccomi, manda me!». Tanti auguri!

Omelia nella III domenica di Avvento

Pennabilli (Cappella del Vescovado), 17 dicembre 2018

Sof 3,14-18
Is 12
Fil 4,4-7
Lc 3,10-18

Mettiamoci anche noi in coda. Siamo sulle rive del fiume Giordano che, dai tempi di Giovanni ad oggi, non ha finito di lambire la nostra indifferenza. Giovanni grida: «Il Messia è alle porte». È alle porte della nostra vita indaffarata, tiranneggiata da false esigenze e da egoismi più o meno velati. Come ci troverà il Messia? Siamo pronti ad accoglierlo? Un giorno Gesù rimprovererà gli indifferenti, imperturbabili sia all’annuncio del giudizio, sia di fronte all’offerta di salvezza. Eppure, l’appello è esplicito ed urgente: «A chi paragonerò questa generazione? Essa è simile a quei fanciulli seduti sulle piazze che si rivolgono agli altri compagni e dicono: “Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto”». Se restiamo insensibili alla voce di Giovanni, come potremo accogliere il Verbo che viene?
Il Vangelo ci racconta di gente che si è lasciata sorprendere dalla testimonianza del Battista e che scende al fiume per chiedere suggerimenti pratici al fine di rendere operativa, nel tessuto concreto dell’esistenza quotidiana, la conversione: «Che cosa dobbiamo fare?». La domanda è posta dalle folle, da alcuni doganieri, da alcuni soldati mercenari. Luca, che ovunque presenta Gesù come redentore dei peccatori, ha in particolare simpatia queste categorie di persone, perché erano le più disprezzate. Le folle, considerate ignoranti e fluttuanti; i doganieri, considerati i peccatori per eccellenza, perché il loro mestiere li portava a collaborare con le forze romane di occupazione; i mercenari, perché al soldo del tiranno di turno. Ma davanti a Dio nessuna situazione umana è pregiudizialmente esclusa. Anzi, proprio costoro, a differenza dei “puri”, sono disponibili ad un’attesa operosa del Messia. E il Battista indica loro alcune piste: generosità fraterna, specie verso i poveri; rettitudine nel proprio ruolo professionale, mitezza, sincerità, moderazione. Non invita alla fuga nel deserto, né ad un’osservanza bigotta dei precetti: la conversione è qualcosa che si attua all’interno delle proprie situazioni umane e sociali. Dunque, non chiede di salvarsi dalla storia, ma nella storia. Siamo nella logica del lievito, non in quella della massa alternativa.

Messaggio per la Veglia della vita nascente

10 dicembre 2018

Veglia: un atteggiamento spirituale che ben si addice a questo tempo di Avvento. Luci nella notte: perché il cammino è spesso avvolto dall’oscurità. Queste le nostre luci: la Parola di Dio, i profeti, i testimoni. Ecco una veglia per la vita nascente: quando nasce un bambino si accende una luce. Dio non ha orrore dell’umanità. Noi vegliamo, questa sera, per fare festa alla vita, per innalzare inni alla vita! Vogliamo benedire ogni grembo carico di vita.
C’è la sorpresa del ragazzino quando trova risposta alla sua domanda ingenua: «Come nascono i bambini?».
C’è la perlustrazione acuta del biologo che indaga sul mistero dell’origine.
C’è la gioia di mamma e papà per il nuovo arrivato; una gioia che, come un cerchio d’acqua, si allarga ai nonni, ai vicini, agli amici. E questa sera la gioia per la vita nascente lambisce anche noi.
La vita nascente ci ricorda anche una responsabilità: è un tesoro in vasi di creta (cfr. ). La vita che nasce va preparata, accolta, accompagnata: è piccola, fragile e non autosufficiente. Reclama riconoscimento, ma in cambio offre coraggio, speranza, voglia di fare, che è come dire voglia di futuro!
Accade, purtroppo, che non venga accolta e che venga spenta prima ancora di accendersi. Ma quello che temiamo di più è la diffusione di una cultura tiepida e incerta verso la vita. In questa cultura c’è dell’egoismo, ci sono delle paure poco giustificabili. Ma c’è anche una visione ed un impianto di politica famigliare, sociale ed economica che non incoraggia e non aiuta.
I dati del rapporto ISTAT presentato a Roma il 28 novembre scorso, e che si riferiscono al 2017 in Italia, sono eloquenti: «La fase di calo della natalità, innescata dalla crisi, sembra avere assunto caratteristiche strutturali». 15 mila nati in meno in un anno, 45 mila in tre anni, 120 mila in un decennio. L’inverno demografico rischia di trasformarsi in glaciazione! I bambini sono un bene sempre più raro. Dal 2008 abbiamo perso il 20% dei neonati, uno su cinque (dati ISTAT). Dal 1964, quando si superò il milione di nuovi nati, la discesa non si è più fermata, con una accelerazione, a partire dagli anni Ottanta e di nuovo con la crisi economica, dal 2008 in poi.
Le ragioni delle culle vuote sono note: le maggiori difficoltà economiche, l’alta disoccupazione, la precarietà di molte posizioni lavorative, l’assenza di contributi pubblici strutturali e l’insufficienza dei servizi di supporto alle famiglie. Insomma, quella italiana sembra essere diventata una società senza sguardo sul futuro. Ed è quanto affermano i Vescovi italiani in vista della 41a Giornata Nazionale della vita: l’opera sorgiva di Dio in ciascun essere umano e in ciascuna famiglia «è vita, è futuro nella famiglia! L’esistenza è il dono più prezioso fatto all’uomo, attraverso il quale siamo chiamati a partecipare al soffio vitale di Dio nel Figlio suo, Gesù».
Noi, in questa veglia, ci lasciamo nuovamente sorprendere dall’ostinazione della vita che rispunta, come l’aurora di ogni giorno. E ci lasciamo educare. Ci guida la Parola: «Dio ha tanto amato il mondo da dare suo figlio». Dio ama questo mondo che non ci piace, ci mette paura, ci sembra una selva di trabocchetti e di inganni. Dio ama questo mondo, anche se il mondo «non ha creduto nel suo figlio»: i credenti sono oggi una risibile minoranza. Dio ama questo mondo, seppure questi disprezzi le “tavole di pietra” che Egli ci ha dato come bussola per vivere con libertà, dignità e coraggio.
Non è vero – ahimè – che il Decalogo è ancora il fondamento etico della nostra civiltà, si provi a scorrerlo (non uccidere, non rubare, non mentire, ecc.). E in questo mondo Dio, Padre Nostro, ama me, ama te che ascolti. Ci affida la sua creazione, ci affida la vita che viene da lui. A volte mi succede di chiedere alle persone: «Lei è credente?». Quasi sempre mi sento rispondere: «Sì, certamente». Come dire: ovviamente, ci mancherebbe altro. Mi rendo conto che c’è una diffusa riduzione della fede a “religione civile”: un mezzo per essere socialmente riconosciuti e accettati. Le sue liturgie sono i sacramenti ai figli per tradizione, il funerale in chiesa, la partecipazione a qualche gesto di solidarietà, una preghierina alla Madonna quando le cose vanno male. E il Dio di questa religione si chiama “Dio” (e si dice: «se Dio vuole…», «che Dio ce la mandi buona», «bisogno rassegnarsi alla volontà di Dio»). Dio inteso così è una specie di essere supremo, astratto, indifferente. Nessun disprezzo per questa “religione civile”, ma è insufficiente, perché Gesù è venuto a rivelarci il nome e il volto di un Dio amante della vita. Per la vita Dio offre suo Figlio.
Cari amici, «il futuro inizia oggi: è un investimento nel presente, con la certezza che la vita è sempre un bene, per noi, per i nostri figli, per tutti».