Omelia nella VII domenica del Tempo Ordinario

Convegno diocesano Settore Giovani AC
“Sale, non miele”

1Sam 26,2.7-9.12-13.22-23
Sal 102
1Cor 15,45-49
Lc 6,27-38

(da registrazione)

Cari ragazzi,
devo iniziare con un ringraziamento a tutti voi. Sono tre giorni che penso a questo incontro come un appuntamento bellissimo nella mia vita di pastore. Ne sento tanto la responsabilità. Sono pochi gli incontri con voi in un anno, ma preziosissimi, da non sciupare.
Vi porto una notizia bellissima: Gesù è in mezzo a noi, Risorto! Lui farà sicuramente tutto quello che è necessario per ciascuno di voi e anche per me. «Grazie a te, Gesù, che ci riunisci e fai di questo incontro una festa!».
Devo dirvi – ormai sono alla fine della Visita Pastorale – quanto siete importanti nelle nostre comunità. Non dirò retoricamente: «I giovani sono il nostro futuro…».  No, io vi dico che siete preziosi oggi, perché ci aiutate ad essere in cammino. Quando siete in parrocchia – può darsi che vi succeda di venirci svogliati o per senso del dovere – portate alla comunità una gioia grandissima. Noi adulti vi accompagniamo, ma abbiamo anche molto bisogno della vostra presenza. Vi ringrazio per questo: «Siate generosi!». Quando i giovani non ci sono la parrocchia diventa melanconica, ripiegata su se stessa. Quando ci siete si riprende il cammino. Fate bene a “risvegliare” anche noi sacerdoti, perché ci aiutate ad essere giovani.
Questa mattina ci troviamo di fronte ad una pagina fortissima di Vangelo, davanti alla quale le reazioni possono essere le seguenti. Prima reazione. «Amate, amate i nemici… »: quante volte l’abbiamo sentito! Si ha l’idea del ripetitivo, dello scontato, del déjà-vu. L’altra reazione, invece, è quella di chi, davanti ad una pagina come questa, prova un po’ di sconcerto. È impossibile quello che il Signore chiede! Questa volta ha messo l’asticella troppo in alto!
«A voi che ascoltate io dico: “Amate!”».
Faccio due semplici sottolineature. Amare, come lo intende Gesù, non è da confondere con le reazioni istintive e incontrollabili che ci abitano, che noi chiamiamo sentimenti, emozioni, inclinazioni. C’è la persona attrattiva, c’è la persona che suscita simpatia, c’è chi, in un gruppo, è capace di creare subito un’atmosfera e viene spontaneo volergli bene. Quando Gesù dice «amate», propone una scelta. Con l’imperativo «amate» siamo invitati a calarci in noi stessi e lì, nel profondo, scoprire un luogo che spesso ignoriamo: la coscienza. Dentro di noi possiamo avvertire sentimento e scelta come opposti e perfino sollevare la questione della sincerità. Che cosa è più vero in me? I sentimenti o la scelta? Possiamo anche mettere a confronto spontaneità e autenticità: sono due cose diverse. Ripeto: c’è più sincerità nei sentimenti o nella scelta? Invoco lo Spirito Santo dentro di me affinché mi faccia luce.
Credo che la posizione di Gesù sia per la scelta. È con la decisione che noi possiamo cambiare le cose. È con la decisione che possiamo scavalcare quell’asticella. Questo però non significa che i sentimenti non siano importanti.
Santa Teresa di Lisieux, in un passaggio della sua autobiografia, racconta che le era stato dato il posto – le monache trascorrono molto tempo in coro – vicino ad una monaca che faceva scricchiolare i denti. Inizialmente le dava tanto fastidio, le veniva quasi da svenire tanto era irritata, ma pensò che poteva voler bene a quella monaca “insopportabile” (avrebbe potuto anche correggerla, insegnandole la buona educazione, invece di essere così preoccupata della sua santità personale, ma era ancora molto giovane e probabilmente non si azzardava…). Da quel momento, quando andava in coro, prevaleva in lei la decisione di voler bene e di aver pazienza con quella consorella. Poco a poco, l’amore autentico l’ha portata ad aspettare con gioia il momento in cui arrivava la monaca e lo scricchiolio, da irritazione insopportabile, divenne per santa Teresa come un concerto. Il Signore ci propone di partire con la scelta e la decisione, poi verrà anche la simpatia. Così introduciamo tutta la nostra persona nell’amore, perfino i sentimenti. Questo accade anche nel fidanzamento, nell’amore. C’è la scintilla iniziale, che è l’innamoramento, poi si arriva ad una scelta che si rinnova sostenuta dal sentimento. E la scelta viene sempre più in rilievo, ma cresce anche il sentimento. Penso ai miei genitori, con i quali ho vissuto solo gli ultimi anni della loro vita. Li ho sorpresi a volte a scambiarsi dei baci, pur essendo ottantenni, con infinita tenerezza. Era un incanto.
Concludo dicendo una parola sulla “regola d’oro” che è trasversale a tutte le religioni: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te». Nel Vangelo è detta in un modo diverso, sorprendente, perché detto in positivo; parafrasando: «Quello che tu desideri sia fatto a te, fallo agli altri». È rivoluzionario! Viene introdotto il desiderio come fondamento dell’etica. Si sdoganano il nono e il decimo comandamento: «Non desiderare… » (ma qui si intende il desiderio cattivo, desiderio del male). Quello che tu desideri per te, fallo per l’altro: dignità del desiderio, del sogno. Auguri per il vostro cammino!

Omelia nella S. Messa in ricordo di don Luigi Giussani

San Marino Città, 22 febbraio 2019

1Pt 5,1-4
Sal 22
Mt 16,13-19

Oggi celebriamo la festa della Cattedra di San Pietro e ricordiamo anche un grande testimone e maestro: don Luigi Giussani. Una bella e significativa coincidenza. Don Giussani preghi con noi per il Pietro di oggi, papa Francesco.
Io non se se gli amici, i fratelli e le sorelle di Comunione e Liberazione, mi sentano vicino (a dire il vero faccio poco per loro), ma io li sento vicini: li incontro nelle comunità parrocchiali, a servizio con umiltà e senza pretese.
La pagina evangelica riporta una domanda di Gesù molto coinvolgente. Le risposte per sentito dire non valgono. Quelle frutto di una sommaria istruzione dottrinale sono insufficienti; e non fanno molta differenza, a questo proposito, le risposte accademiche. Gesù vuole la risposta del cuore: «Chi sono io per te?».
Pietro aveva già dato una sua risposta, gridando sotto la spinta della paura e della fiducia: «Signore, salvami!» (Mt 14,30). Un giorno dirà a nome di tutti: «Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna» (Gv 6,68).
Le parole più vere sono quelle che nascono al singolare. Ognuno che abbia inseguito, contestato, litigato con Dio, ognuno che abbia assaporato anche una sola volta l’amore… può dare quella risposta che si costruisce con la vita, che non è una formula (E. Ronchi).
A Cesarea di Filippo, tappa centrale nel Vangelo di Matteo, Pietro risponde: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». E Gesù, di rincalzo: «Non la carne, né il sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre mio che è nei cieli (non ci sei arrivato da solo!)». Al confessore del Messia viene conferita la dignità di suo rappresentante. Gesù gli cambia nome: da Simone a Pietro. La tradizione biblica collega sempre il cambio del nome ad una missione speciale (così con Abramo, Sara, Giacobbe, ecc…). Il nome Pietro significa Roccia: la stabilità e la compattezza della futura comunità messianica poggerà su Cristo, ma anche su Pietro. La Chiesa appartiene a Cristo («la mia Chiesa»). Pietro non l’ha fondata, non è a disposizione del suo arbitrio e non ne è il capo per doti particolari. Tuttavia, dopo la risurrezione, Gesù l’associa a sé come garante dell’unità e della stabilità della Chiesa.
Non mi aspetterei di trovare in una sessione del Concilio di Trento un’espressione così forte: «Sarà con le stesse qualità della sposa del Cantico dei Cantici, con la sua bellezza, ossia con la sua unità, tamquam acies ordinata, che la Chiesa sbaraglierà il mondo» (cfr. Concilio di Trento, Sessione XXIII, Cap.4).
Insieme alla metafora della roccia Gesù adopera anche quelle delle chiavi e del legare e sciogliere, allusione al ministero petrino di governo e di magistero. Questa investitura vale anche per chi succede a Pietro: come potrebbe la comunità messianica godere di un servizio di unità se la roccia non sarà tale per tutto il tempo? La dimensione petrina è esercitata in modo proprio dal vescovo di Roma, il Papa, successore di Pietro. Ma ogni cristiano che risponde a Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio di Dio vivente», è, in qualche modo, roccia viva, radice di Chiesa.
Durante un’udienza pubblica Giovanni Paolo II, con grande stupore del seguito e tra l’imbarazzo del cordone di sicurezza, scavalcò la staccionata e, raggiungendo un ragazzo disabile seduto in carrozzina, mise le sue mani grandi e vigorose sulla sua testa e stringendola forte ripeté: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa». Il ragazzo stupefatto per quelle parole, pianse di commozione.
Riprendo l’interrogativo di Gesù: «Tu, chi dici che io sia?». Ma dire non basta. Siamo specialisti di facili parole. La vita non è ciò che si dice della vita, ma ciò che si vive della vita. E Gesù Cristo non è ciò che io dico di lui in una formula esatta, ma ciò che io vivo del suo amore crocifisso… Anzi, di quanto lascio vivere di lui in me!

Omelia nella VI domenica del Tempo Ordinario

Mercatino Conca, 17 febbraio 2019

Chiusura della Visita Pastorale alla parrocchia di Mercatino Conca

Ger 17,5-8
Sal 1
1Cor 15,12.16-20
Lc 6,17.20-26

(da registrazione)

Rivolgo un caloroso saluto al signor Sindaco, perché salutando lui, è come se rivolgessi il saluto alla parte di paese che non ho potuto incontrare o che è di altra convinzione o di altra cultura. Desidero che anche a queste persone arrivi il mio saluto e il mio ringraziamento per la cortesia che mi è stata riservata in tutti gli ambienti in cui sono stato.
Inizio dedicando un minuto ai bambini. All’episodio del Vangelo letto da don Marino ero presente anch’io. Preciso: non c’ero proprio io, ma c’erano i miei “colleghi”, gli apostoli. Il Vescovo, come successore degli apostoli, in un certo senso fa parte del gruppo dei Dodici. Quella mattina Gesù aveva attorno a sé poveri, piccoli, adulti, anziani, persone tristi, ecc. Gesù ci ha sorpreso perché ad un certo punto – eravamo in un luogo pianeggiante – si è alzato e ha detto: «Beati voi». Come? Proprio noi così sfortunati, che abbiamo motivi di pianto, che siamo poveri, che a volte veniamo maltrattati. «Sì, proprio voi siete beati», dice Gesù. Ma chi sono i poveri? La parola “povero” contiene, di per sé, ogni uomo. Povero sono io quando ho bisogno di altri per vivere, povero sono io ogni volta che mi rendo conto che non basto a me stesso. Allora, perché sono povero, mi affido, chiedo aiuto, chiedo perdono. Vivo perché vengo accolto.
Chi sono questi sfortunati con cui Gesù si congratula? Sono i discepoli, quelli che quel giorno erano davanti a lui… Siete voi, lo sono anch’io che, prima di essere apostolo, sono discepolo. E mi sento dire da Gesù: «Beato te, Andrea. Beato te, con i tuoi limiti, con le tue insufficienze, con le tue prediche mediocri… ». Chi sono invece i fortunati che Gesù mette in guardia con una parola durissima, «guai a voi…»? Sono quei discepoli che vivono un cristianesimo appagato, autosufficiente. Quelli che pensano di essere a posto, che vogliono solo star bene, che cercano l’applauso della gente…
Perché Gesù si felicita con i più svantaggiati? Sono beati perché sono poveri? Sono beati perché i poveri hanno più chance dei ricchi di entrare in paradiso? Nulla di tutto questo, perché Gesù non si occupa, in questo caso, della situazione sociale; la povertà non è la causa della benedizione… Ma è nella promessa: con voi posso costruire il Regno di Dio – dice Gesù –, perché siete guardati con occhi diversi dal Padre. Beati non perché poveri, ma perché discepoli.
Quando Dio creò Adamo, prese del fango e della polvere e con questi elementi creò una meraviglia, l’uomo e la donna. Ecco, adesso Gesù prende noi e riparte da capo; siamo – per così dire – il nuovo Adamo: con noi si propone di fare grandi cose. Lui ci dice dov’è la felicità. La felicità è dov’è Dio. Ma dov’è Dio? Dio è anche dove c’è la croce, la sofferenza. Beato chi segue Gesù sulle strade della Galilea, ma anche su quelle del mondo di oggi. Anche lui allora, questo nuovo Adamo che siamo noi, farà ciò che fa Dio. Egli va incontro ai fratelli: dona, consola, accoglie. Sarà sempre una vita povera quella del cristiano, forse marginale, eppure ricca, felice, consolante.

Sono stato una settimana a Mercatino Conca e ho sconfinato anche nelle piccole parrocchie d’intorno: Rivalta, Piandicastello, Montealtavellio. Mi sono reso conto della vocazione che ha la vostra comunità: è racchiusa nel nome stesso, “Mercatino Conca”. È luogo d’incontro, di scambio, di intense relazioni. Non solo mercanzie, manufatti, bestiame, come una volta, ma incontro di volti, tradizioni, conoscenze, di fatiche condivise e di tutto ciò che costituisce il mercato nel suo significato più profondo: luogo dell’incontro. A Mercatino ho trovato una piccola fraternità sacerdotale, che è un esempio per il futuro, perché i sacerdoti fanno risplendere il loro celibato facendo famiglia tra loro. Ho vissuto una settimana con questi fratelli: don Erminio, don Flaviano, don Marino. Li ringrazio in modo speciale.
Ho notato che a Mercatino c’è un buon servizio educativo verso i giovani: i “Giovani Valconca” e gli Scout. C’è una Caritas attenta alle necessità della Valle. Mercatino ha anche la vocazione ad essere luogo di accoglienza. Penso allo stile di vita del vostro parroco, alla presenza “bonificante” della Casa della Pace e alla presenza di tanti amici, laici e religiosi, che vengono da fuori e che fanno di questo centro una finestra aperta sul mondo. Percorrendo le strade mi sono accorto, con sorpresa, che c’è una via dedicata a mons. Oscar Romero, canonizzato recentemente, con scritto: martire della giustizia.
Un paese ricco di stimoli, dunque, che si educa alla mondialità. Mercatino ha poco più di mille abitanti, eppure qui fioriscono associazioni, iniziative di ispirazione cristiana ma anche laiche come l’AVIS, il Centro culturale “Il fiume”, la Pro Loco, la Croce d’Europa, le associazioni sportive. Bella la collaborazione tra Municipio e Parrocchia: non solo tolleranza, ma cortesia; non solo cortesia, ma amicizia, fino alla corresponsabilità per il bene comune e nella distinzione degli ambiti e dei ruoli. Ho goduto nell’incontrare tutte queste realtà. Indimenticabile la visita alle scuole, dal Nido alla scuola d’Infanzia, alle Scuole Elementari e alle Medie. Simpatico l’incontro con le persone per strada, nei bar e l’incontro con le attività produttive, per conoscere e incoraggiare. Significativo lo scambio di idee con i Carabinieri che presidiano il territorio, si prendono cura della nostra sicurezza, ci ricordano di avere a cuore la legalità e di essere bravi cittadini. Commovente e umanissima la visita agli anziani e agli ammalati. Pregano molto. Ho affidato loro la richiesta delle vocazioni al sacerdozio, di cui abbiamo tanto bisogno.
Infine, l’incontro con i catechisti, i bambini e i ragazzi del catechismo, i genitori, il coro, i Consigli parrocchiali, il gruppo di preghiera “Padre Pio”, la comunità eucaristica quotidiana. Sono stato anche in un luogo di memoria, di pietà, di preghiera: il campo santo. Abbiatene cura sempre così.
Mercatino ha anche i suoi problemi, le sue fatiche, le sue tensioni. Questo è il campo del nostro impegno.
Vi lascio un messaggio. Tocca a voi approfondire. Mi affido soprattutto al gruppo dei giovani che possono aiutare la comunità a ricordarlo: «Abbiate cura dei rapporti». Le relazioni sono molto importanti. Sviluppate voi questa proposta. La relazione autentica esige che io faccia “il vuoto” dentro di me, mi faccia “conca”, perché l’altro possa darsi. Occorre che io faccia silenzio perché l’altro possa dirsi. Per creare rapporti occorre che io sia accogliente. Sono sicuro che Dio regala gioia a chi produce amore. Sia lodato Gesù Cristo.

Giornata Mondiale del Malato

Cari amici ammalati,
la parola diventa difficile quando si rivolge a voi e a tutti quelli che sono visitati dalla sofferenza. Ma è necessario che io superi questa difficoltà e l’imbarazzo per dirvi qualche cosa in questo giorno in cui vi ricordiamo in modo particolare alla Santa Vergine di Lourdes.
Voglio, anzitutto, dirvi il “grazie” della nostra comunità diocesana. Noi viviamo della preghiera e dell’offerta della vostra sofferenza unita a quella di Gesù.
Il Signore Gesù, con un gesto sublime di condiscendenza, ha voluto condividere e partecipare della nostra condizione e della nostra condizione più “nostra”, che è la sofferenza. Gesù non ha soppresso la sofferenza; non ne ha neppur svelato interamente il mistero: l’ha presa su di sé ed in questo ci ha donato la certezza che essa ha un senso e può essere offerta per amore. Questa è la scienza cristiana della sofferenza, la sola che doni pace.
Sofferenza: via che porta ad avvicinarsi e a stringersi agli altri nella solidarietà fraterna… Via che porta a scendere in profondità e a riconoscere l’essenziale della nostra esistenza… Via che conduce – se lo vogliamo – al dono di noi stessi: «Completo in me ciò che manca dei patimenti di Cristo, a vantaggio del suo Corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Unisco a voi il pensiero dei medici, degli infermieri e di quanti si dedicano agli ammalati per guarirli, o almeno per alleviarne le sofferenze. A loro dico: «Siate sempre consapevoli che la vostra è una missione più che una professione. Voi avete a che fare con la persona stessa di Cristo, con la “carne” di Cristo.
A tutti dico: diamo una sempre maggiore attenzione agli ammalati, agli anziani, ai sofferenti: accada il miracolo della carità.

 

+ Andrea Turazzi
Vescovo di San Marino-Montefeltro

Omelia nella IV domenica del Tempo Ordinario

Monte Grimano Terme, 3 febbraio 2019

S.Messa di chiusura della Visita Pastorale

Ger 1,4-5.17-19
Sal 70
1Cor 12,31-13,13
Lc 4,21-30

(da registrazione)

Alla fine della Visita Pastorale il Vescovo lascia un messaggio, una frase breve, incisiva, facile da memorizzare. La consegna che faccio alla comunità di Monte Grimano è la seguente: vi auguro di stupirvi del Vangelo.
A volte il Vangelo consola e incoraggia, ma occorre saperlo apprezzare anche quando è inatteso, duro, nuovo quando suscita meraviglia com’è accaduto a Nazaret, allorché Gesù, per la prima volta, prese la parola in sinagoga. Nazaret era un borgo più piccolo di Monte Grimano. Ogni sabato la popolazione si riuniva per l’ascolto della Parola di Dio e la preghiera.
Domenica scorsa abbiamo letto la pericope evangelica in cui Gesù viene invitato a leggere i testi sacri, scritti su rotoli. Capitò a Gesù la profezia del libro di Isaia che riguardava lui stesso. Gesù la lesse: «Lo Spirito del Signore è sopra di me e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi e la scarcerazione dei prigionieri e a promulgare l’anno di misericordia del Signore per tutti (anche per quelli che non frequentavano la sinagoga, anche per gli stranieri, anche per gli odiati romani)» (cfr. Is 61,1-2). Gesù ha proclamato che la salvezza di Dio è per tutti e che lui è il Messia di questa salvezza.
Perché i nazaretani si sono stupiti? Magari anche noi provassimo stupore o “inciampo” (scandalo) quando ascoltiamo il Vangelo, come a dire che non è una parola scontata, abituale. Perché ai nazaretani fa problema l’insegnamento di Gesù?  I motivi possono essere due.
Gesù parla di Dio in un modo assolutamente nuovo, un Dio che si china sull’uomo ferito, prigioniero del male, lontano. Un esempio è la parabola del figliuol prodigo. In essa c’è un figlio che scappa di casa e se la spassa finché ha denaro, giocandosi tutto. Quando si ritrova in miseria comincia a riconsiderare l’idea di tornare a casa dal padre. Ritorna. La prima reazione dei “benpensanti” è di respingere quel figlio, invece il padre gli corre incontro, lo abbraccia e organizza per lui una festa. Gli usa misericordia incondizionatamente. Il padre sa che chi si sente amato dà il meglio.
Un altro brano evangelico che suscita stupore è quello degli operai che vanno a lavorare nella vigna ad ore successive. Non sembra giusto che gli operai dell’ultima ora guadagnino come quelli della prima ora…  Umanamente parlando non è giusto. Tutto il Vangelo è pieno di questo messaggio “nuovo”, rivoluzionario. Per questo suscita domande e inquietudine. Vi auguro che la Parola vi generi stupore. Dio ama senza misura, incondizionatamente. Non mercanteggia: è misericordia, è amore, è gratuità.
Una volta una signora mi ha contestato dopo aver ascoltato queste parole sul perdono del Signore: «È troppo comodo pensare di essere sempre perdonati!». «Non è così – le dissi –, quando ci si sente guardati dagli occhi di Gesù viene voglia di impegnarsi e di fare di tutto e di più».
Il secondo motivo per cui i nazaretani non accolgono il loro compaesano Gesù, il figlio di Giuseppe, il falegname, e di Maria, è che il profeta, il Messia, era uno di loro, uno del paese. Possibile!?! Da Cafarnao era giunta voce avesse fatto molti miracoli… «Falli anche da noi!», gli dicevano. Ma Gesù non era tornato per fare degli show. Anche noi, a volte, ci meravigliamo della santità vicina, la «santità della porta accanto», come dice papa Francesco. Abbiamo messo i profeti e i santi nelle nicchie. Mi è capitato di fare da postulatore della causa di Servo di Dio, don Dario Porta. Aveva come peculiarità l’amare: sempre, subito e con gioia. Stupiva molto che si proponesse la sua canonizzazione “per così poco”. Ognuno di noi è chiamato a questo traguardo bellissimo, fino all’ultima ora della sua vita: la santità.
Concludo dicendovi il mio “grazie” per questi giorni insieme. Stupitevi del Vangelo! Quando ho incontrato gli amici della banda ho fatto questa proposta: «Dite la frase più bella del Vangelo». È stato molto bello vedere come ognuno avesse una parola che diventa il motto della sua vita. Provate anche voi a pensare, durante la settimana, a quale frase vorreste come parola per la vostra vita. Scrivetela. Ricordatela. Ma soprattutto vivetela. Così sia.

Omelia nella festa della Presentazione al tempio di Gesù

Monte Grimano Terme, 2 febbraio 2019

Giornata della vita consacrata

Ml 3,1-4
Sal 23
Eb 2,14-18
Lc 2,22-40

(da registrazione)

A Monte Grimano oggi batte il cuore dell’intera diocesi. Insieme ai laici, infatti, con la presenza di alcuni sacerdoti, si sono dati appuntamento le religiose e i religiosi della diocesi. Sono spiritualmente presenti anche le claustrali e gli eremiti. Abbiamo pure la gioia di avere con noi il Consiglio Generale dell’Istituto religioso dei Servi del Paraclito. Alcuni di loro, fra qualche mese, prenderanno dimora nel convento di Maciano in Val Marecchia. È un momento di grande gioia, di commozione. È la festa della Presentazione del Signore: Maria e Giuseppe portano il bambino primogenito al tempio ed è quanto vedono gli occhi di due anziani, Simeone e Anna, ma anche di quanti, quel giorno, si trovano nel tempio di Gerusalemme. Lo Spirito Santo illumina lo sguardo interiore dei due vegliardi e fa vedere in questo bambino (un bambino come tutti gli altri), il Signore che viene nel suo tempio e la Salvezza preparata per tutti i popoli. Vedono in questo bambino presentato al tempio il presente di Dio, presente al suo popolo e a tutta l’umanità. Questo dono di Dio era nascosto, viene svelato proprio in questo momento. Potremmo dire che “quei due” vedono l’invisibile, la verità nascosta in quell’evento. È per questo che noi diciamo che sono profeti, come è profetica la Chiesa, del resto, quando rivela il dono di Dio, il mistero di salvezza, negli avvenimenti del tempo presente.
Oggi celebriamo questa Eucaristia in ringraziamento per un dono particolare di Dio, un frutto dell’offerta di Cristo, cioè la vita consacrata. Che ci siano donne e uomini che seguono Cristo, amandolo con cuore indiviso, ha la sua radice nel dono che Cristo ha fatto di se stesso sulla croce, un dono anticipato nel momento della sua presentazione al tempio.
Vedendo voi consacrati siamo profondamente assicurati che Cristo è morto e risorto per noi. Voi lo dite con la vostra vita, una vita interamente spesa per questo. Qual è, infatti, il nucleo essenziale della vostra decisione? Che cosa avete deciso nel momento in cui avete scelto di essere religiose e religiosi?
Avete deciso di appartenere esclusivamente e totalmente a Cristo. La vostra è una vita consacrata per sempre, che esprime la radicalità del vostro essere afferrati da Cristo e del vostro lasciarvi afferrare.
Care religiose, cari religiosi, voi siete, in modo particolare, una profezia vivente. Vedete l’invisibile e ad esso vi siete dati. Il Signore è apparso nella vostra storia come l’Assoluto. A lui volete affidare interamente la vostra vita. Dite, come Paolo a Damasco: «Signore, cosa vuoi che io faccia?» (At 22,10). Oppure come il giovane Samuele: «Parla, o Signore, il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9). E come il vostro modello per eccellenza: «Ecco, sono la serva del Signore, avvenga in me secondo la tua parola» (Lc 1,38).
Negli studi di filosofia si insegnano i percorsi per la dimostrazione dell’esistenza di Dio; ciascuno di voi è una prova dell’esistenza di Dio. Voi siete, come le candele, luce dell’Infinito che brilla nei nostri borghi, nelle nostre contrade. E una luce, anche se piccola, si vede da lontano.
La disposizione intima di Gesù è stata quella dell’offerta di sé al Padre, perché il Padre compisse in lui la salvezza del mondo. La vostra conformità e appartenenza a Cristo vi pone in una disponibilità totale ai bisogni degli uomini. A nome di tutti dico «grazie» per la vostra quotidiana disponibilità e la rinnovazione dei voti. Senza di voi la nostra Chiesa non potrebbe compiere interamente la sua missione. Chi più profondamente viene espropriato da Cristo, più profondamente deve farsi servo di tutti. Beata la Chiesa dove questa legge è rispettata! Nell’offerta di Cristo al tempio abbiamo contemplato la vostra offerta e ne godiamo nel Signore. Non fateci mancare mai questa gioia con la vostra vita: traspaia in essa e illumini la nostra Chiesa e tutte le genti.

Omelia nella III domenica del Tempo Ordinario

San Marino Città, 27 gennaio 2019

Festa di San Giovanni Bosco

Sir 1, 1. 23; 2, 1-6. 10-11
Sal 32
Fil 4, 4-9
Mt 18,1-6.10

Buona festa a tutti voi!
Oggi farò un’omelia un po’ diversa dal solito. Immagino di fare un’intervista a san Giovanni Bosco. Vado da lui col mio tablet e gli rivolgo delle domande.

  1. «Don Bosco, dove ti trovo? Dove mi dai appuntamento?».

Don Bosco: «In chiesa… Io sto qui». «Ma c’è tutta Torino da incendiare d’amore – gli rispondo – ci sono migliaia di giovani scesi dalle montagne per avventurarsi in città, cercando lavoro, una vita più aperta, un futuro diverso! E tu stai in chiesa?».
«Sono qui, perché qui sbocciano i miei sogni. Qui traggo ispirazione. È qui che ripeto al Signore – si sarà ormai stancato –: “Ti cedo tutto, ma dammi i ragazzi. Te lo dico anche in latino: Da mihi animas, cetera tolle. È qui che ho pensato all’oratorio dei ragazzi e sono venuti in centinaia. Ho pensato non solo ai ragazzi di oggi, ma anche a quelli di domani. A quelli del Piemonte, ma anche a quelli della Repubblica di San Marino! Ho preso casa in periferia; a disposizione c’era solo una bicocca fatiscente. Ho coinvolto tante persone, persino la mia mamma Margherita. Ci mancava di tutto, ma una cosa non mancava mai da noi: era – stanne certo – l’allegria. Anzi, avevo uno slogan: “Scrupoli e malinconia, fuori da casa mia”. E guai a chi parla male dei ragazzi! Sono monelli, a volte graffianti, soprattutto disoccupati – così sono tanti giovani nella mia Torino. Non critichiamoli, ma diamo loro cultura, lavoro, opportunità».

  1. «Don Bosco, che cosa pensi dei bambini e dei ragazzi?».

«Quando ho di fronte un ragazzo – risponde don Bosco – so che dentro di lui c’è una perla: ogni ragazzo è come una conchiglia. Cerco di forzarla e di aprirla: che sorpresa! Dentro, chiusa come in uno scrigno, c’è una perla di inestimabile valore. A volte i ragazzi non lo sanno neppure. L’ho capito, ad esempio, con il primo dei ragazzi che ho incontrato, quello a cui ho chiesto: «Sai scrivere?». «No». «Sai leggere?». «No». Sai disegnare? «No!». Sai cantare?». «No». «Sai fischiare?». Questa era l’arte di don Bosco che non si arrendeva e continuava a cercare anche solo una cosa positiva. Quel ragazzo disse: «Sì, certo». Allora lo chiamò per iniziare con lui a formare l’oratorio.
I discepoli, una volta, hanno chiesto a Gesù: «Chi è il più grande nel regno dei cieli?» (cfr. Mc 9,34). Tu che ne pensi? «Quella domanda – con tutto il rispetto per gli apostoli – è un po’ sciocca, per lo meno ingenua, perché rivela che loro pensavano il Regno di Dio come una grandezza mondana (di questo mondo), dove contano le carriere, il potere, le gerarchie. Invece Gesù ha chiamato un bambino in mezzo a loro – con grande acume didattico – e ha detto che, per entrare nel Regno di Dio, bisogna diventare come quel bambino. Il bambino è nativamente spontaneo, sincero, non ha ambizioni egemoniche. E la comunità dei discepoli di Gesù non dovrà dar credito a carrierismi, ma essere accogliente, semplice, discreta. Guai a chi si vergogna ad accogliere anche uno solo di questi bambini, anche se a volte sono fastidiosi, perché pongono tante domande e vogliono giocare. Si guardi bene l’educatore, l’animatore, il leader dal «disprezzare anche uno solo di questi piccoli». «Gesù ci ha detto – continua don Bosco – che “i loro angeli (ogni bambino ha un angelo custode) nel cielo vedono sempre la faccia del Padre”, fanno parte del consiglio ristretto di Dio (anche Dio ha un consiglio pastorale!)». Gli angeli dei bambini possono essere nostri avvocati difensori o, al contrario, i nostri accusatori.

  1. «Caro don Bosco, permetti che ti faccia una domanda un po’ imbarazzante, che tocca una situazione che stiamo vivendo oggi nel mondo: ci sono degli adulti, a volte sono parenti, allenatori, maestri, qualche volta persino dei sacerdoti, che non hanno rispetto dei ragazzi e delle ragazzine. Tu che ne pensi?».

«Quanto dolore. Quanta sofferenza, soprattutto per chi è stato vittima di molestie e di mancanze di rispetto. Quanta ingiustizia ai danni della convivenza sociale. E quanta vergogna per la comunità cristiana che al suo interno si è trovata crimini che più di altri smentiscono il Vangelo. Eppure, è accaduto e accade. Ciò che sconcerta di più – mi confida don Bosco – è il tentativo di coprire e di proteggere chi fa del male ai ragazzi. Però non basta la condanna, occorrono la prevenzione e la cura di chi è stato vittima».

  1. «Se le cose stanno così, caro don Bosco, allora non verrebbe neanche voglia di dedicarsi ai ragazzi… Che ne dici?».

«No, vorrei incoraggiare tutti coloro che sono educatori, catechisti, animatori Scout, insegnanti, a continuare a prendersi cura dei bambini, dei ragazzi, dei giovani, con trasparenza, con rispetto, con amore. Chiedere perdono per il male che è stato fatto e cercare riparazione è il primo passo, ma non è sufficiente perché guarda solo al passato. Occorrono risposte che guardino avanti, al futuro, che assicurino un cambiamento radicale di mentalità, perché la sicurezza dei bambini e dei ragazzi ha la priorità assoluta. Sta scritto: “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme”(1Cor 12,26)».

  1. Avrei un’ultima domanda. «Don Bosco, tu sei santo, san Giovanni Bosco, ma ti sentiamo ancora vivo, vicino, ti sentiamo “dei nostri”. Qual è il segreto della santità?».

«Anche tu devi farti santo!».
«Santo? Impossibile. La santità mi sembra una cosa da recordman, da persone grandi. E poi… aureole, nicchie, mani giunte, non fanno per me, non mi appartengono.
«Cos’hai capito della santità? Che sia una posa? Tutti siamo chiamati ad essere santi. “Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei una ragazzina o un ragazzino? Chiediti quello che Gesù farebbe al tuo posto. E poi studia, quando è ora di studiare, prega, quando è ora di pregare, gioca, quando è ora di giocare” (cfr. GE 14)».
Quando senti la difficoltà, la tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: «Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore». Ecco la santità.
«Tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei tuoi pensieri».
Caro don Bosco, grazie e arrivederci!

Omelia nella II domenica del Tempo Ordinario

Pennabilli (monastero della Rupe), 20 gennaio 2019

Is 62, 1-5;
1Cor 12,4-11
Gv 2,1-11

Gesù, Maria e i discepoli sono invitati ad uno sposalizio nel “terzo giorno”. Il vino viene a mancare… «Fate tutto quello che lui vi dirà!», dice Maria riprendendo le stesse parole del faraone agli Egizi durante la carestia: «Andate da Giuseppe e fate tutto quello che lui vi dirà» (cfr. Gn 41,55). Giuseppe, l’ebreo votato alla morte dai suoi fratelli, era sopravvissuto, prima schiavo, poi prigioniero e interprete dei sogni.
Quali sono gli ordini di Giuseppe? Aprire i granai per accogliere il grano e poi ridistribuirli nei giorni delle “vacche magre” per soccorrere quanti arrivano a causa della loro miseria.
Gesù, che dà compimento a tutte le figure della Prima Alleanza, è, come Giuseppe, votato alla morte, ma eccolo risorto, vivente per sempre. Viene non solo per sfamare le folle – lui, pane di vita – ma per versare il vino delle nozze.
In modo stilizzato san Giovanni ci riporta al mistero della morte e della risurrezione di Gesù, che già si profila: Gesù, uscito vivente dal sepolcro il “terzo giorno”, viene per le nozze definitive fra Dio e l’umanità, e l’acqua cambiata in vino ne è il segno. Questo miracolo, ben lontano d’essere il racconto di una cronaca di paese, è il “primo dei segni”, è epifania del Messia, il Signore. La liturgia ce lo propone come ultimo suggello del tempo natalizio, tempo della manifestazione.
Oggi sale da tutte le chiese la preghiera per l’unità. «Fate tutto quello che lui vi dirà», dice Maria. «Ut omnes unum sint», dice Gesù. E noi? Eccoci all’opera nel cantiere per fare un mondo unito. Preghiamo.

Omelia nella festa del Battesimo di Gesù

Talamello, 13 gennaio 2019

Is 40,1-5.9-11
Sal 103
Tt 2,11-14;3,4-7
Lc 3,15-16.21-22

Quella notte la cattedrale splendeva di una luce accecante: era la notte di Pasqua di qualche anno fa. Grondavano gli Alleluia polifonici. L’organo, dopo i giorni del silenzio della Settimana Santa, intonava “ripieni” di vittoria. Condivisi con i presenti l’estasi di quella notte piena di misteri svelati, di simboli e di canti.
Lascio la cattedrale – ormai è notte fonda – ed entro, ben coperto, nell’oscurità della notte. Piove. Attraverso la piazza di Pennabilli: sto raccontando un’esperienza reale. Da una via secondaria si ode un chiacchiericcio sommesso: decine di giovani stazionano davanti al bar stracolmo di gente. È solo una tappa verso i luoghi del sabato sera. Passano così la notte di Pasqua. Sarebbe stato bene imboccare quella direzione, attaccar bottone con quei ragazzi per raccontare la novità, perché di novità si tratta: Gesù è Risorto, è vivo! Il contrasto è stridente. Ma il timore di essere importuno, la fretta del rientro, la preoccupazione per le eventuali reazioni dei ragazzi mi hanno fatto riprendere la strada senza fermarmi. Poi, quasi subito, rincasando muto e deluso dalla mia prudenza, mi sono fatto queste domande: «Per te dov’è la forza della Pasqua? Quanto grande è il tuo convincimento della novità cristiana? Qual è lo spessore reale del tuo incontro con Gesù Risorto?».
Chiedo un po’ di benevolenza. Parto da questa esperienza reale per dire qualcosa del nostro Battesimo.
Le statistiche assicurano che in Italia il 98% degli italiani è battezzato (probabilmente tale valore si è un po’ abbassato per l’arrivo di persone provenienti da altra cultura e altre religioni). E molti si ritrovano cristiani senza aver mai deciso di diventarlo. Non è che chi non pratica o non pensa al suo Battesimo sia una persona meno sensibile ai valori, meno raffinata moralmente, meno dedita al prossimo. Ma essere cristiani è semplicemente un’altra cosa. L’essere cristiani ci situa in una responsabilità diversa.
Un indice abbastanza significativo di quello che sto dicendo è la diversità con cui viene celebrata la Pasqua rispetto al Natale. Molta gente frequenta il Natale. Invece le Veglie pasquali, che sono il centro della vita della Chiesa, sono povere di presenze. Il Natale – si dice – col suo messaggio di pace, di bontà, con le sue melodie pastorali e le tradizioni famigliari, è sentito da tutti. Perfino la tv ne parla e sovrabbonda di richiami natalizi, tralasciando quasi sempre riferimenti al Festeggiato. Eppure, la Pasqua è il centro teologico e temporale della fede cristiana. «Se Cristo non è risorto, vana è la nostra fede», già dicevano i primi cristiani (cfr. 1Cor 15,17). La Veglia pasquale è il momento più alto e significativo per il nostro cammino come comunità cristiana. È «la grande notte» nella quale i cristiani si connettono con la grande epica di Israele: liberazione dalla schiavitù, passaggio del mar Rosso, esodo verso la terra promessa, esperienza di un Dio presente che non sta “sopra”, ma “davanti” ai cammini di liberazione. La notte di Pasqua fa rivivere tutto questo. Gesù, dopo aver dato la sua vita sulla croce per amore, risorge e comunica la vita nuova a chi l’accoglie. L’antico esodo, adesso, lo si vive nel Battesimo. Allora ogni cristiano dovrebbe riprenderlo in considerazione seriamente e fare di nuovo “il passaggio” ad una vita nuova, che è la vita stessa di Gesù. Gesù, nella più solenne delle sue apparizioni davanti ai testimoni oculari, ha detto: «Battezzate» (cfr. Mt 28,19). Ci sarebbero molte cose da dire, ma penso subito al nostro personale Battesimo. Il Papa più volte in questi anni ci ha invitato a disturbare il nostro parroco per chiedergli di farci vedere sui registri quando siamo stati battezzati. In alcune famiglie c’è una piccola acquasantiera; c’è anche davanti alla porta della nostra chiesa. Quando intingiamo la mano nell’acqua e facciamo il segno di croce, facciamo memoria del nostro Battesimo e ricordiamo con quale amore siamo stati accolti nella famiglia di Gesù.

Vorrei soffermarmi sulle “tre parole” che vengono pronunciate nel momento del nostro Battesimo. Parole sconvolgenti e programmatiche: sono le stesse che sono state pronunciate su Gesù nel giorno del suo Battesimo al fiume Giordano. Basta la meditazione di queste parole per farci ritrovare la consapevolezza di cosa significhi essere un battezzato. Sono parole che grondano Bibbia, anche se sono brevissime, incisive, ma dietro vi stanno pagine e pagine di Sacra Scrittura, scritte per noi. Sono parole che esprimono intensità di relazione. Sono state rivolte a ciascuno di noi, come unico destinatario. Parole creatrici e arcane, come sono tutte le parole di Dio. Risuonarono in quel momento, ma riempiono tutto il tempo della nostra esistenza. La stessa dichiarazione d’amore indirizzata a Gesù dal Padre, viene, per così dire, indirizzata a ciascuno di noi per la nostra felicità. Non si finisce mai di gustarle. Risulteranno sempre nuove. Ci saranno momenti nei quali ci parranno addirittura incredibili, tanto sorprendono; alcune volte sono consolanti, soprattutto quando ci sentiamo sbagliati. Qualche altra volta sono un balsamo, mentre ci battiamo il petto riconoscendo i nostri peccati. Teniamole sempre presenti. Sono parole semplicissime. Ognuno le senta rivolte proprio a sé. Le faccia oggetto di meditazione durante la settimana, nei momenti di passaggio tra un’azione e l’altra, nei momenti di preghiera, anche quando si guida l’automobile. Ecco le tre parole.

«Tu sei figlio mio». È una dichiarazione. Molti testi sacri, anche delle altre religioni, concordano nell’affermare che, essendo creature di Dio, in un certo senso siamo figli di Dio. Ma noi lo diciamo con un altro significato, perché qui è svelata una relazione profonda. Siamo chiamati ad una relazione interpersonale con Dio. Siamo innalzati alla sua stessa guancia, possiamo rivolgere il nostro sguardo nei suoi occhi e ripetere senza fine: «Tu sei mio Padre».

«Tu sei l’amato». «Amato» è un participio che nelle Scritture viene usato per Isacco, figlio di Abramo, il figlio della promessa, sacrificato sul monte e riavuto, generato due volte (al tramonto del grembo sterile di Sara e sulla cima di una terribile obbedienza che chiedeva la sua immolazione).

«In te ho il mio compiacimento», cioè tu sei oggetto della mia gioia. Verrebbe da dire con uno scrittore cristiano: «Si può aggiungere splendore al sole, dolcezza al miele, felicità al paradiso?». Eppure, quest’affermazione è forte: tu sei gioia per il Signore. Che cosa trova di così appagante nella sua creatura? L’ha creata a sua immagine, l’ha destinata a partecipare alla sua vita. Se la lontananza genera nostalgia, il ritorno colma di gioia. In due passi del Vangelo sta scritto: «Si fa più festa in cielo per un peccatore che si converte che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7-10).
Questo è semplicemente il contenuto delle Scritture, è il linguaggio usato da Dio nelle sue parole ed è ciò che noi celebriamo in ogni Battesimo. «Tu sei figlio mio, l’amato, oggetto del mio compiacimento, della mia gioia».

Omelia nella Messa esequiale per don Armando Evangelisti

Talamello, 8 gennaio 2019

1Gv 4,7-10
Sal 71
Mc 6,34-44

Il Natale con le sue luci e le sue tradizioni è ormai passato, ma lo splendore del Signore Gesù, risorto e vivo in mezzo a noi, continua a brillare. Questa, cari fratelli e sorelle, è la sostanza della nostra fede; questo il programma della nostra azione pastorale e il fondamento della nostra speranza.
Che cosa si è manifestato nel Natale? Ce l’ha ricordato Giovanni nella sua Prima Lettera: «Si è manifestato l’amore di Dio in noi: … non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati». (1Gv 4,10). È con questa fede pasquale che siamo accorsi in tanti, e con profonda commozione, a portare il nostro saluto a don Armando, una delle figure più espressive della nostra Chiesa diocesana.
È conosciuto il suo cammino in mezzo a noi: parroco a Maiolo, poi a Borgo Maggiore; vicerettore e rettore del Seminario; parroco a Novafeltria e poi a Talamello; incaricato della pastorale famigliare. Molti lo ricordano come insegnante.
In circostanze come questa si è soliti sentire frasi di questo tipo, amplificate sui media: «Vivrai nel nostro cuore…», «Sarai sempre con noi… », «Sei vivo nell’insegnamento che ci hai lasciato… »: troppo poco! Queste frasi sono troppo povere rispetto a quello che noi crediamo. Memori di quanto dice Gesù a Marta e a Maria: «Tuo fratello risorgerà» (Gv 11,23), noi diciamo: «Don Armando, tu vivi in Gesù Risorto».
La morte non consente quell’ultimo chiarimento, né quell’ultima parola, né quell’ultima stretta di mano. Non si torna indietro. Ma la fede apre infinite altre possibilità e totalità di desideri.
Don Armando è stato molto amato dal Signore. Il Signore gli ha fatto dono di una intelligenza lucida e brillante, di una fede robusta e sicura. L’ha dotato di un temperamento forte e creativo, capace fino alla fine di vampate di entusiasmo. Il Signore l’ha chiamato al sacerdozio e, in questo stato di vita, non ha cercato carriera, né riconoscimenti, né titoli. Schietto fino all’impertinenza, ma in coscienza di verità. Il cristiano, il sacerdote, ciascuno di noi è grande perché «generato da Dio», non per opere compiute o per vanto di meriti. «Noi siamo opera sua» (Ef 2,10): questo il nostro vanto. Nel contempo sappiamo di essere circondati di infermità, segnati dai nostri limiti, condizionati dal nostro carattere. Voi avete conosciuto don Armando, la sua umanità, il suo zelo, la sua intraprendenza e la sua cultura. Chi non si è fermato alla scorza, è rimasto sorpreso dalla sua tenerezza: questa è stata la mia esperienza con don Armando. Mi viene in mente quello che diceva santa Teresa d’Avila di san Pietro d’Alcantara: «Quando io lo conobbi, era molto vecchio e così estenuato che sembrava fatto di radiconi d’albero» (S. Teresa d’Avila, Vida 27,17). E poi, se avevi la fortuna di stabilire un rapporto, di guardarlo negli occhi, scoprivi la tenerezza. Era una sorpresa! Chi gli è stato vicino, familiari, parrocchiani, sacerdoti, colleghi di scuola, amici, gli ha voluto bene. Don Armando è stato molto amato dal Signore.
E quali sono stati gli amori di don Armando? Chi è amato, ama a sua volta. Non so dare una precedenza: un amore non esclude l’altro. Comincio con l’amore alla sua chiesa, il santuario del Crocifisso (aveva legato il suo nome anche alla chiesa di Michelucci a Borgo Maggiore RSM, essendo parroco quando venne completata, ma io l’ho conosciuto recentemente). Me ne parlava spesso e sempre come la prima volta, della chiesa e, nella sua chiesa, del confessionale. Fu lì, in un colloquio intimo, che accolsi definitivamente le sue dimissioni e gli proposi di lasciare la parrocchia, colloquio che si chiuse con un abbraccio.
Un altro grande amore di don Armando: la gioventù. Quanta immaginazione, quanto entusiasmo, quante iniziative. Così dagli anni dell’insegnamento scolastico agli ultimi giorni col catechismo organizzato insieme ai genitori (ottima intuizione pastorale). E poi il coro… Sarebbe stato disposto a salire da Rimini per continuare a coltivarlo e garantire un servizio liturgico nel quale non mancasse il canto.
Non posso tacere, con un pizzico di ironia, i suoi assalti al Vescovo per destinare Casa Tomasetti alle iniziative giovanili. Non per sé, ma per i ragazzi. La realistica situazione (la sua età, il numero ridimensionato degli animatori e anche della popolazione giovanile) non l’ha dissuaso dall’insistere. Tuttavia, la Casa era ed è abitata dalle suore di cui ugualmente vedeva la provvidenziale presenza per la cura del Santuario e l’adorazione eucaristica, suore che fu proprio lui ad invitare.

La lettura evangelica ci ha parlato di una manifestazione (epifania) di Gesù come Messia, epifania della sua grandezza, della sua potenza, ma anche della sua misericordia: moltiplica pani e pesci. Il Messia ha compassione. Vede la gente come pecore senza pastore (cfr. Mc 6,34). Che cosa fa? Si mette ad insegnare: «Non di solo pane vive l’uomo» (Mt 4,4). È il primo servizio richiesto all’apostolo: indicare orizzonti e insegnare a trovare il senso della vita. E subito dopo la compassione per il pane che manca. Gesù insiste: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37). «Cominciate – aggiunge – col mettere davanti quel poco che avete: cinque pani e due pesci. E poi distribuite con me. Prestatemi mani, braccia e cuore per essere una mia presenza». E che altro è un prete se non questo? Un operaio evangelico, non a ore, non a cottimo, ma sempre… Tutto. Preghiamo per le vocazioni sacerdotali che vanno diminuendo. Chi ci spezzerà il pane della Parola e del sacramento? Preghiamo perché tanti giovani sappiamo accogliere e rispondere all’appello del Signore per un sacerdozio entusiasmante, gioioso, per una donazione senza risparmio. Val bene la pena di impegnare la vita per un tale ideale. Talvolta, l’ideale val più della vita stessa. Questa mia insistenza sulla preghiera è per ricordare una delle responsabilità che don Armando rivestiva in diocesi: l’Apostolato della preghiera. Preghiamo non solo per il suffragio di don Armando, ma per ottenere il premio alle sue fatiche, alla dedizione da lui dispiegata per tanti anni. Il Signore non può dimenticare, lui che non lascia passare un bicchier d’acqua fresca procurato ad un assetato (cfr. Mt 10,42). Il Signore non dimentica il più piccolo dei favori fatti a lui. Nessuno può separare dal Signore chi gli è debitore di un atto di amore: il Signore lo ripaga, lo contraccambia, lo ricompensa con un dono ancora più grande: «Oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,43). Così sia.