Omelia nella Domenica delle Palme

Pennabilli (Cattedrale), 14 aprile 2019

Is 50,4-7
Sal 21
Fil 2,6-11
Lc 22,14-23,56

1.

Abbiamo ascoltato, in questa domenica di apertura della Settimana Santa, il racconto della Passione del Signore secondo Luca. L’abbiamo sentito altre volte, ma ogni volta commuove. Dobbiamo serbarlo e meditarlo nel profondo e nel silenzio del cuore, oggi e nei giorni che seguiranno, lasciandogli liberare la forza capace di suscitare in noi non solo dei sentimenti di commozione e di gratitudine, ma anche propositi di conversione e di rinnovamento. Queste pagine del Vangelo ci aiutano a «conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, divenendogli conformi nella morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dei morti» (Fil 3,10-11): così san Paolo scriveva ai primi cristiani.
Consentitemi qualche parola sul Salmo che abbiamo pregato fra la prima e la seconda lettura, così legato alla pagina evangelica.
Penso che a tutti sia noto l’impegno della nostra Diocesi, soprattutto quest’anno, nella ricerca di una più grande consapevolezza del kerygma (il primo annuncio, il mistero della fede). La risposta che si dà al sacerdote quando pronuncia la parola «Mistero della fede», è kerygma: «Annunciamo la tua morte Signore, proclamiamo la tua risurrezione, nell’attesa della tua venuta».

2.

I primi cristiani sentivano che i Salmi (la grande preghiera della comunità di Israele) erano abitati da una presenza, come in filigrana (una presenza che non si vede ma che c’è), e li trovavano composti su dimensioni così grandi che solo l’evento pasquale poteva abbracciarle tutte. Nel giusto dell’Antico Testamento, sottoposto a sofferenze e a prove, ma salvato da Dio, essi vedevano il volto e il suono della voce del loro Maestro, sentivano echeggiare i lamenti della Passione di Cristo e poi la gioia della sua risurrezione (cfr. At 2,25-28). Ad essi (ai Salmi), più che all’esegesi moderna, la morte e la risurrezione di Gesù erano annunciate dall’Antico Testamento (cfr. Lc 24, 26-27.44; 1Cor 15,30).

3.

Tra questi Salmi bisogna riconoscere un posto speciale al Salmo 22 per la sua attenta descrizione dell’anima del giusto, così drammaticamente provato, per la straordinaria intensità della sua speranza, per la ricaduta salvifica universale. Ebbene, quel Salmo parla in modo straordinario di Gesù.

4.

Il Salmo 22 racconta di un uomo – da notare che è stato scritto molti secoli prima di Cristo – condotto a morte tra indicibili crudeltà. La sua vita se ne va, scorre via come l’acqua. Lo hanno ferito, legato mani e piedi e deposto nella polvere. I carnefici sono già pronti a dividersi le sue vesti. «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?», così egli grida.

5.

Questo grido, però, è preghiera, non disperazione: chi dispera distoglie decisamente il suo sguardo da Dio. Nel buio ecco un punto luminoso: il Dio apparentemente lontano è il “suo” Dio (da notare l’aggettivo possessivo), alle cui braccia era stato affidato nell’uscire dal grembo materno. Ad un tratto però, nell’abbandono estremo, prorompe un grido di giubilo: Dio gli ha ridato la vita!
La vicenda di questo giusto non è legata ad altro che alla completa fiducia in Dio, pur nel pieno della sua angoscia. Nella lettura liturgica ci sono tutt’e tre queste realtà: la prova a cui è sottoposto, la fiducia in Dio, la ricaduta salvifica. Quello che è iniziato come un grande lamento – «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato» – si conclude con una Eucaristia, cioè con una lode. Egli intona la lode di Dio nella grande assemblea. Offre un «sacrificio di rendimento di grazie» del quale gioiscono tutti i poveri di Jahvè. E l’orizzonte si allarga: anche le nazioni vengono coinvolte nella lode; un tempo smarrite, esse si ricordano di Dio e ritornano a lui dai confini della terra. È una liturgia che si espande e abbraccia chi è sceso nello sheol e su coloro che nasceranno. È già annuncio di risurrezione. Sullo sfondo di queste parole si racconterà la Pasqua di Gesù.
Il Salmo si chiude con queste parole: «A lui solo si prostreranno quanti dormono sottoterra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere…». E poi: «La mia discendenza lo servirà. Si parlerà del Signore alla generazione che viene; annunzieranno la sua giustizia al popolo che nascerà» (Sal 22,30-32). Ecco, allora, con quali sentimenti di vittoria e di gratitudine prolunghiamo la meditazione della Passione del Signore. Questo pensiero ci accompagni in tutta la Santa Settimana. Così sia.

Omelia nella V domenica di Quaresima

Pennabilli (Monastero Agostiniane), 7 aprile 2019

1.
Un silenzio che ci sorprende

Gesù sulle prime non dice nulla. Tace, come tace Dio (e noi talvolta rimproveriamo il suo silenzio). Ma quando Gesù apparirà al tribunale degli uomini, non sarà nel ruolo di un pubblico ministero, ma nel ruolo di un avvocato difensore. Parlerà: «Io non sono venuto per giudicare il mondo, ma per salvarlo» (cfr. Gv 12,47). Noi invece proviamo una sottile soddisfazione nel dir male degli altri, nel trovare argomenti di critica e poi di condanna con un piacere “maligno”, cioè degno del Maligno!
Gesù traccia dei segni sulla polvere. Scriveva davvero delle parole o delimitava simbolicamente uno spazio di perdono? (cfr. Ger 17,13).

2.
Una parola che rimanda a noi stessi

Per l’insistenza degli accusatori, la risposta finalmente arriva. È una risposta che stupisce, imprevista e imprevedibile. La palla viene rilanciata nel campo degli accusatori: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra». Secondo l’antico apologo: «Noi vediamo il male altrui, perché ben visibile davanti al nostro petto, mentre il nostro è dietro le spalle!».
Gesù ci rimanda a noi stessi. Giudicando gli altri severamente noi giudichiamo parallelamente noi stessi. Quella di Gesù è una parola che turba, stupisce, converte, e poi abbraccia…

3.
Un dono di vita. Ecco in un lampo luce di risurrezione

I garanti ed “esecutori” della Legge se ne sono andati. Restano solo «la misera e la Misericordia» (Sant’Agostino). Le pietre che tenevano ben strette nelle loro mani giacciono a terra inerti. Le ultime parole di Gesù sono per lei, la donna adultera: «Neppure io ti condanno; va’ e ora in poi non peccare più!». Gesù dona la vita a questa donna: può rialzarsi! Dona la sua vita: Gesù è ormai condannato e va incontro alla sua morte; esce nell’oscurità e la donna entra nella luce. C’è come uno scambio: «La mia vita per la tua!». Gesù la fa entrare nella sua risurrezione, associandola alla sua Pasqua imminente. La donna nasce di nuovo proprio quel giorno.
Gesù ci invita a “rivivere” in questi giorni di Quaresima e a far “rivivere” gli altri col perdono e la fiducia. Se la Quaresima è iniziata col «memento homo quia pulvis es…» si avvia alla sonorità di quest’altro grido: «Ricorda: risorgerai!». Quanti segni di risurrezione attorno!!!

Omelia nella celebrazione con la Comunità Terapeutica APG23 a Maiolo

Omelia nella V domenica di Quaresima
Maiolo, 6 aprile 2019

Is 43,16-21
Sal 125
Fil 3,8-14
Gv 8,1-11

Abbiamo iniziato la Quaresima con l’imposizione delle Ceneri. Il celebrante, in quella circostanza, pronuncia una parola molto severa: «Memento homo quia pulvis es et in pulverem reverteris (Ricordati, o uomo, che devi morire perché sei polvere)». Quando si incomincia la Quaresima così, capita di andare un po’ in crisi… Il tempo della Quaresima assomiglia a quello in cui la crisalide deve morire e spaccarsi perché venga fuori la farfalla coloratissima della vita nuova. C’è bisogno di un travaglio, di un tempo di penitenza, di conversione, di cambio di sistema di vita, di sacrificio. Vorrei dire, adesso, un’altra parola, che conclude la Quaresima e vorrei riempisse di gioia questo luogo dove ci troviamo a pregare: «Ricordati: risorgerai!». Quando vado alla Grotta Rossa o nelle Case della Papa Giovanni XXIII mi sembra che questa parola non sia solo un augurio, un modo di dire, perché veramente c’è gente che risorge, che cambia vita, e anche se ci sono infermità che sembrano non arrivare ad una soluzione, c’è tutto un popolo, una rete di persone da cui ti senti portato in alto: è la risurrezione. Ma ce ne sarà un’altra, quella che ci darà Gesù alla fine della vita, che sarà il massimo dello splendore. Prepariamoci alla risurrezione. C’è un versetto negli scritti di San Giovanni in cui l’evangelista dice: «Noi passiamo da morte a vita quando amiamo i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). A volte basta poco per amare, ma bisogna che si sblocchi il cuore. C’è il gesto grande di una mamma che dà la vita al suo bimbo, c’è il momento di intimità di due sposi, c’è la compagnia fra due amici, c’è un sacerdote che dice la Messa… A volte basta anche molto meno: uno sguardo, un sorriso, il portare insieme un carico pesante…
Nella pagina di Vangelo di oggi ho sottolineato alcuni verbi (esprimono l’azione che fa o che subisce il soggetto). Il primo: Gesù scrive col dito per terra. C’è una donna colta «in flagrante» che viene portata davanti a Gesù. Gesù sembra imbarazzato, ma non per la donna che gli sta di fronte: non vuole incrociare gli sguardi che accusano e giudicano. Allora si mette a scrivere con un dito per terra (Gesù sapeva leggere e scrivere!). Nel libro del profeta Geremia si dice che Dio scrive sulla polvere il nome di coloro che si allontanano da lui. Alcuni esegeti dicono che Gesù stesse scrivendo alcuni peccati dei presenti.
Il secondo verbo che sottolineo è: di nuovo Gesù si china. In quel gesto Gesù si fa piccino (quelli dietro non lo vedono) e responsabilizza i presenti: «Chi è senza peccato scagli la prima pietra (la pena capitale per quel peccato era la lapidazione)». Chinandosi Gesù sembra dire: «Non giudicate per non essere giudicati». Allora le pietre cadono dalle mani degli accusatori.
Il terzo: Gesù si alza… Gesù è rimasto da solo con la peccatrice. Si alza come si fa davanti ad una persona attesa, importante, a cui si deve rispetto. Cosa vede Gesù nei suoi occhi? Probabilmente la paura, la vergogna, ma soprattutto la speranza. Quella donna, guardata da Gesù in quel modo, sta per risorgere. Gesù le parla. Fino a questo punto del racconto nessuno ha parlato alla donna: l’hanno tirata in ballo, l’hanno portata in piazza, l’hanno sottoposta a quel giudizio. Ma Gesù le parla e dice due cose: «Va’… », come a dire: «Sei libera, continua il cammino della vita, non disperare, perché tu non sei il tuo peccato. Hai sbagliato, ma puoi ricominciare una nuova vita». «Va’… » è il verbo della missione. Quante volte Gesù l’adopera! Poi gli dice: «Non peccare più». Quanti insegnamenti per noi che siamo portati a giudicare gli altri… Come dicevano gli antichi, noi abbiamo sulle spalle due sacchi: uno davanti e uno dietro. In quella dietro di noi ci sono i nostri sbagli, che non vediamo mai. Invece, il sacco che abbiamo davanti è quello degli altri, sempre sotto i nostri occhi. Gesù, responsabilizzandoci, dice: «Vedi un po’ di risorgere anche tu, te ne offro l’opportunità».
«Ricordati: risorgerai! Anzi, sei già risorto».

Omelia nella celebrazione eucaristica nell’Insediamento dei Capitani Reggenti

San Marino Città (Basilica), 1 aprile 2019

2 Cor 5,18-20
Lc 15,1-3.11-32

Eccellenze, Signori e Signore,
un caloroso saluto a tutti.
La prima parola è “grazie” ai Capitani Reggenti che hanno concluso il loro mandato, contrassegnato da tanto impegno, da una presenza costante fra le componenti della nostra comunità civile, da un’attenta vigilanza e accoglienza (penso alle tante udienze a cui si sono resi disponibili). Sono stati anche un esempio di come si pensa, si vive, si integra la disabilità. Una comunità è matura non solo quando ha attenzione alla disabilità, ma quando in essa la disabilità viene onorata.
Saluto con deferenza i Capitani Reggenti che oggi si assumono la responsabilità di essere riferimento fondamentale, etico, sociale e politico della nostra Repubblica. Auguro che il loro servizio intensifichi quella possibilità di dialogo tanto necessario in questo tempo tra noi e la difesa appassionata dei diritti e dei doveri inderogabili della persona, della famiglia e dell’educazione.
Saluto con profondo affetto ecclesiale il Nunzio, Sua Eccellenza mons. Emil Paul Tscherrig, che ci porta anche fisicamente la vicinanza e l’affetto del Santo Padre. Lo preghiamo di farsi interprete presso papa Francesco del nostro affetto e dell’adesione al suo programma.

Vorrei avervi tutti compagni e alunni ai piedi del Maestro Gesù. Impariamo da Lui l’insegnamento più necessario, più utile e più bello: l’insegnamento su Dio. Infatti, lo scopo della parabola che è stata proclamata poco fa dal diacono, riferitaci dall’evangelista Luca, è di farci cambiare l’opinione che solitamente abbiamo di Dio. Le Sacre Scritture dell’Antico Testamento ci parlano spesso delle alleanze di Dio con l’umanità e quelle parole sono come altrettante note musicali che discendono sul foglio bianco. Nella pienezza dei tempi Gesù viene, distende il rigo musicale e quelle note finalmente diventano leggibili.
Preferisco chiamare questa parabola, solitamente detta “del figliuol prodigo”, la parabola “del Padre misericordioso”, perché tutte le linee narrative portano a lui. Ci sono i due figli coprotagonisti e tante altre comparse.
Facciamo attenzione al figlio più giovane. Se ne va da casa con la sua parte di beni, la sua eredità. In cerca di che cosa? Fondamentalmente in cerca di se stesso e della sua felicità. Il padre lo lascia andare; si direbbe quasi che sia un padre che ama la libertà del figlio, la provoca, la festeggia… e la patisce. Quel figlio insegue la felicità, ma si accorge che le cose sulle quali si è buttato hanno un fondo e che il fondo è vuoto: la sua è un’illusione di felicità da cui si risveglia tra porci, ladro di carrube per vivere!
La sua vicenda è una descrizione del peccato: peccato come discesa, viaggio ed esilio lontano da Dio; la miseria come perdita della gloria dell’uomo come immagine di Dio; la famigliarità coi porci, segno della morte dovuta al peccato. Ma il prodigo rientra in sé. Nel suo soliloquio sembra dimostrare d’aver preso coscienza del suo male. Riecheggiano le parole del profeta Geremia: «Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito; dopo essermi ravveduto mi sono battuto l’anca. Mi sono vergognato e ne provo confusione, perché porto l’infamia della mia giovinezza» (Ger 31,18-19).
Il prodigo sa di non avere più diritti. Si augura d’essere trattato come un avventizio. Cerca, in quello che fu suo padre, almeno un buon padrone. Torna, ma torna per fame non per amore. Torna per non morire.
Ora l’attenzione va sulla figura centrale, quella del padre. Il padre fa tutto da solo. Quello del figlio non è vero pentimento, è un pentimento interessato. Al padre basta anche un cenno, un passo, un alzar di sguardo. Perdona non con dichiarazioni, ma con una carezza.
Gustiamo i cinque verbi del perdono paterno: scruta l’orizzonte e vede; corre incontro incurante anche di compromettere la sua compostezza orientale; si commuove: è commozione viscerale, empatia; si getta al collo del figlio, lo bacia.
Segue la consegna di tre simboli. La veste: dignità riconsegnata; l’anello: sigillo dell’autorità che ha come figlio; i sandali, segno dell’uomo libero (lo schiavo cammina scalzo).
E poi c’è la festa.
Il figlio maggiore entra in scena di ritorno dal lavoro. Chissà se ama le cose che fa! C’è contrasto fra il suo cuore infelice e la festa che tracima dalla casa. Si informa. È imbronciato, protesta i suoi meriti. Il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore è fatto di osservanze meticolose, di austerità forzata, di virtù obtorto collo. Questo gli impedisce di entrare nella logica del padre, che è basata sull’amore gratuito. Qui c’è un padre che non è giusto: è di più, è amore incondizionato, eccedente!
Il più giovane si era sbagliato sul padre, il più grande continua a sbagliarsi. Lo pensano più padrone che padre, più autorità che autorevolezza, più spione che uno che ha cura.
Il finale della parabola è aperto. Capirà il figlio maggiore? Entrerà alla festa? Ma soprattutto: noi capiamo quello che abbiamo letto?
Le parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,18-20) mi riportano ad uno degli episodi più commoventi della Genesi. Narra di Giuseppe, il figlio di Giacobbe, spogliato di tutto, venduto ai mercanti d’Oriente dai fratelli gelosi di lui, fatto prigioniero in Egitto, poi diventato vicerè d’Egitto perché sa interpretare i sogni. Nell’epilogo del racconto lo si vede piangere sette volte (fra i personaggi della Bibbia è quello che piange di più, sette volte in poche righe di racconto). Sono lacrime per lo più di commozione, di gioia e di riconoscenza, per i fratelli ritrovati, per la tenerezza del padre, per l’abbraccio al fratello più piccolo, Beniamino. Il settimo pianto, invece, è di dolore, di delusione, di amarezza. Dopo la morte del padre Giacobbe i suoi fratelli ritornano nella paura perché non credono al perdono di Giuseppe: si sentono allo scoperto, senza protezione.
Giuseppe mi appare come figura di Dio. Non so se Dio piange quando i suoi figli pensano di doversi ancora procacciare il suo favore, quando non capiscono il suo cuore e sembrano non fidarsi di lui, anziché buttarsi nelle sue braccia, abbandonandosi alla confidenza. Dio fa il primo passo; la riconciliazione è già completa; è avvenuta, per così dire, unilateralmente, perché «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).

Omelia nella IV domenica di Quaresima

Pennabilli (monastero Agostiniane), 31 marzo 2019

Gs 5,9-12
Sal 33
2Cor 5,17-21
Lc 15,1-3.11-32

1.

Oggi tutta la Chiesa è alla scuola di Gesù, seduta ai suoi piedi per apprendere l’insegnamento più necessario, più utile e più bello: insegnamento su Dio. Scopo della parabola di Luca (15,11-32) è soprattutto quello di farci cambiare l’opinione che solitamente abbiamo di Lui. Le Sacre Scritture dell’Antico Testamento ci parlano molto di Dio. Azzardo un’immagine: è come se i racconti di Alleanza fossero scesi su un foglio bianco come una pioggia di notazioni musicali. Nella pienezza dei tempi Gesù viene a distendere il rigo musicale sulle note che finalmente divengono leggibili e svelano il “Canticum Patris”.
Nelle domeniche di questa Quaresima abbiamo ripercorso il cammino dell’Alleanza (un’unica Alleanza in verità con modulazioni diverse, da Noè ad Abramo, da Mosè a Giosuè, ma verso una piena e nuova Alleanza in Gesù).

2.

Preferisco chiamare la parabola di Luca: “La parabola del Padre misericordioso”. Tutte le linee narrative portano a Lui. Ci sono i due figli coprotagonisti e tante altre comparse.
Stranamente, nella casa paterna non ci sono donne. Papa Giovanni Paolo II suggeriva di cercare il femminile nelle “viscere” del Padre che si com-muove verso il figlio che torna (cfr. Dives in Misericordia nota 52). Lascio a ciascuno di attardarsi nella meditazione sui particolari che preferisce.

3.

Sul figlio più giovane.
Se ne va da casa con la sua parte di beni. In cerca di che cosa?
Fondamentalmente in cerca di se stesso e della sua felicità. Il padre lo lascia andare; è un padre che ama la libertà del figlio, la provoca, la festeggia, la patisce.
Quel figlio insegue la felicità, ma si accorge che le cose sulle quali si è buttato hanno un fondo e che il fondo è vuoto: la sua è un’illusione di felicità da cui si risveglia tra porci e ladro di carrube per vivere!
La sua vicenda è una descrizione del peccato: discesa, viaggio ed esilio lontano da Dio; miseria, perdita della gloria dell’uomo immagine di Dio; contatto coi porci, morte dovuta al peccato.
Il prodigo rientra in sé. Nel suo soliloquio sembra dimostrare d’aver preso coscienza del suo peccato. Riecheggiano le parole di Geremia:
«Fammi ritornare e io ritornerò,
perché tu sei il Signore mio Dio.
Dopo il mio smarrimento, mi sono pentito;
dopo essermi ravveduto mi sono battuto l’anca.
Mi sono vergognato e ne provo confusione,
perché porto l’infamia della mia giovinezza» (Ger 31,18-19).
Il prodigo sa di non avere diritti. Si augura d’essere trattato come un “giornaliero”. Cerca in quello che fu suo padre, un buon padrone. Torna per fame, non per amore. Torna per non morire. Come reagirà il padre?
Considerando lo sviluppo del racconto viene da esclamare: «O felix culpa»!

4.

Sull’iniziativa del padre.
Introdotti da questo grido – o felix culpa! – facciamo meditazione su uno dei versetti più commoventi della Scrittura.
Fa tutto il padre. Quello del figlio non è vero pentimento, è un pentimento interessato. Ma al Padre basta anche un cenno, un passo, un alzar di sguardo. Perdona non con dei proclami, ma con una carezza.
Gustiamo i cinque verbi del perdono paterno: scruta l’orizzonte e vede; corre incontro incurante di compromettere la sua compostezza orientale; si commuove: è commozione viscerale; si getta al collo; bacia.
Segue la consegna di tre simboli:
la veste (quella più bella? Quella di prima?), dignità riconsegnata;
l’anello, con il sigillo dell’autorità di figlio;
i sandali, segno dell’uomo libero (lo schiavo cammina scalzo).
E poi c’è la festa: parola che chiude questa prima parte della parabola e che ritornerà a suggellare la seconda parte.

5.

La meditazione di Luca (scriba mansuetudinis Christi).
Il pensiero del narratore (Luca) è al di là del puro racconto e invita a considerare i dinamismi della conversione. Nel giudaismo “conversione” era sinonimo di penitenza, implicando uno sforzo personale per dimostrare la sincerità del pentimento (digiuni, elemosine, preghiere). In Luca la conversione è gioia che scaturisce dall’incontro con Dio perdonante. Non è l’uomo che si salva da sé. Ma, aprendosi a Dio dal fondo della sua miseria, è nella disposizione che permette a Dio di colmarlo col dono della filiazione e della comunione.

6.

Il figlio maggiore.
Il figlio maggiore entra in scena. Sta tornando dal lavoro. Chissà se ama le cose che fa!
C’è contrasto fra il suo cuore infelice e la festa che tracima dalla casa. Si informa. È imbronciato e protesta i suoi meriti: non ha mai potuto fare le cose che ama. Sembra di sentire l’esortazione del salmista al giusto irritato: «Non irritarti per chi ha successo» (Sal 37,7).
Il genere di perfezione vissuta dal figlio maggiore gli impedisce di entrare nella logica del padre, basata sull’amore gratuito. Qui c’è un padre che non è giusto: è di più, è amore!
Lo scandalo del figlio maggiore fa emergere la gelosia sottesa e lo scombussolamento dei rapporti in quella famiglia: mettere a confronto le espressioni adoperate dal figlio e dal padre per descrivere le relazioni. Che opinione del padre hanno i figli?
Il più giovane come il più grande – per motivi diversi – si sbagliano sul padre.

7.

Racconto senza finale.
Il finale della parabola è aperto. Capirà il figlio maggiore? Capirà il lettore?
Le parole della Seconda Lettera ai Corinzi: «Vi supplichiamo in nome di Cristo, lasciatevi riconciliare» (2Cor 5,18-20) mi riportano ad uno degli episodi più commoventi della Genesi. Narra di Giuseppe, il figlio di Giacobbe spogliato di tutto, venduto ai mercanti d’Oriente, prigioniero in Egitto, poi diventato vicerè d’Egitto. Nell’epilogo del racconto lo si vede piangere sette volte (fra i personaggi della Bibbia è quello che piange di più). Sono tutte lacrime di gioia e di riconoscenza, per fratelli ritrovati, per la tenerezza del padre sempre amato. Il settimo pianto, invece, è di delusione, di dolore e di amarezza. Dopo la morte del padre i suoi fratelli ritornano nella paura perché non credono al perdono di Giuseppe: si sentono allo scoperto, senza protezione. Giuseppe è figura di Dio. Non so se Dio piange quando i suoi figli pensano di doversi ancora procacciare il suo favore, quando non capiscono il suo cuore e sembrano non fidarsi di lui. In Dio la riconciliazione è già completa; è avvenuta, per così dire, unilateralmente. «Dio è più grande del nostro cuore» (1Gv 3,20).

Omelia in occasione della Festa del perdono con i giovani

Borgo Maggiore (RSM), 29 marzo 2019

Gn 50,15-21

Vi consegno questo pensiero che ricavo dalla lettura dell’ultima parte del libro della Genesi (cfr. Gn 42-50). Mi sono imbattuto in un personaggio che, fra tutti, è quello che piange di più. Molte delle sue lacrime sono lacrime di gioia, di commozione, di riconoscenza, di stupore. Ma il settimo pianto è un pianto di dolore, un dolore del cuore.
Il personaggio a cui accenno è Giuseppe, figlio di Giacobbe, quello che i fratelli per gelosia e per invidia hanno spogliato di tutto e venduto a mercanti che scendevano in Egitto, finito poi nelle carceri egiziane. Aveva dei sogni nei quali era prefigurato che un giorno sarebbe stato il salvatore della famiglia, del padre, dei fratelli e di tutte le persone della tribù. Così accadde. Venne accolto alla corte del Faraone e, prevedendo la carestia che sarebbe sopraggiunta, aveva accumulato il grano in grandi riserve. Anche da Israele scesero per comprare grano. Un giorno vi si recano anche i suoi fratelli, senza sapere che era lui il grande amministratore di questa operazione. La prima volta che Giuseppe piange è quando riconosce i suoi fratelli. Si ritira in una stanza per piangere. Non vuole farsi vedere. Successivamente propone ai fratelli di portare con loro il fratello più piccolo, Beniamino, ma non vorrebbero perché sarebbe uno strazio per il padre. Sono costretti a farlo. Quando Giuseppe riconosce Beniamino si commuove e piange. In successivi momenti è lui che si fa riconoscere e abbraccia i suoi fratelli. Piange di gioia. Vuole che Giacobbe, suo padre, scenda anche lui in Egitto. Verrà, lo riabbraccerà e saranno altre lacrime di gioia. L’ultimo pianto, stavolta di dolore, avviene quando, morto Giacobbe, i fratelli si presentano a Giuseppe e gli dicono: «È morto il nostro padre. Adesso siamo come nudi davanti a te, non abbiamo più nessuno che ci protegga e ci difenda. Tu ti vendicherai, ora che non c’è più lui». In verità pensano che ora verrà fuori da Giuseppe tutto l’astio che ha verso di loro. Invece non è così. Giuseppe piange per la delusione, perché i suoi fratelli non riescono a credere nel suo amore fraterno, né a persuadersi che li abbia effettivamente perdonati.
Non so se il Signore piange. Ma vedo nelle lacrime di Giuseppe quelle del Signore quando ci sottraiamo alla sua misericordia. San Paolo scrive: «Vi supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,18-20). Dunque è lui che fa il primo passo verso noi. Davvero il suo cuore è riconciliato e ci precede. Vorrei che tornassimo a casa, stasera, con questa certezza dentro di noi: se, entrando in noi stessi, vediamo i nostri peccati e i nostri limiti, non disperiamo. Ci sovvenga un’altra parola della Scrittura: «Il cuore di Dio è molto più grande del nostro» (cfr. 1Gv 3,20). Viviamo così la Pasqua di quest’anno: credere all’amore di Dio, credere che Dio ci ama immensamente.

Omelia nella III domenica di Quaresima

Savignano Monte Tassi, 24 marzo 2019

Visita Pastorale nella parrocchia di Savignano Monte Tassi

Es 3,1-8.13-15
Sal 102
1Cor 10,1-6.10-12
Lc 13,1-9

Siamo stati messi di fronte a tre intense pagine delle Sacre Scritture. Per la meditazione scelgo una frase da ognuna delle tre.
La prima che mi ha colpito, può sembrare a prima vista secondaria. Il Signore parla a Mosè dal roveto ardente: «Andate verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,8). Proviamo a metterci nei panni dei beduini del deserto che sono appena riusciti a spezzare le catene della prigionia egiziana e sono incamminati verso una terra che non conoscono. Erano passati quattrocentocinquant’anni di esilio e veniva promessa loro «una terra dove scorrono latte e miele». Si trovavano in mezzo al deserto con serpenti e scorpioni, assetati e con il vento che sollevando la sabbia sferza il volto. Mosè ripete ancora una volta: «Il Signore ha detto che vi porterà in una terra in cui scorrono latte e miele». Questa parola viene da un roveto ardente, che brucia senza consumarsi. La Bibbia ci lascia intendere che si tratta di un fatto straordinario. Mosè si avvicina al roveto ardente, sente una voce: «Togliti i sandali, sei su una terra santa!» (Es 3,5).
Che cos’è il roveto ardente per noi oggi? E che cos’è «la terra dove scorrono latte e miele»?
Il roveto ardente che brucia senza consumarsi è l’altare della vostra parrocchia, dove ogni domenica si celebra la divina Eucaristia. Nell’Eucaristia è racchiusa la dichiarazione d’amore che non dovrebbe mai diventare abitudine per noi cristiani.
Papa Francesco ha riassunto al n.164 dell’Esortazione Apostolica Evangelii gaudium il succo di quello che viene detto attraverso questo segno, quello che noi chiamiamo – e nella nostra Diocesi di San Marino-Montefeltro è una parola che è tornata quest’anno in tutte le assemblee – il kerygma. Non è una sigla, è una parola greca che sintetizza l’essenziale del cristianesimo. Papa Francesco, nel documento Evangelii gaudium l’ha tradotta con un linguaggio attuale in questo modo: «Gesù Cristo ti ama, ha dato la sua vita per salvarti e adesso è vivo al tuo fianco ogni giorno per illuminarti, per rafforzarti, per liberararti». Questo è il kerygma, l’annuncio. I primi cristiani, quando arrivava un apostolo (ad esempio Sant’Andrea quando andava in Grecia o San Bartolomeo nelle Indie o San Pietro a Roma), chiedevano di raccontare di Gesù. I primi discepoli chiedevano: «Che cosa dobbiamo fare per diventare di Gesù?». A tutti veniva detto: «Credi all’amore di Gesù, ricevi il Santo Battesimo, perché nel Battesimo ti unisci a Gesù che muore e risorge». Una dinamica di morte e risurrezione che deve continuare. L’apostolo Giovanni ci ha lasciato una frase fulminante che è la risposta al kerygma: «Anche noi passiamo dalla morte alla vita, anche noi facciamo un esodo come il popolo nel deserto, dalla condizione di schiavitù a quella di libertà verso la terra dove scorrono latte e miele, perché amiamo i fratelli» (cfr. 1Gv 3,14). Ecco l’esodo. Tutto scaturisce da qui, da questa dichiarazione d’amore che, come ogni dichiarazione d’amore, è qualcosa di straordinario.
C’è un’urgenza: quella della nostra conversione. Il Vangelo racconta che sono andati da Gesù a dirgli: «Signore, hai saputo la disgrazia?». Era crollata una torre e diciotto persone erano morte sotto le macerie. Poi, in Galilea, al Nord, ci fu una rivolta. Pilato aveva mandato le truppe a sedarla, ma ci furono morti. In mezzo ai facinorosi morirono anche altre persone che non c’entravano. Ecco la domanda a Gesù: «Erano grandi peccatori quelli che sono caduti sotto la torre?» (cfr. Lc 13,2). Gesù spiega che Dio non manda le disgrazie, non si devono collegare in questo modo peccato e castigo: «Vi state sbagliando. Parlate di quei diciotto, ma quello che è avvenuto riguarda voi». Intendeva dire che bisogna vivere quello che succede come un appello a noi stessi, un appello alla conversione. Se suona una campana a morto non chiederti per chi suona, suona per te (H. Hemingway). I suoi rintocchi sono altrettanti inviti alla conversione. Primo messaggio: urgenza della conversione. Accogliamo l’invito non come una minaccia, ma come un’opportunità: secondo messaggio. Il Signore ci dà tutto il tempo perché possiamo convertirci, come nella mini-parabola del fico che non dà frutti. Il padrone del fico vorrebbe tagliarlo, ma il suo collaboratore lo invita ad aspettare. «Tornerò a zappare la terra d’intorno, a mettere il concime e a aspettiamo un altro anno… ». Così fa il Signore con noi. Ecco la Quaresima. Iniziamo a preparare la Confessione di Pasqua, per sentire e gustare il perdono del Signore. Mettiamoci davanti ai nostri doveri verso Dio, verso il prossimo e verso noi stessi. Che sia davvero una Pasqua di risurrezione. Così sia!

Omelia II domenica di Quaresima

Pennabilli (Cappella del Vescovado), 17 marzo 2019

Gen 15,5-12.17-18
Sal 26
Fil 3,17- 4,1
Lc 9,28-36

Siamo all’inizio del cammino quaresimale. Destiniamo ai nostri fratelli, nella realtà del corpo mistico, i frutti dell’unione con Dio: preghiera, impegno, sacrifici, vittorie. Quando ne abbiamo l’occasione, condividiamo ispirazioni, pensieri, esperienze spirituali. Possiamo contare sulla grazia di Cristo, sull’ intercessione della Vergine e dei santi. Possiamo godere della generosità dei nostri fratelli che, insieme a noi, vivono questo tempo di grazia: la Quaresima è un cammino e un combattimento che si fa insieme; assomiglia all’esodo del popolo di Dio verso la terra promessa.
Questa settimana, la seconda, brilla davanti a noi l’icona della Trasfigurazione. Gesù manifesta la sua gloria mentre prende la decisione di salire a Gerusalemme, dove sperimenterà la sua umana debolezza, la solitudine, il rifiuto e l’abbandono. È lì, paradossalmente, che appare il suo splendore. Una lezione importante per noi che non sappiamo vivere bene i passaggi difficili e oscuri. Ci sono momenti in cui ci sentiamo “fatti male”; siamo insoddisfatti e portati a rammaricarci e ad essere tristi. Indugiamo nel negativo e perdiamo tempo a “leccarci le ferite”, seminando attorno a noi malumore. C’è una risorsa sulla quale possiamo contare: vederci come Dio ci vede, con la stessa tenerezza. Accade nella nostra vita qualche cosa di straordinario, che può essere rappresentato dalla metafora del bruco che abbandona il suo bozzolo per librarsi in volo come farfalla.
In una recente Confessione, dopo il saluto del confessore, apro l’accusa dei peccati con queste parole: «Ecco che cosa c’è nella mia vita…». Il confessore mi ferma subito: «Ma c’è il Signore nella tua vita». Lo dice con una tale convinzione che mi fa trasalire e guardare la mia vita con la tenerezza di Dio. Devo confessare prima di tutto che sono amato! «La trasfigurazione – scrive Silvano Fausti – comincia quando, invece di pensare e ascoltare noi stessi, ascoltiamo lui e pensiamo a lui. È la morte dell’uomo vecchio e la nascita dell’uomo nuovo».

Omelia nella Celebrazione eucaristica nella Giornata di digiuno e preghiera per la protezione dei minori

Valdragone (RSM), 13 marzo 2019

Gio 3,1-10
Sal 50
Lc 11,29-32

  1. Grazie

Grazie per aver accettato l’invito a vivere insieme e in tanti questa serata di preghiera e digiuno per le vittime degli abusi e per una cultura del rispetto.
Siamo qui per dire forte che i bambini, i ragazzi, le persone fragili sono pupilla dei nostri occhi.
Siamo qui per ricordare il 6° anniversario dell’elezione di papa Francesco: a lui vogliamo arrivi la nostra unità e il nostro impegno nella linea da lui tracciata. Senza esitazione.
Siamo qui davanti al Cuore Immacolato di Maria per aprire il nostro cuore colmo di amarezza per il dolore di chi ha sofferto e soffre a causa degli abusi, per lo scandalo che patiscono quanti vedono venir meno la fiducia nella Chiesa, per l’umiliazione subita dalle comunità cristiane e da tanti che in esse sono impegnati (vescovi, sacerdoti, consacrati e laici).

2.

La Parola di Dio, questa sera, ci viene incontro, ci fa rialzare il capo, ci mette nella verità.
Giona, il profeta, prima timido e titubante, prende coraggio e sale verso Ninive a denunciare il male e ad invitare a conversione. Ed è per la forza della Parola scesa su di lui che proclama: «Ancora quaranta giorni e Nìnive sarà distrutta», ma ne basteranno molti meno. In capo al terzo giorno Ninive si converte. Come è stato per Giona, così per noi: la denuncia di chi ha avuto coraggio, l’ascolto e la decisione di papa Francesco.
La nostra denuncia si rivolge a tutta la società, al mondo e agli uomini di Chiesa che hanno tradito la loro missione. Ma nella denuncia è contenuta la forza della misericordia e della speranza.

3. Penitenza e conversione

La penitenza e il digiuno producono un frutto buono per gli abitanti di Ninive: la conversione. Penitenza e digiuno sono spesso pratiche dimenticate. Eppure, esprimono, insieme all’anelito verso Dio, libertà e forza interiore (ascesi), rendono forte il nostro spirito, e soprattutto ci fanno partecipi del dolore altrui: «Quando un membro soffre, tutte le membra soffrono con lui». Nel digiuno e nella preghiera si sbriciola la trave che è nell’occhio e allora c’è luce per un giudizio che salva. Interessante notare che penitenza e digiuno a Ninive non sono praticati solo dal re o da una cerchia ristretta, ma da tutta la città: «Uomini e animali, armenti e greggi… ». La Parola di Dio sembra dirci che l’invito a conversione riguarda tutti. Va risolto dal popolo intero. Occorre pertanto una risposta corale come Chiesa e come persone di buona volontà: richiesta di perdono, ma anche proposta di un’alternativa positiva nelle relazioni, nella società, nella Chiesa.
Nel momento in cui c’è il riconoscimento dell’errore, l’atto di penitenza e il digiuno interviene il Signore con la sua Misericordia, come accadde con Davide. E si mette una base solida ad un nuovo stile di vita e ad una nuova cultura.

 

4. Accompagnare sempre

«Crea in me, o Dio, un cuore puro e rinnova in me uno spirito saldo» (Sal 50,12). È una Parola particolarmente forte per noi questa sera. Nella società di oggi sembra che il cuore puro ognuno se lo possa dare da sé. In realtà, il peccato uccide: «Siamo morti a causa del peccato» (cfr. Rom 6,23; Ef 2,1). La vita viene da Dio. Nell’orgoglio di farsi la vita propria non c’è spazio per il perdono; è stato così per Giuda che ha rifiutato anche l’ultima offerta, mentre Ninive ascolta Giona e si converte. A Ninive è arrivata la salvezza perché si è ascoltato anche chi diceva cose scomode. Necessità dell’ascolto!
Il Salmo 50 spalanca il cuore al perdono. In molte vittime il perdono c’è già. Ci sono vittime di abusi che hanno saputo e sanno mantenere la fede. Sono i “confessori della fede” di oggi, che dimostrano di amare molto la Chiesa, aiutandola a venir fuori – anche con la denuncia – da una situazione di corruzione.
Giova ricordare come il Salmo 50 è stato attribuito a Davide e da lui pregato dopo il suo peccato: abuso di potere, di coscienza e sessuale fino all’omicidio del fedelissimo, ancorché straniero, Urìa. Davide prende coscienza del suo peccato e si arrende. Il profeta Natan interviene col racconto di una parabola e sa tirar fuori il positivo che c’è in lui nonostante il peccato, ossia il suo senso di giustizia. Fare luce, non nascondere il male. Curare, quando il male viene da una patologia. Punire, come rimedio e riabilitazione. Accompagnare sempre!

Il brano evangelico ci offre un annuncio luminoso: «Ed ecco qui vi è uno più grande di Giona». Anche per noi, qui, stasera, nella nostra Diocesi, risuona l’invito a guardare al Cristo Risorto e a mettere nuovamente lui al centro. A lui – lo stiamo facendo in molte circostanze della nostra vita pastorale a partire da quelle «prime luci dell’alba» che già ci abbagliano – chiediamo che si rafforzi la fede in tutti. Chiediamo di stare saldi in questa prova. Ci renda capaci di attraversare la piaga come lui ha attraversato la sua fino all’esperienza dell’abbandono del Padre: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Siamo stati salvati dall’umiliazione del Figlio di Dio. Questo ci dà coraggio. Attraversare la piaga è trovarsi in colui che contiene la risurrezione, il nuovo inizio, il “terzo giorno” («Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà… Dopo due giorni ci ridarà vita e il terzo ci farà rialzare», Os 6,1-2).
È nella notte oscura che la luce della fede brilla più pura nei nostri cuori. Quella luce ci mostrerà vie di rinnovamento di vita cristiana per oggi e per domani.
Non siamo la Chiesa dei perfetti. Fin dall’inizio del cristianesimo, la Chiesa ha combattuto contro la tentazione ipocrita di considerarsi la comunità dei giusti e irreprensibili. Idea pericolosa oltre che ipocrita, perché semplicemente annulla il cuore del Vangelo: siamo il popolo dei perdonati, di coloro che sono stati guardati da Dio con misericordia e benevolenza. Non siamo fieri delle nostre cadute. Anzi, ne soffriamo. Ogni giorno ci battiamo il petto. Anche i preti cadono. Anche i vescovi. Soffriamo di questo, ma non tracciamo recinti. Mentre predichiamo la profonda differenza tra ciò che è bene e ciò che è male, respingiamo la tentazione di dividere i buoni dai cattivi. Siamo coloro sui quali si è riversata la compassione di Dio. Ma non ci stiamo quando una certa opinione pubblica tende a fare di ogni erba un fascio e morbosamente sembra godere del male altrui (specie di chi è nella Chiesa).
Siamo la Chiesa di Gesù, fatta di peccatori ma santa per la sua presenza, per la testimonianza piena di luce e di amore di tanti testimoni, per lo sforzo educativo di tanti maestri.
Cari amici, la Madonna ci custodisce. E quando le cose sono difficili – dice papa Francesco – preghiamo il “Sub tuum presidium”: nei momenti di turbolenza dobbiamo andare sotto il manto della Santa Madre di Dio:

«Sotto la tua protezione troviamo rifugio
Santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche di noi
che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta».
Così sia!

Discorso alla Veglia di riflessione e preghiera per la Giornata Internazionale della Donna

Serravalle (RSM), 7 marzo 2019

“Quale fecondità?”

  1. Grazie

Domani si celebra in tutto il mondo la Giornata internazionale della donna e noi questa sera abbiamo voluto prepararci nella preghiera a prolungare il grido di gioia di Adamo quando fu posto di fronte ad Eva. La prima parola che la Bibbia registra sulla bocca di Adamo è la meraviglia: «Questa volta sì, essa è carne dalla mia carne e osso dalle mie ossa» (cfr. Gen 2,23). Attraverso i testi, molto ben preparati, di questa Veglia ci troviamo in questa lunghezza d’onda di lode, di ringraziamento.
Dobbiamo riconoscere che la nostra salvezza, l’incarnazione del Verbo, avviene attraverso il frutto di un grembo, il grembo di Maria. Le Scritture sono piene di buone notizie che provengono dalla donna. Pensiamo «alle prime di luci dell’alba», nelle quali è stata annunciata la risurrezione di Gesù. Le donne sono state le prime messaggere, le prime che hanno avuto il coraggio di tornare al sepolcro. Hanno saputo attraversare quel buio e lì hanno potuto constatare la sorpresa: «È risorto!» (Mc 16,6).

  1. Perdono

Questa Giornata Internazionale ha sicuramente anche una valenza penitenziale, perché il mondo non ha sempre riconosciuto e rispettato la donna. Spesso la donna è stata discriminata, oggetto di abusi, vittima di una cultura che l’ha resa subalterna al potere dell’uomo. Siamo qui per chiedere perdono anche per tutte le donne che vengono uccise, vittime della violenza di ogni tipo.
Anche la Chiesa, nella sua storia, non sempre ha valorizzato la donna, non sempre ha saputo cogliere il genio femminile.
Il Concilio Vaticano II nella Costituzione Pastorale Gaudium et Spes ha una pagina molto bella nella quale dice grazie per tutto quello che il mondo dà alla Chiesa, mentre la Chiesa, da parte sua, ha tanto da dare al mondo: c’è uno scambio di doni (cfr. GS 40-44). Non dobbiamo temere di riconoscere che la nostra fede viene stimolata dalla cultura e dal progresso umano, non senza l’ispirazione dello Spirito Santo. Oggi nella Chiesa possiamo constatare la fecondità delle donne nelle opere, nella loro presenza nell’apostolato, nella vita consacrata. Ma ancora molti passi sono da fare. C’è bisogno di conversione. Siamo qui stasera anche per riconoscere che tante volte il grembo non si apre al dono della vita. Ci sono sicuramente cause dovute alle politiche famigliari, alla mentalità che ci circonda e che condiziona, all’egoismo. Dobbiamo pregare molto perché le famiglie siano coraggiose e sempre più aperte alla vita. Non possiamo lasciare nulla di intentato per assicurare una degna accoglienza della vita.

  1. Eccomi

Siamo qui, donne e uomini, per dire come Maria il nostro “eccomi”, la nostra disponibilità alla fecondità. In questa traccia di preghiera siamo stati provocati da questo punto di vista, noi consacrati per primi, ma anche le persone che vivono la condizione della vedovanza, e chi è “single”: tutti siamo invitati alla fecondità.
Penso che quando saremo davanti al Signore dovremo portare frutti. Forse le nostre mani saranno sporche, il Signore le purificherà; l’importante è che le nostre mani non siano vuote.